Sono passati tre anni dall’11 settembre norvegese. Il 22 luglio 2011 Anders Breivik, xenofobo militante dell’ultradestra, dopo anni di preparazione finalizza alla perfezione il suo piano criminale: bomba nelle vicinanze dell’ufficio dell’allora primo ministro laburista Stoltenberg. 7 morti.
Blitz nell’incontaminata isola di Utøya - a 40 km dalla capitale Oslo - dove si svolgeva il consueto camping estivo per adolescenti del partito laburista. 69 morti. Cos’è cambiato da allora? Alla domanda i norvegesi, ospitali e civili come vuole la vulgata, guardano l’interlocutore straniero con sorriso triste e grato, ma poco dicono. E non è difficile rendersi conto del peculiare uso del linguaggio: Breivik non è mai chiamato per nome, nelle conversazioni è solo “the killer”; il disagio è attenuato riferendosi a quei fatti solo come 22 luglio ed evitando parole dense come strage, bomba, carneficina. Un episodio chiarisce quanto gli eventi non siano ancora metabolizzati: due anni fa a Vanessa Baird, pittrice amante della provocazione, è commissionata un’opera per il nuovo complesso governativo. Baird decide di raffigurare dei fogli che volano da un palazzo, metafora dell’inutile burocrazia; il risultato è il rifiuto ministeriale del quadro, troppo aderente al ricordo dell’esplosione. Breivik perturba come una svastica tatuata a tradimento sulla schiena, costringe alla rimozione collettiva un popolo sospeso, diviso tra la natura incontaminata di fiordi e laghi e quel petrolio carburatore dell’economia più florida del vecchio continente, orgogliosamente fuori dall’Unione Europea ma dentro Schengen, un benessere diffuso e un welfare in grado di raggelare i sudeuropei. Ora i norvegesi, costretti a confrontarsi col male assoluto, si dividono sul tema dell’ergastolo – la condanna massima a 21 anni è in realtà rinnovabile nel caso permanga la pericolosità sociale – e sulla libertà di parola: Breivik nella sua comoda cella arredata alla scandinava scalpita per diffondere il suo verbo, come già fatto nel suo manifesto 2083 inviato alla rete di estremisti europei la mattina della strage, un tomo che identifica sincreticamente come nemici Gramsci e Benedetto XVI, Fromm e Marcuse, multiculturalismo e Islam, suggerimenti per la fabbricazione di ordigni e il richiamo a una società pura. Si è dibattuto quando Breivik, un anno fa, ha richiesto di iscriversi alla facoltà di scienze politiche dell’Università di Oslo; richiesta infine accettata dal rettore , secondo il quale è un modo di fargli studiare democrazia e giustizia. Ha creato fazioni anche il progetto artistico dell’artista svedese Dahlberg, che ha proposto di creare una frattura artificiale in un’isoletta di fronte a Utoya, che verrebbe divisa in due da una striscia di mare di tre metri a simboleggiare l’innaturalità di quanto avvenuto: a parte i geologi che ritengono l’operazione complessa o irrealizzabile, l’idea è avversata da chi ritiene che l’isola diventerebbe meta di turismo morboso o cafone. Breivik non è un folle, le perizie hanno accertato disturbi di personalità – antisocialità e uno smodato narcisismo – ma non patologie mentali. D’altro canto è stato capace di eseguire alla perfezione un piano dettagliatissimo che, mettendo a nudo l’inadeguatezza delle forze di sicurezza norvegesi, ha contribuito a donargli un inatteso successo collaterale: la vittoria elettorale della destra di Erna Solberg , supportata da quel partito del progresso in cui lo stesso Breivik aveva militato prima di giudicarlo troppo incline al compromesso, con il suo programma attento ai temi della sicurezza e del contrasto all’immigrazione. Intanto un gruppo di volontari ha cominciato a ristrutturare l’isola, nell’intento di tornare alla tradizione del camping laburista dall’estate 2015 dopo tre anni di esilio. Perché la strage non venga dimenticata e la Norvegia torni ad essere un paese meraviglioso, solo con un incubo in più.