Alcuni anni fa la casa editrice Einaudi ebbe l’intuizione di utilizzare come slogan promozionale una splendida frase tratta dalle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar: «Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro l'inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire». In questi tempi di crisi il senso di tale massima dovrebbe essere esteso anche alla Scuola italiana. Che invece, da almeno due decenni, sembra la metafora della volontà di (auto)annientamento della cultura e, sovente, del buon senso. Non vi è pseudo-teoria o assioma pedagogico che non siano stati riferiti al grande pubblico come nuova frontiera della modernità. L’ultima novità è apparsa sul “Corriere della Sera” on-line: un dossier dall’eloquente titolo Ha ancora senso imparare il corsivo? in cui si riferisce il serissimo dibattito sorto negli Stati Uniti circa l’utilità dell’insegnamento del corsivo ai bambini delle scuole elementari. In un’epoca dominata dall’uso delle tastiere, argomentano alcuni, perché perder tempo ad apprendere il corsivo, così noioso e difficile? Basta imparare a scrivere in stampatello e poi via con la tastiera! La questione poi è diventata politica, dal momento che, per i suoi avversari, il corsivo è “di destra”. Il motivo di questa o altra coloritura politica sfugge a chi scrive, come a chiunque non si sia appassionato a dibattiti di portata fondamentale sul genere “Tex Willer è di destra o di sinistra?”.

Nel dossier del “Corriere” un pediatra sostiene a spada tratta l’abbandono del corsivo, un oggetto antiquato, e l’uso del solo stampatello, affermando: «Se il corsivo ormai non esiste sui libri che leggiamo, né sul computer, né su Internet, né sugli smartphone, né sui social network, perché usarlo a scuola?».

Viceversa gli esperti di psico-pedagogia interpellati rilevano l’importanza dell’apprendimento del corsivo nello sviluppo psicologico e cognitivo dei bambini e segnatamente «quanto sia cruciale nella crescita, nel rapporto occhio-mano, nella sequenzialità delle parole che si riflette in sequenzialità del pensiero, nell’originalità del tratto e nelle competenze di analisi e sintesi in rapida sequenza. […] Ha una valenza profonda nell’acquisizione di competenze basilari di ordine cognitivo e psicomotorio e di abilità manuali e di pensiero».

La posizione di chi vuole abolire il corsivo perché inutile rappresenta l’ennesima manifestazione di coloro che, magari in buona fede, pensano vada buttato tutto ciò che non è ritenuto economicamente utile. Come se, visto che quasi più nessuno nel mondo usa il latino e l’italiano, si decidesse di abolirne l’insegnamento nelle nostre scuole per adottare solo l’inglese!

In realtà essi ignorano (o fingono di ignorare) che toccare i meccanismi di apprendimento dei bambini significa manipolare le loro personalità e capacità di apprendimento, nonché, in prospettiva, la loro stessa esistenza futura e, con essa, la società che verrà. Non si tratta ovviamente di combattere inutili battaglie contro la tecnologia ma di affrontare i progressi tecnologici con lungimiranza. Pare infatti ripetersi anche con la straordinaria rivoluzione operata dall’informatica ciò che si verifica puntualmente a ogni salto di qualità nella modernizzazione: il falso mito di un “uomo nuovo”, che finisce però per essere duramente smentito dalla cruda realtà. Come scrisse nel lontano 1969 il grande storico Carlo Maria Cipolla, «istruendo un selvaggio nelle tecniche più avanzate, non se ne fa una persona civile; se ne fa solo un selvaggio più efficiente» (Istruzione e sviluppo. Il declino dell’analfabetismo nel mondo occidentale, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 120). Cipolla scriveva quando si andavano affermando le istituzioni scolastiche della società di massa e indicava la via dell’allungamento dell’obbligo scolastico come un elemento irrinunciabile per la crescita economica, culturale e civile. Egli intendeva al contempo avvertire che un’istruzione senz’anima e senza valori non avrebbe condotto da nessuna parte. Purtroppo i buoni libri di rado vengono letti dai politici e opinion makers mentre le promesse più assurde trovano facilmente il modo di abbacinare il grande pubblico.

La progressiva eliminazione dei contenuti basilari dell’istruzione, specie quelli che richiedono una qualsivoglia forma di impegno personale - espressione considerata alla stregua di una bestemmia dalla vulgata burocratica e giornalistica imperanti - costituisce un tipico risultato di un’ideologia regressiva che danneggia soprattutto quei ceti sociali più umili e poveri che finge di voler sostenere. In Europa l’accesso all’istruzione primaria pubblica e gratuita facente perno sull’alfabetizzazione è stato il risultato di quasi due secoli di dure battaglie politiche e culturali. Ciò che oggi molti disprezzano, la Scuola per tutti, è stata una delle conquiste più significative del XX secolo, perché ha rappresentato un eccezionale veicolo di mobilità sociale: generazioni di figli di contadini od operai hanno potuto studiare e migliorare la propria condizione esistenziale come mai nel passato.

Nell’ultimo ventennio la Scuola pubblica ha però subito un processo di degradazione sociale, economica e culturale. L’elenco delle cause delle responsabilità è alquanto lungo e articolato: continue riforme, spesso contraddittorie e confuse, burocratizzazione esasperata (vedi le bocciature scolastiche annullate con ordinanze dei TAR) e applicazione di teorie pedagogiche strampalate. Infine la costante de-qualificazione del corpo docente, dovuta alla trasformazione dell’insegnamento in una branca del pubblico impiego e alle periodiche immissioni in ruolo ope legis (ossia senza alcuna selezione reale volta a verificare le qualifiche e le conoscenze). Se oggi la Scuola in qualche modo ancora regge, è merito della dedizione di moltissimi insegnanti e presidi bravi e capaci.

Da parte loro i diversi Governi hanno operato continue riduzioni dei finanziamenti, poiché l’istruzione resta, malgrado i tagli, la principale voce di spesa del bilancio dello Stato. Quindi, non appena si apre un buco nelle finanze statali, via con le forbici: del resto, secondo il senso comune, se un’istituzione pubblica non è economicamente produttiva, perché finanziarla con i soldi dei contribuenti? Tanto - recita la consueta retorica nazionale - la Scuola italiana è fra le migliori del mondo e quindi se la caverà ugualmente. E qui casca l’asino. È stato recentemente pubblicato il risultato di un test commissionato dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) su un campione di 166.000 persone fra i 16 e i 65 anni in 24 paesi avanzati. Il test mirava a verificare le competenze della popolazione adulta per quanto concerne l’alfabetizzazione e la matematica. Esso ha mostrato come il punteggio medio degli Italiani sia al di sotto della media dei paesi OCSE e, più nello specifico, che oltre il 70% non possiede le competenze alfabetiche e matematiche ritenute indispensabili per “vivere e lavorare nel XXI secolo”.

Sono dati che dovrebbero fare riflettere la classe politica che invece sembra oscillare fra riforme di corto respiro che celano tagli di bilancio, meglio se lineari (tutti scontenti uguale nessuno scontento) e le sirene della demagogia sindacal-populista (assunzioni a pioggia in cambio di stipendi da fame e niente valutazione dei docenti). È evidente che, se vogliamo dare un futuro alle giovani generazioni tramite l’istruzione, occorre abbandonare le scorciatoie, come ad esempio la riduzione degli anni di scuola, al solo scopo di ridurre ulteriormente la spesa pubblica, e puntare sulla ri-qualificazione dell’insegnamento e degli insegnanti, rinunciando a creare precariato e investendo risorse nell’innovazione, nell’edilizia scolastica e nell’idea che il sapere non è un regalo ma una conquista frutto di impegno e fatica.