“Affogare in un bicchier d’acqua” significa smarrirsi davanti a minime difficoltà. Questa espressione è presente nella voce acqua del Vocabolario Treccani. Ironia della sorte, c’è il pericolo che, in un futuro piuttosto prossimo, la maggior parte dell’umanità, inclusa la minoranza più ricca (italiani compresi), rischi di affogare in un bicchiere vuoto: per non aver saputo o voluto garantirsi l’opportunità di riempirlo con quel prezioso liquido.

In che senso? Già oggi non c’è abbastanza acqua per tutti (a cominciare da quella potabile, fino al settore agricolo) e, dove c’è, viene inquinata, sprecata e utilizzata malissimo. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) ha appena reso pubblico un rapporto in cui lancia un duro segnale d’allarme. Il titolo si commenta da solo: Lo stato delle risorse terrestri e idriche del mondo per l’alimentazione e l’agricoltura: sistemi al punto di rottura (SOLAW 2021). Segnala il palese peggioramento della disponibilità di acqua; questa situazione, in prospettiva, rende molto difficile nutrire un’umanità che entro il 2050 dovrebbe arrivare a 10 miliardi di persone, metà delle quali rischia di rimanere a secco.

Il rapporto è una sintesi (82 pagine) dei principali risultati e delle raccomandazioni contenuti in quello completo (più corposo) e negli studi di base, che saranno pubblicati all’inizio del 2022. Lo scopo: spingere chi prende decisioni politiche a intervenire in fretta a livello globale, continentale e nazionale. Si legge nel report, proposto in sei lingue e altrettante versioni: «La risposta all’aumento della domanda di cibo sta aumentando la pressione globale sull’acqua, sulla terra e sulle risorse del suolo. L’agricoltura ha un ruolo da svolgere nell’alleviare questa pressione e nel raggiungere gli obiettivi climatici e di sviluppo. Le pratiche agricole sostenibili possono portare a miglioramenti diretti delle condizioni del suolo e dell’acqua, ma possono anche avvantaggiare gli ecosistemi e ridurre le emissioni (quelle di CO2, determinate dalle tecniche di coltivazione, ndr) dal suolo».

«Tutto ciò richiede», si legge poi, «che si disponga di informazioni accurate e che cambi radicalmente il modo in cui gestiamo le risorse. Sono necessarie misure complementari anche in aree diverse dalla gestione delle risorse naturali, allo scopo di sfruttare al massimo gli effetti sinergici e di realizzare i necessari compromessi». A giudicare dall’analisi, l’aumento del 50% della produzione di alimenti necessari per sfamare la popolazione mondiale tra 28 anni, nel 2050, richiederà fino al 35% di incremento di acqua per scopi agricoli. Questa esigenza a sua volta potrebbe provocare disastri ambientali, inasprire la concorrenza per lo sfruttamento delle risorse e alimentare nuove crisi e conflitti sociali. Un modo diplomatico per evocare persino future (ma neanche troppo) guerre per il controllo delle fonti di acqua.

Che fare? La FAO, nel sottolineare che la superficie terrestre coltivabile è limitata e che la quantità di acqua dolce lo è anche di più, sostiene che è indispensabile programmare il contrattacco. Come? Occorre utilizzare e potenziare al massimo i mezzi forniti dalla scienza e dalla tecnologia informatica e digitale per elaborare miliardi di dati e informazioni, in modo da fornire soluzioni utili a un’agricoltura capace di rispondere alle esigenze di cibo, per pianificare gli interventi, per avere un impatto neutro sul fronte climatico e per contrastare la deforestazione.

Ovviamente, non potrà essere un’agricoltura fatta su misura per le maxi-multinazionali del settore. Semmai, occorrerà venire incontro alle esigenze di decine di milioni di piccoli agricoltori in giro per il mondo, comprese le popolazioni indigene. Secondo la FAO, questa massa di persone è la più vulnerabile. L’istituzione dell’ONU si mette subito a disposizione per sostenere governi, contadini e ogni protagonista in questo campo nell’elaborazione di strumenti legali e politiche finanziarie e nella fornitura di risorse tecniche per migliorare la gestione del suolo e dell’acqua.

È una sirena d’allarme che senza dubbio fa venire la pelle d’oca. Per giunta, secondo altre valutazioni, la situazione è già a livello di guardia. Per esempio, a giugno del 2021, in occasione della Giornata mondiale della lotta alla desertificazione e alla siccità, è stata diffusa in lingua italiana un’altra indagine delle Nazioni Unite, il Rapporto mondiale sullo sviluppo delle risorse idriche 2020, intitolato Il valore dell’acqua (curato da Fondazione UniVerde, Istituto italiano per gli Studi delle politiche ambientali e UNESCO). Vi si legge che potremmo affrontare una carenza idrica globale del 40% entro il 2030, a causa del riscaldamento planetario e dell’aumento dei consumi.

Non solo: circa 4 miliardi di persone già vivono in condizioni di grave carenza idrica almeno per trenta giorni all’anno. L’uso globale dell’acqua è aumentato di sei volte nell’ultimo secolo e continua a crescere costantemente dell’1% annuo, per l’aumento della popolazione e il cambiamento dei modelli di produzione e consumo. Appare arduo, in questo contesto, aumentare la quantità di acqua dolce utilizzata per l’irrigazione (ora siamo al 69% del totale). Intanto i cambiamenti climatici, secondo il rapporto, influiscono sul numero di inondazioni, da un lato, e di casi di siccità, dall’altro (in base a valutazioni relative al solo 2017, ciò ha provocato 18,8 milioni di nuovi sfollati interni in 135 Paesi e territori). Nel complesso durante gli ultimi vent’anni sono stati colpiti 3 miliardi di persone, con tantissime vittime.

Pure l’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) ‒ altro organismo delle Nazioni Unite ‒ a ottobre del 2021 ha segnalato in un rapporto che la situazione sta peggiorando rapidamente: nell’ultimo ventennio l’accumulo di acqua terrestre è diminuito di 1 centimetro ogni anno e oggi solo lo 0,5% è utilizzabile come acqua dolce (il resto è nei ghiacciai, soprattutto in Artide e Antartide). «A partire dagli anni Duemila – precisa la WMO – il numero di catastrofi legate alle inondazioni è aumentato del 134%, mentre la durata delle ondate di siccità del 29%». Quindi «il numero di persone che soffrono… continua a crescere, mentre i sistemi di gestione e di previsione meteorologica e di allerta sono ancora insufficienti».

Ovviamente, l’Italia non è estranea a questo disastro: i danni subiti dalla popolazione, dalle infrastrutture e dall’agricoltura, a causa di nubifragi o siccità, sono aumentati tantissimo. Nel frattempo sprechiamo l’acqua potabile. Il dossier di Legambiente Acque in rete - 2021, diffuso a marzo scorso, segnala che quella «che preleviamo non viene trattata adeguatamente e in modo sostenibile»; in compenso è «spesso dispersa…, con un gap tra acqua immessa nelle reti di distribuzione e quella effettivamente erogata che va da una media del 26%, nei capoluoghi del Nord, a quella del 34% in quelli del Centro, fino al 46% nei capoluoghi del Mezzogiorno».

Dunque conviene intervenire prima possibile, cominciando dagli acquedotti-colabrodo che alimentano malamente i rubinetti di casa, per arrivare, come sostiene la FAO, a progetti efficaci, sostenibili e tecnologicamente avanzati di carattere globale. Potremmo anche riuscirci: in fondo ‒ come segnala Roberto Della Seta nel suo recente libro Ecologista a chi? (Salerno Editrice, Roma, 2021) ‒ siamo capaci di imprese ciclopiche: l’umanità negli ultimi 150 anni ha costruito «più di 800.000 dighe, alterando… il 60% dei fiumi del mondo». Verrebbe da scrivere, tornando ai modi di dire, che occorre intervenire subito, prima di trovarci “con l’acqua alla gola”; sebbene sembri una semplificazione amara, anche perché di acqua davvero utilizzabile ce n’è ‒ soprattutto per “merito” nostro ‒ sempre meno.

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