Integrazione è una parola positiva o negativa? Indica un bene o un male? Oggi viviamo in una società impoverita e dilacerata, e l’integrazione ci appare un bene. Ma nel passato non è sempre stato così. In Apocalittici e integrati (nel 1964) Umberto Eco colloca negli “integrati” quegli intellettuali che, nei confronti della cultura di massa, e dei relativi mezzi di comunicazione, avevano (a differenza degli aristocratici apocalittici come Adorno) un atteggiamento positivo, troppo fiducioso e poco critico. Ma, al di fuori di questa polemica letteraria, comunque, in quegli anni, l’essere “integrati” era considerato una cosa non buona. In una poesia di Franco Fortini musicata da Sergio Liberovici si dice: «Ciascuno per sé: / una piccola vita, / una piccola pietà, /una piccola viltà, / una libertà piccola così, /una piccola morte ogni domenica... / – e Iddio per tutti». E il gruppo cabarettistico I Gufi cantava: «Voglio andare a Como ogni domenica/le mie ferie le passo tutte a Rimini/giocherò al Totocalcio tutti i sabati/per parlarne coi colleghi il lunedì. Io vado in banca stipendio fisso / così mi piazzo e non se ne parla più». La società italiana sembrava potersi prendere il lusso di deridere la prospettiva di “piccola felicità” che era stata lanciata (in uno spirito antimilitarista) nel 1939 dalla canzone: «Se potessi avere / Mille lire al mese», che continuava «Senza esagerare / Sarei certo di trovare / Tutta la felicità. Un modesto impiego / Io non ho pretese /Voglio lavorare / Per potere alfin trovare / Tutta la tranquillità. / Una casettina / In periferia / Una mogliettina / Giovane e carina / Tale e quale come te … Se potessi avere / Mille lire al mese …».

Sono leggerezze, ma fanno ricordare che, pochi decenni fa, integrazione voleva dire chiusura in un piccolo mondo egoista: la negazione della prospettiva rivoluzionaria (e del “modello proletario”: vestire l’eskimo …). Sembrano passati millenni.

Ora integrazione è tornata – in riferimento alla nostra costituzione e alla nostra società – ad essere una parola del tutto buona. Ma prima di discuterne in questo significato attuale – legato alla ricostruzione di una società debole e fratturata – è opportuno ricordare che essa può avere un significato ambiguo. In Germania, negli anni Venti, fu formulata, ad opera di Rudolf Smend, una teoria generale dello Stato che viene definita “dottrina dell’integrazione”, che certo è mirata a curare la disintegrazione della Repubblica di Weimar, e dunque interessante e preziosa. Ma certi suoi aspetti (di integrazione “dall’alto” mediante operazioni di massa) possono apparire collegabili (al di là delle intenzioni dell’autore) alle liturgie militari e para-religiose del nazismo.

Ma veniamo al nocciolo della questione.

È indubbio che il concetto di integrazione è (seppure molto spesso inconsapevolmente) il concetto primo del costituzionalismo. Infatti il problema che questo affronta prima di ogni altro è come trasformare “il volgo disperso che nome non ha”, la moltitudine in cui tutti sono in guerra contro tutti (la condizione in cui si trovavano i popoli dell’Europa continentale dopo la Seconda Guerra) in un popolo, cioè in un corpo politico, capace di volere e di agire. Lo strumento per operare tale passaggio è la rappresentanza, come emerge chiaro dalle parole con cui Umberto Terracini aprì, il 4 marzo 1947, in Assemblea Costituente, la discussione generale del progetto di Costituzione della Repubblica italiana: «Io amo, dunque, pensare, onorevoli colleghi, che l’alta impresa cui oggi moveremo i primi passi … riuscirà a dare prova ai nostri ed ai cittadini di tutti i Paesi del mondo che l’Assemblea Costituente italiana è pari alla sua missione, e degnamente rappresenta il popolo che l’ha eletta, un popolo probo, eroico, incorrotto». Non era certo tutto il popolo italiano, nel marzo del ’47, di per sé, ad essere probo, eroico, incorrotto, ma lo era l’Assemblea che “degnamente” lo rappresentava, e che lo faceva, come tale, politicamente essere. È il rappresentante che “fa essere” il rappresentato.

L’Assemblea Costituente, votata, e la Costituzione, accettata e riconosciuta come norma (ma in realtà, in molte sue parti, solo come programma), sono dunque i due pilastri della integrazione politica. Quest’ultima avrebbe dovuto essere la premessa dell’integrazione sociale. Regolato e protetto il conflitto politico (organi, procedimenti … diritti di libertà verso le altre parti politiche e verso lo Stato) la Costituzione detta i fini che la società dovrebbe raggiungere. L’opera, contrastata ma continua, di realizzazione di questa società (lo Stato che “fa”) avrebbe generato integrazione sociale e, attraverso questa, legittimazione politica. La rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese; la garanzia universale (per tutti) dei diritti sociali: al lavoro, al salario equo, alla casa, all’istruzione, alla salute … e dei diritti civili avrebbero dovuto essere i progressivi traguardi.

Si aprono a questo punto i due problemi che oggi ci affliggono. Il primo è che quella integrazione simbolica, attraverso la Costituzione, si è grandemente indebolita, perché la lunga inattuazione delle parti socialmente più significative ha finito per renderla non solo inattuale, ma – oggi – inattuabile perché inconcepibile dalle correnti economiche e sociologiche dominanti negli ultimi decenni (passivamente seguite da quelle politiche). Il modello costituzionale non è più un ideale credibile agli occhi di molti (dal che derivano i vari populismi).

Il secondo è che la mancata integrazione sociale blocca, come un cane che si morde la coda, l’integrazione politica e questa, a sua volta, blocca quel “fare” dello Stato che dovrebbe essere all’origine del circuito virtuoso dell’integrazione (che è un profilo dell’uguaglianza).

Come ripristinare questo circolo virtuoso, e cioè uscire dal circolo vizioso in cui siamo intrappolati? (come tutte le cd. liberal-democrazie).

Dopo decenni di ossessiva insistenza sulla sovranità dell’individuo, sul carattere atomistico delle società democratiche e sul dominio dei diritti individuali (non a caso definiti “fondamentali”), le prospettive stanno cambiando. In un paese (come il nostro) in cui si pratica largamente e impunemente la schiavitù, in cui le disuguaglianze hanno raggiunto vette mai prima toccate, la corda dell’individualismo si sta spezzando. È sintomo di questo il fatto che l’alta cultura sociologica (v. Loredana Sciolla, Il "noi" assente. Di quanta comunità hanno bisogno le società complesse?) stia abbandonando l’esclusivo modello della società moderna, individualistica e meccanica, e, sulla scia di una antica tradizione di pensiero, integri il modello delle società complesse con elementi propri delle “comunità”, elementi senza i quali le prime non potrebbero sopravvivere.

Riprendendo i discorsi di Max Weber sullo Stato e di Ferdinand Tönnies sulla distinzione tra Comunità e società (Gemeinschaft und Gesellschaft) si sottolinea il rilievo di elementi dimenticati dalle culture mainstream giuridiche, sociologiche ed economiche, come il fatto che l’«agire di comunità … regol[a] le relazioni tra gli abitanti, senza esaurirsi semplicemente in un’impresa economica per la copertura comune del fabbisogno», come il fatto che molti fattori concorrono a porre i «fondamenti emotivi durevoli», il pathos, delle comunità politiche, i cui «comuni destini» fondano «comunità di memorie che spesso agiscono più fortemente dei vincoli della comunità culturale ...». È chiaro che questi elementi, tra Otto e Novecento, venivano, mescolati ad altri – quali la stirpe e la disponibilità ad affrontare «anche la morte, se gli interessi della comunità lo richiedono» – per fonderli nella «coscienza di nazionalità». Oggi ci limitiamo a sottolineare l’importanza dei vincoli emotivi orizzontali innanzi tutto, e verso le istituzioni, sintetizzandoli con il nome di “fiducia”. È la consapevolezza della assoluta necessità di incrementare la fiducia collettiva (tipico bene della comunità e non della società) che potrà rimettere in azione quel circolo virtuoso di cui si è detto, e da cui dipende il cammino verso una più decente integrazione.

Immagine: Christ's Entry into Brussels in 1889. Crediti: James Ensor, attraverso Wikimedia Commons

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