27 luglio 2022

La buona comunicazione dell’emergenza quotidiana

È vero che alle notizie non esaltanti col tempo ci abituiamo quasi tutti (a parte i fan del doomscrolling, fissati nella ricerca on-line di quelle cattive). Però anche in Italia dal 2020 in poi ‒ tra pandemia, guerra, crisi economica, inflazione, siccità e naufragi di governi ‒ le emergenze sono state (e sono) così tante che pure chi stava iniziando a farci il callo comincia a perdere il self-control. Il settore della comunicazione e dei media, ovviamente, gioca un ruolo fondamentale nella rappresentazione della realtà. Nel farlo, contribuisce in modo notevole all’orientamento dei comportamenti e alla formazione delle opinioni.

Il 2° Rapporto annuale sulla buona comunicazione dell’emergenza quotidiana  realizzato e diffuso recentemente da Ital Communications e Censis, è dedicato proprio all’individuazione delle dinamiche che ci coinvolgono di questi tempi. Con l’intento di trovare «le piste su cui lavorare per garantire una comunicazione affidabile e di qualità in un ecosistema dell’informazione sempre più orizzontale e diversificato», vuole essere uno strumento di servizio, destinato non solo a politici, esperti e giornalisti, ma anche ai cittadini, per lo meno quelli desiderosi di antidoti contro le manipolazioni. La ricerca si è concentrata sull’informazione offerta nel corso dell’emergenza sanitaria e del conflitto scatenato dalla Russia in Ucraina.

 

Nel rapporto si legge che «un primo elemento è sotto gli occhi di tutti: l’emergenza quotidiana ha generato una domanda di informazione inedita da cui nessuno è escluso. Il 97,3% degli italiani nell’ultimo anno ha cercato notizie su tutte le fonti disponibili, off e on-line, per una media di 2,7 fonti consultate per ciascuno. L’emergenza ha dunque accelerato il percorso verso un ecosistema mediatico più digitale e più articolato, determinando cambiamenti anche nel rapporto con i media. Oggi la corsa all’informazione riguarda la totalità della popolazione; una platea che non sta ferma ad aspettare, ma partecipa essa stessa alla creazione delle notizie e le diffonde». Cosicché «questo processo di creazione e circolazione dell’informazione dal basso ha degli effetti che si traducono, soprattutto nel Web e sui social media, in una democratizzazione dei contenuti; ma anche nella costruzione di realtà parallele a quelle ufficiali, capaci di incidere su opinioni e comportamenti di milioni di persone complicando ulteriormente realtà già di per sé complesse». È il caso «delle più o meno fantasiose teorie no-vax, che sono circolate in tutto il mondo portando tanta gente a scendere in piazza e a decidere di non vaccinarsi, della circolazione di video e immagini false per avvalorare notizie infondate o di propaganda sulla guerra tra Russia e Ucraina, fino alle notizie che mettono in discussione la veridicità del cambiamento climatico».

                                       

Risulta che, per ricavare informazioni sul Covid-19 e sulla pandemia, 9,3 milioni di italiani si siano rivolti soltanto ai media tradizionali, mentre 7,2 milioni hanno preferito esclusivamente quelli on-line. La maggior parte ‒ 32 milioni ‒ si è affidata a un cocktail di media classici e digitali. Inoltre, si apprende che quasi i due terzi dei cittadini (il 62%) ha assorbito le notizie provenienti dalle fonti di informazione ufficiali senza porsi troppe domande. Tuttavia, di fronte a una domanda precisa, il 64,2% ha affermato di disapprovare il tipo di comunicazione adottata nel corso dell’intero periodo dell’emergenza sanitaria: ritiene che gli organi di informazione abbiano privilegiato la spettacolarizzazione e l’obiettivo di “catturare” l’audience del pubblico. Appena il 35,8% ritiene che le notizie siano state trattate con la precisione e la chiarezza sufficienti per capire ciò che stava accadendo, le regole da rispettare e i consigli da seguire. Anche sul fronte del conflitto in Ucraina, il 57,7% degli italiani ha segnalato di avere un’idea molto o abbastanza confusa a proposito di quello che accade e delle ripercussioni prevedibili nel prossimo futuro. Guarda caso, a torto o a ragione, «tra le persone di cui gli italiani si fidano, anche come fonti informative, ci sono gli influencer, che il 38,1% degli italiani dichiara di seguire nelle loro opinioni/analisi sulla guerra». 

 

Poi però tantissimi italiani si sfogano sul web, dove ritengono di poter condividere notizie esprimendosi in modo libero. Risultato? In media il 35,9% nell’ultimo biennio ha commentato e/o condiviso, sui social network, contenuti critici nei confronti delle decisioni assunte dal governo durante l’epidemia. Questa percentuale supera il 40% tra gli occupati, chi vive nel Mezzogiorno e chi ha fra 35 e 64 anni, per scendere ad un 26,2% (in ogni caso, significativo) tra gli ultrasessantacinquenni. È di poco inferiore la percentuale di coloro che hanno fatto la stessa scelta per quel che riguarda la guerra russo-ucraina: il 33,8%, con percentuali più alte tra i cosiddetti  “millennials”, la generazione dei nati tra i primi anni Ottanta e la metà degli anni Novanta.                                 

                             

Le responsabilità? Gli italiani lamentano che durante tutto il periodo dell’emergenza sanitaria, «anche quando ci sarebbe stato bisogno di trasmettere la reale entità dei problemi e condividere regole e comportamenti da tenere, la dimensione della comunicazione (spesso ansiogena e a caccia di “mi piace”, ndr) abbia avuto la meglio su quella dell’informazione» equilibrata. Secondo Censis e Ital Communications, «questo giudizio non riguarda solo media e social media, ma coinvolge inevitabilmente anche la comunicazione ufficiale (quella del Governo, delle istituzioni, delle amministrazioni locali e delle autorità sanitarie), che in molti casi non è stata capace di imporre un’unica e chiara linea di pensiero e di condotta, ed è stata essa stessa fonte di una confusione che è poi rimbalzata su media e social». Certo, alla fine la ragione e le notizie ufficiali hanno vinto: circa il 90% degli italiani con più di 12 anni si è vaccinato; «eppure il giudizio complessivo sui toni e i contenuti della comunicazione è fortemente critico». Per quel che riguarda l’emergenza-guerra, secondo il report «è troppo presto per fare un bilancio dell’informazione… ma anche in questo caso i segnali che vengono dall’opinione pubblica non sono confortanti: il 57,7% degli italiani giudica confusa (molto il 16,4%, abbastanza il 41,3%) l’informazione ricevuta, mentre il 42,3% la giudica chiara (13,1% molto e 29,2% sufficientemente)».

 

I risultati offerti da questo report confermano che nel mondo dell’informazione professionale (quindi tra i giornalisti fedeli alle regole deontologiche e allergici alle strumentalizzazioni dell’audience) e in quello della comunicazione istituzionale (la capacità di comunicare è essenziale per ottenere un rapporto di collaborazione e di fiducia con i cittadini) occorre porsi domande serie sul proprio ruolo e sulla modalità di gestione delle notizie, soprattutto in situazioni di allarme generalizzato. Fin dall’inizio della pandemia, a marzo 2020, c’è stato chi aveva sottolineato, invano, la grande impreparazione in questo campo: la comunicazione in emergenza si insegna nelle università, ma a livello pratico resta lettera morta. Così come anche su Treccani pochi mesi fa è stato ricordato che esiste un problema serio, la cui espressione più plateale è stata proprio la difficoltà/incapacità nell’informare da parte delle istituzioni, mentre spesso gli organi di informazione professionale, anziché assolvere al compito di chiarire e semplificare, sono stati contagiati dal contorsionismo verbale, aumentando il livello di sfiducia. Invece, scrivono i ricercatori di Censis e Ital Communications, «gli italiani si aspettano… accuratezza, responsabilità, terzietà e toni pacati».

 

Che fare? In parole povere, occorre che il mondo della comunicazione, pubblico e privato, si rimbocchi le maniche, magari dopo aver preso coscienza dei propri limiti durante gli ultimi due anni e mezzo. Nel rapporto si sottolinea che «la buona comunicazione non si improvvisa», cercando di mettere toppe quando ormai la gente è confusa, stressata e allarmata. Semmai, preventivamente «c’è bisogno di piani di comunicazione interna ed esterna e di gestione dell’emergenza… È necessario intervenire costruendo degli argini per frenare disinformazione e fake news e costruire buona comunicazione». Un’esigenza tanto più urgente se si considera che, grazie anche al boom della didattica a distanza, «la platea di chi naviga sul Web sta crescendo e include anche una larga fetta di minori. Oggi il 69,1% dei ragazzi che hanno meno di 14 anni e il 61,7% di quelli che ne hanno meno di 12 navigano su Internet». Forse non è il caso di lasciarli fin da piccoli in balìa di mitomani e cattivi “informatori”.

       

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Immagine: La stampa italiana sull’epidemia di Coronavirus in Italia, Milano (24 febbraio 2020). Crediti: praszkiewicz / Shutterstock.com

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