Il trisavolo Cacciaguida, nel canto XVII del Paradiso, annuncia a Dante la chiara profezia dell’esilio (che si rivelerà peraltro assai fruttuoso dal punto di vista della creatività artistica) dalla sua Firenze: «Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ’l salir per l’altrui scale». Certo, in quel famosissimo caso si trattava di un esilio imposto, mentre nel caso dei molti italiani che lavorano all’estero si tratta di una scelta libera. Ciò non toglie che nella maggior parte dei casi sia comunque una scelta sofferta; che, cioè, nulla sappia come il pane di casa propria (al di là del fatto che a Firenze non si usasse effettivamente salare il pane, a differenza che nel resto della Penisola).

Gli ultimi dati Istat disponibili in materia di migrazione all’estero della popolazione residente in Italia (riferiti al decennio 2009-18) registrano un innegabile, costante aumento delle migrazioni. Ma il dato che preoccupa maggiormente è quello, più specifico, riguardante il fatto che, una volta emigrati, sempre più residenti in Italia (italiani e non) decidono di trasferire la propria residenza più o meno stabilmente all’estero, in particolare se si tratta di cittadini laureati. Tanto più che, con specifico riguardo a quest’ultimo punto, in Italia, la quota di popolazione in possesso di un diploma di laurea è già di per sé molto bassa, anche senza contare la diaspora summenzionata: il 19,6% contro il 33,2% dell’Unione Europea (UE).

Questo fenomeno, riconducibile agli schemi di una sorta di “migrazione di lusso”, poiché il più delle volte si svolge legittimamente in direzione di Paesi in cui vigono migliori condizioni di lavoro e maggiori remunerazioni, ha fatto parlare di brain drain, o “fuga dei cervelli”. Secondo la narrazione corrente, divenuta ormai quasi nazional-popolare, il fenomeno in oggetto comporterebbe sempre e soltanto danni ai Paesi di provenienza (nel nostro caso l’Italia).

Tuttavia, ad una più attenta analisi, emergono almeno due profili che potrebbero fare propendere per una conclusione opposta, rivelando che ai costi “nascosti” – innegabili – della fuga dei cervelli si accompagnano anche dei “ricavi nascosti”. Ciò è particolarmente vero proprio se si guarda alla Storia d’Italia.

Da un lato, infatti, il brain drain può trasformarsi in brain gain per lo Stato di origine; e ciò avviene, in particolare, grazie al rientro di almeno una parte di essi. D’altra parte, le imprese più o meno grandi di questi italiani del mondo contribuiscono inevitabilmente a diffondere a livello internazionale l’idea di un popolo straordinario, rimandando ad una sorta di “made in Italy”, non (solo) dei capi di abbigliamento, ma (anche) del pensiero.

Quanto a quest’ultimo versante, a partire dal Quattrocento, intellettuali e artisti provenienti dal territorio italiano – da Leonardo a Colombo e Goldoni, passando per Casanova – viaggiavano in lungo e in largo nelle corti europee. Addirittura, Santi Paladino, eclettico giornalista e scrittore di Scilla, fu il primo (ma non l’ultimo) ad ipotizzare che il mitico William Shakespeare, creatore dell’inglese moderno, dovesse essere identificato in realtà con la figura dell’umanista italiano Michelagnolo Florio, emigrato a Londra, dopo la fuga dal carcere, nel 1550.

Questo “vagabondaggio” di talenti italiani nel mondo ha rivelato, a prescindere dalle ovvie differenze di temperamento personali ed inclinazioni, comuni originalità intellettuale, intuizione scientifica e sensibilità spirituale e artistica.

Questo tratto culturale è assurto ben presto a vero e proprio elemento di riconoscimento di un territorio – quello italiano – per lungo tempo frammentato in “tanti piccoli Stati”. Un tratto che non è certo rimasto relegato ai meandri di una gloriosa tradizione, ma anzi ha la forza di rinnovarsi negli anni in una evoluzione che presenta spesso connotati di positiva avanguardia. Basti pensare a tre dei personaggi italiani più in vista dell’ultimo periodo, tre donne straordinarie: Samantha Cristoforetti, astronauta, aviatrice e ingegnere, prima donna italiana nell’equipaggio della Stazione spaziale internazionale; Sophia Loren, tra i protagonisti del recente film La vita davanti a sé, produzione capace di mettere d’accordo il pubblico – di ogni età – e la critica; Laura Pausini, vincitrice del suo primo Grammy Award dopo una carriera costellata già da numerosi riconoscimenti internazionali.

Quanto invece agli italiani prima emigrati – anche per lunghi periodi –, ma poi rientrati presto o tardi in Patria, gli stessi Mazzini e Garibaldi, archegeti dell’Italia unita, hanno condotto buona parte delle proprie battaglie politiche in terre straniere. Il primo tra la Francia e Londra, il secondo addirittura fino in Sud America, in Uruguay e Brasile, dove ebbe modo di partecipare da protagonista alla famosa rivolta del Rio grande del Sud contro l’allora impero brasiliano.

Alla luce di quanto appena detto, il sentimento di una certa identità (inter)nazionale italiana quale accattivante cifra stilistica ed effigie gratificante del cosiddetto “genio italico”, quindi, precede la costituzione dello Stato unitario nel 1861. Prima gli italiani poi l’Italia, dunque, in una variante della celeberrima frase, per alcuni un po’ troppo retorica, pronunciata dal 1° primo ministro della nostra Storia unitaria: Camillo Benso di Cavour.

Sergio Romano, nel suo Storia d’Italia dal Risorgimento ai giorni nostri, pone questa curiosa originaria (e originale) contraddizione alla base di un’indagine volta a comprendere e spiegare ‒ come da sottotitolo ‒ «perché l’Italia non è mai stata un paese normale?».

D’altronde, quello italiano è il territorio con la maggiore ricchezza genetica al mondo. In altre parole, anche qualora qualcuno dovesse riuscire nella disperata e discutibile impresa di “togliere gli italiani dal mondo”, sarebbe comunque impossibile “togliere il mondo dagli italiani”.

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