Ci sono quattro italiani in un bar (tranquilli, non è una barzelletta). Tre su quattro, assai fiduciosi, garantiscono di essere perfettamente in grado di individuare le notizie false propinate su Internet: dai social network ai blog, fino ai siti web, inclusi quelli dei media professionali. Uno solo ammette di sentirsi piuttosto inerme. Però ‒ quando il barista chiede se pensano che, in generale, la gente sia brava a schivare le fake news ‒ le stesse quattro persone garantiscono che solo un italiano su tre ne è davvero capace. Insomma, almeno due dei tre avevano garantito di sentirsi sicuri di sé, in realtà si sopravvaluterebbero.

Questa circostanza non rassicura per quel che riguarda la vulnerabilità rispetto alle bufale che scalpitano on-line. Eppure è ciò che risulta da Media e fake news, il sondaggio realizzato da Ipsos (società multinazionale di ricerche di mercato e consulenza) per Idmo (Italian Digital Media Observatory), l’hub nazionale contro la disinformazione coordinato dal centro di ricerca Data Lab dell’Università Luiss Guido Carli. L’Idmo ha indagato sulla fiducia e sui comportamenti nei confronti dell’informazione e delle fake news. È stato esaminato un campione casuale nazionale rappresentativo della popolazione italiana tra i 18 e i 65 anni, in base a genere, età, livello di scolarità, condizione occupazionale, area geografica e dimensioni del Comune di residenza. In tutto, sono state realizzate mille interviste, tra l’1 e il 4 febbraio 2022.

I ricercatori hanno rilevato che gli italiani dicono di non avere dubbi sul significato del termine fake news e di sapere che esistono. Inoltre, quasi i tre quarti ‒ il 73% ‒ dichiarano di essere in grado di riconoscerle (percentuale che arriva quasi all’80% tra i più giovani). Guarda caso, la stessa fiducia non è riposta nella capacità altrui: solo il 35% ritiene che le altre persone siano in grado di distinguere le notizie vere da quelle farlocche. Insomma, di fronte a questa vacillante sicurezza (o traballante presunzione, che dir si voglia), viene la tentazione di citare una frase attribuita spessissimo, sul Web, a Winston Churchill: «Una bugia fa in tempo a compiere mezzo giro del mondo prima che la verità riesca a mettersi i pantaloni».

Dato che l’ex primo ministro del Regno Unito, celebre per la sua resistenza contro la guerra nazifascista, ci ha lasciati a 91 anni nel 1965 ‒ un trentennio prima dell’avvento del web ‒ sorge il dubbio che le fake news siano il pane quotidiano della propaganda (e non solo) dalla notte dei tempi, come d’altra parte ci insegna la storia dell’umanità. Tuttavia, allarma il fatto che Internet abbia trasformato il mondo, nel bene e nel male, in una gigantesco bar virtuale, dove si chiacchiera assai e in cui aumenta in modo esponenziale la sindrome di Pinocchio; con i risultati che abbiamo visto, per fare alcuni esempi recenti, durante l’emergenza pandemica e nel corso della guerra ignobile scatenata dalla Russia in Ucraina.

Con questa consapevolezza, torniamo ai dettagli del sondaggio Media e fake news. Risulta che tra i più giovani (18-30 anni) e i più scolarizzati sono maggiormente frequenti «le attività di controllo per analizzare l’attendibilità e affidabilità delle informazioni online e, quindi, proteggersi dalla disinformazione». Però come si informano gli italiani? La stragrande maggioranza (7 su 10) lo fa soltanto per mezzo di fonti gratuite e appena 1 su 4 è disposto a pagare per accedere ad informazioni giudicate affidabili. Le notizie considerate più diffuse e più pericolose sono quelle «comunicate o interpretate in modo intenzionalmente modificato allo scopo di favorire particolari interessi». A proposito della genesi delle frottole on-line, poco più di 60 italiani su 100 sostengono che chi le diffonde sui social network «sia consapevole del fatto che sono notizie false» e il 37% ritiene che la principale spinta sia economica, mentre il 36% pensa che il diffusore di frottole lo faccia convinto di dare una notizia vera e che la sua principale motivazione sia di carattere sociale (29%).

L’indagine rileva inoltre che «tra i più giovani e i più scolarizzati è più diffusa la fiducia nella propria capacità di distinguere fatti reali da fake news (quote sopra al 75%), mentre tra i più adulti è maggiormente diffusa la fiducia nella capacità delle altre persone (40%)». Questo fenomeno suscita preoccupazioni? Eccome. «Quasi il 90% degli intervistati sostiene che la disinformazione sia diffusa in Italia e una quota simile si dichiara preoccupato per questo. Quest’ultimo dato risulta più basso tra i più giovani, dove i preoccupati ammontano al 78%».

Comunque un italiano su 9, a prescindere da quanto si senta sicuro di individuare le bugie internettiane, giura di «fare almeno un’attività di controllo davanti a un’informazione online». Come? Il 50% la verifica la credibilità dell’informazione cercando di informarsi meglio e controllando su diversi siti. Il 44% controlla anche l’autenticità dell’indirizzo del sito web e il 31% verifica se è regolarmente aggiornato. Tanti comunque non si preoccupano di accertare la fondatezza di ciò che leggono, vedono o ascoltano. Semmai le attività di controllo sono diffuse soprattutto fra i più giovani e coloro che hanno titolo di studio più elevato: «il 61% si accerta di autori e link, il 56% fa comparazioni con altri indirizzi web, il 38% bada che il sito sia aggiornato. Percentuali che crollano tra i più adulti e i meno scolarizzati».

Però c’è un problema. Che cosa bisogna intendere per «affidabilità delle informazioni»? Pochi negano che una notizia pubblicata sulla pagina di un divulgatore ‒ dallo scienziato al debunker, dallo storico all’economista ‒ sia più credibile di altre prive di riscontri documentari e/o scritte da persone qualsiasi. Tuttavia, quasi tutti ritengono che la ripresa di una notizia da parte di «diverse fonti di informazioni sia segno di affidabilità; aspetto di per sé non del tutto vero». Non solo. Il 60% ritiene che «una notizia sia più affidabile quando condivisa da tante persone (quota più alta tra i più giovani e i meno istruiti)» e il 55% che «sia più affidabile se condivisa da un amico molto attivo sui social».

Infine, ammesso e non concesso che una persona riesca a individuare una palese baggianata on-line, che cosa deve fare? «Anche nel caso dei comportamenti corretti da avere davanti a un’informazione ritenuta falsa, gli italiani mostrano confusione», si legge nel rapporto. Su 100 persone, 85 sanno che è giusto segnalare tale informazione con i sistemi messi a disposizione dai social (la quota è meno alta tra i più giovani e tra i meno istruiti). Invece l’80% pensa che sia una buona idea condividere la fake news, sottolineando nel proprio post che si tratta di notizie prive di fondamento. Peccato che, segnalano i ricercatori, sia un «comportamento errato, in quanto partecipa alla diffusione stessa della notizia falsa». Soltanto poco più del 30% pensa, giustamente, che non rilanciarla sia la scelta corretta e, soprattutto, più utile per evitarne la propagazione.

A proposito di notizie false, è giusto dare un nostro piccolo contributo al debunking. Quella frase sulla fulminea bugia che si aggira per il mondo ‒ citata prima e attribuita a Churchill dalla maggior parte dei siti (italiani e stranieri) dedicati agli aforismi ‒ in realtà non è mai stata pronunciata dall’ex premier britannico (nel senso che non ci sono prove di alcun tipo). Per scoprire questa innocua falsità è stato necessario cercare l’aforisma equivalente in inglese (“A lie gets halfway around the world before the truth has a chance to get its pants on”) e andare sul sito Quote Investigator (avviato nel 2010 dallo statunitense Gregory F. Sullivan, ex docente di informatica nella Johns Hopkins University). Il risultato? Un’osservazione simile è spesso attribuita allo scrittore americano Mark Twain (1835-1910), però è falsa anche questa paternità; in realtà, si tratta della rielaborazione di un modo di dire che, in varie forme, circola da più di tre secoli nel mondo anglosassone.

Per farla breve, se proprio si vuole scovare una primogenitura, bisogna attribuirla a Jonathan Swift (1667-1745), scrittore, poeta e prete anglicano irlandese, noto per il romanzo I viaggi di Gulliver (1726). Sul periodico del partito Tory, The Examiner, da lui diretto dal 1710, scrisse un concetto simile a quello attribuito falsamente a Churchill (sebbene Swift non citasse i pantaloni): «Come il più mediocre scrittore ha i suoi lettori, così il più gran bugiardo ha i suoi creduloni, e spesso accade che se una menzogna viene creduta anche solo per un’ora essa ha già compiuto il suo lavoro e non deve fare altro. Quando gli uomini capiscono di essere stati ingannati è troppo tardi, la storia ha raggiunto il suo risultato». Il brano è poi finito in un libro ‒ L’arte della menzogna politica ‒ attribuito, secondo alcuni impropriamente, a Swift. Insomma, come direbbe Enzo Arbore (niente paura, in questo caso non ci sono dubbi sulla citazione): «Meditate, gente, meditate!».

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