Investimenti e colpi che fanno sensazione, una potenza di fuoco mai vista e, per questo, senza eguali: il calcio cinese che, nelle ultime settimane, ha sconvolto le dinamiche del mercato del pallone in Europa, fa discutere oggi come non mai. Non tanto come una conseguenza del piano di 50 punti che il governo varò con l’obiettivo di favorire in termini strutturali l’evoluzione del movimento, quanto per alcune caratteristiche che fanno somigliare quanto sta accadendo più a una speculazione che un aspetto sistemico.

Al di là dell’arrivo dell’ex bomber della Juventus [Carlos Tevez](Carlos Tevez), il cui opulento ingaggio vale più per una questione di immagine proiettata, sono il 25enne brasiliano Oscar e il 28enne Witsel, strappati alla Premier League inglese e a quella russa, a certificare l’inversione di tendenza rispetto a quando in Cina approdavano principalmente giocatori a fine carriera o, comunque, ormai con poco da chiedere, e da dare, al campo. Attirati da contratti faraonici, restavano una stagione, magari due, prima di tornare in campionati calcisticamente più competitivi per gli ultimi sussulti agonistici. Di Oscar e Witsel, ma in precedenza anche di Lavezzi, Hulk, Ramires, Pellé o Jackson Martinez, casomai è in discussione l’ambizione, sacrificata sull’altare del denaro, ma il gioco (essere idoli in un torneo di scarso interesse, con conseguente marginalizzazione ad alti livelli) evidentemente viene considerato valere la candela, non essendo peraltro processo irreversibile. Decisione comprensibile, bando a retorica e ipocrisia.

È tuttavia la sostenibilità di certe cifre sul movimento e sul suo futuro, nel suo complesso, a lasciare perplessi. I numeri dei più recenti ingaggi e contratti sono fuori mercato: il dato è incontestabile e basta questo a gravare sul sistema facendo rientrare quanto sta accadendo fra gli elementi di disturbo, più che su un reale spostamento degli equilibri. Da più parti, fra gli analisti della stampa specializzata, ricorre il termine “bolla”, eppure da una prospettiva più economica e politica, il concetto chiave pare essere quello di “ostentazione”. In un mondo in cui entrano pesantemente in gioco significativi interessi governativi – in cui il piano del presidente Xi Jinping è stato la spinta propulsiva – i mirabolanti colpi di mercato rappresentano l’esibizione di potere dei grandi gruppi proprietari dei club i quali puntano, in questo modo,  ad ottenere il favore dello stesso governo più che alla crescita del movimento calcistico. Una teoria, questa, elaborata dal giornalista scozzese Cameron Wilson – la cui decennale esperienza professionale in Cina ha portato anche alla fondazione della testata Wild East Football – e apparsa nei giorni scorsi sulle colonne del Guardian. Forse, di tutte è la più vicina alla realtà.

In anni recenti, sebbene con minore veemenza, l’emergere di nuovi mercati calcistici caratterizzati da politiche economiche aggressive relativamente al calciomercato è già stata sperimentata con l’irruzione, tra i big spender, di alcuni club del campionato russo – Zenit, Rubin Kazan e, per un breve periodo, Anzhi – e, con l’aumento a tre per squadra del numero dei “designated player” (quelli a cui non si applica il tetto salariale in vigore nella lega), anche di diverse franchigie della Major League Soccer statunitense. Sono però situazioni con peculiarità e obiettivi ben diversi: se la Premier russa può comunque contare su un discreto appeal in Europa, anche perché qualifica le sue squadre migliori alle competizioni per club della Uefa (senza contare i ragguardevoli interessi di business degli oligarchi in Europa), l’immagine della Mls è ancora molto marginale nel Vecchio continente ma ha dalla sua regole certe, un piano di sviluppo sportivo – e non politico – che procede passo dopo passo e l’interesse ad ottenere successo principalmente in Nord America, bacino d’utenza sufficientemente vasto per garantirne una sopravvivenza più che decorosa.

Lo stesso sistema a franchigie bloccate, il doppio girone su base geografica senza retrocessioni e i play off per designare la squadra vincitrice confermano che la Mls porta avanti una via americana al calcio, uno sport sostanzialmente importato e senza reale storia in quell’area del mondo, ma declinato attraverso le tipicità che hanno reso grandi, ad esempio, Nba e Nhl. Non consentirà alla Mls di piazzarsi in maniera credibile tra le leghe più importanti del mondo, sicuramente non sino a quando il livello tecnico medio non si alzerà drasticamente, ma è abbastanza per funzionare in patria: lo dicono i numeri di praticanti e spettatori, in aumento costante, e la capacità di calamitare qualche grande nome europeo o sudamericano (ma anagraficamente all’occaso della carriera) attratto dagli stipendi, peraltro sicuri in quanto garantiti dalla lega a livello centrale, e dal fascino di un’esperienza di vita negli Stati Uniti.

Al contrario, ciò che sta accadendo in Cina non ha ancora una definizione univoca a lineare, dal momento che il fenomeno è troppo recente per vaticinarne i reali margini e l’effettiva potenzialità di raggiungere quote significative dell’affezione calcistica globale. Tuttavia, è inevitabile che il fenomeno si presti ad analisi e ipotesi di prospettiva e, in questo senso, allo stato dell’arte esistono almeno tre elementi che superano le opinioni e resistono al fact checking: il primo, già citato anche in queste righe e oltremodo noto, è la profonda interconnessione che il calcio cinese ha con la politica; il secondo ha a che fare con la sostenibilità di un sistema che, al momento, non produce utili ma solamente indebitamenti; il terzo è più tecnico e riguarda un movimento che, a livello di base, ha davanti una lunga strada da percorrere per potersi dire competitivo.

L’insegnamento del gioco nelle scuole e il potenziamento delle strutture sono senz’altro un punto favorevole alla crescita, ma in questo senso proprio l’esperienza delle Academy della Mls dimostra che da soli questi due elementi possono non essere sufficienti a mettere alla pari con Europa e Sudamerica – meno che mai nel breve termine – un’area in cui il calcio e la sua professionalizzazione sono pratiche troppo recenti. Dall’altro lato, in una situazione come quella attuale, sono intermediari e giocatori ad ottenere i maggiori vantaggi, non certo l’evoluzione coerente del movimento nel suo complesso che, al contrario, in questo modo corre il rischio di passare per ciò che non mira ad essere, vale a dire un sistema iperbolico in cui il presente oscura il futuro. La recente presa di posizione dell’organo governativo che sovrintende lo sport (la General Administration of Sport of China), che minaccia l’introduzione di un salary cap per evitare certe evidenti storture di mercato, segnala del resto come lo stesso governo cinese si sia reso conto dell’eventualità che il calcio corra il pericolo di una bolla speculativa come quelle che, nel 2015, hanno interessato in Cina prima il mercato immobiliare, quindi la borsa. Ciò azzopperebbe il sistema con il rischio che, un giorno, chi succederà a Xi Jinping possa trovarsi di fronte ad una situazione di mancata evoluzione tale da abbandonare i propositi di portare la Cina al rango di superpotenza calcistica.

Perché in discussione non è tanto la necessità, decisiva, di incrementare il soft power della Cina a livello globale attraverso lo sport, già posto in essere durante la presidenza di Hu Jintao, quanto piuttosto che proprio il calcio riesca a porsi al centro di questo progetto; e certe cifre, che fanno sensazione, non giocano esattamente a suo favore.