Nikita Chruščëv, segretario generale del Partito comunista dell’ex Unione Sovietica, dopo averlo assaggiato disse: «Il Martini cocktail è la più potente arma degli americani». Qualche anno prima, nel 1943 al vertice di Teheran, Roosevelt, che era un discreto bevitore di Martini (fu lui a sdoganare il Dirty Martini, versione senza oliva sostituita dalla salamoia), ne aveva offerto uno a Stalin che però l’aveva apprezzato moderatamente: «Non è male – disse il leader sovietico – ma fa freddo allo stomaco». Risposta che fa pensare al fatto che il Martini era il drink degli americani.

Il Martini cocktail – o Dry Martini come lo chiamano in molti – è il più famoso, raccontato e celebrato degli aperitivi. “Alcolicamente” scorretto perché il gin è padrone assoluto, mentre il vermut extra dry che gli dà il nome viene confinato al ruolo “di azionista di irrilevante minoranza”. L’unico, soprattutto, con una vera e propria letteratura alle spalle. Una storia lunga e piena di aneddoti. Una sorta di mondo a parte con i suoi incredibili racconti tra fascino e tradizione che segnano momenti importanti della politica, della letteratura, del cinema e della musica. Un caso unico. Come dimostra l’origine del cocktail, anch’essa leggendaria e naturalmente controversa.

Proviamo, allora, a raccontare qualcuna di queste storie. Il drink del mito per alcuni viene fatto risalire a uno sconosciuto barman italiano che a New York, agli inizi del Novecento, l’avrebbe preparato per John D. Rockefeller, fondatore della Standard oil, una delle più grandi compagnie di petrolio. Altri sostengono, invece, che il nome derivi dal cocktail Martinez che Jerry Thomas (1830-1885), considerato il padre dell’arte della miscelazione, preparò nella seconda metà dell’Ottocento. Risale, invece, al 1884 la ricetta del Martini (improbabile antenato) proposta da O.H. Byron (2 schizzi di curaçao, 2 di angostura, mezzo bicchiere di gin e mezzo di vermut italiano).

Passiamo ora a ingredienti e preparazione. Quest’ultima è un momento fondamentale per la riuscita del cocktail. Almeno sulla carta, il Martini sembra tra i più semplici da realizzare. Perché si tratta di gin (per una minoranza vodka o entrambi nel caso del Vesper) con una minima (talvolta infinitesimale) quantità di Martini extra dry, miscelato per non più di 10-15 secondi in un mixing glass pieno di ghiaccio e servito in una coppetta ghiacciata, uno dei più brillanti e iconici design di tutti i tempi. Per finire, due le guarnizioni consentite: il twist di limone, scorza sottile da spremere sopra la superficie del cocktail oppure una – o meglio ancora tre – olive. Non c’è, però, una versione definitiva. Una delle poche certezze è che deve essere ghiacciato e molto secco. Cosa che viene determinata dalla quantità di vermouth extra dry (oppure del francese Noilly Prat, ultimamente sempre più diffuso) rispetto a quella del gin. Ovviamente, anche in questo caso ci sono storie e storielle infinite. Di Churchill, altro grande estimatore del drink, si racconta che al momento di versare il vermut si limitava a un inchino verso la Francia. Luis Buñuel, invece, riteneva bastasse che la luce attraversasse la bottiglia di vermut per colpire quella di gin. Ernest Hemingway in Di là del fiume e tra gli alberi parla del Martini 15:1, il famoso Montgomery che prende il nome dal generale inglese che attaccava il nemico solo se le sue truppe erano 15 a 1.

In uno dei film imperdibili per i bevitori di Martini, L’uomo ombra (The thin man diretto nel 1934 da William S. Van Dyke e tratto dal romanzo di Dashiell Hammett), Nick, interpretato da William Powell, spiega davanti al bancone del bar quanto seria sia la faccenda della preparazione: «Nella miscelazione la cosa più importante è il ritmo. Il Manhattan va mescolato al ritmo di Foxtrot, il Bronx al ritmo di un Two step ma il Martini va sempre mescolato a tempo di valzer».

E a proposito di mescolare c’è sempre l’annosa questione: agitato o mescolato? Esiste quindi il drink shaken, not stirred, diventato celebre grazie all’agente segreto di Sua Maestà James Bond (che però beve Vodka Martini), ma c’è anche la versione inversa (mescolato, non agitato) che vede come principale fautore lo scrittore Somerset Maugham che ne ha dato una spiegazione piuttosto seducente: «Il Martini va mescolato perché le molecole del gin e del vermouth si devono adagiare sensualmente le une sulle altre».

Finito qui? Macché. C’è anche il Martini “riposato” che secondo Mauro Lotti, barman tra i più conosciuti al mondo, «non fa torti a nessuno, in quanto non è né mescolato né agitato, ma lasciato a riposare qualche secondo a contatto con il ghiaccio in modo che gli elementi si compenetrino in maniera meno omogenea e senza incamerare ossigeno e il sapore del vermouth arrivi ad onde». Il bello del Martini è anche questo: nessuno avrà mai l’ultima parola e ciò gli garantisce la vita eterna.

I racconti potrebbero continuare a lungo e per chi volesse approfondire si consiglia la lettura di Martini, Straight Up di Lowell Edmunds, tradotto in Italia nel 2000 ed edito da Archinto con il titolo Ed è subito Martini: una vera e propria Bibbia per i cultori del cocktail, preceduta da una imperdibile prefazione di Umberto Eco.

Immagine: Perkins Harnly, Bar, 1935-42 circa. Crediti: National Gallery of Art, Washington D.C. [Public domain]

Argomenti

#Umberto Eco#vodka#Cocktail