Con la sentenza del 29 giugno scorso, la Corte suprema degli Stati Uniti ha deciso che i programmi di ammissione delle università di Harvard e del Nord Carolina (UNC, University of North Carolina) contrastano con la equal protection clause contenuta nel Quattordicesimo emendamento nella misura in cui attribuiscono rilevanza all’origine etnica dei candidati. L’interesse degli atenei a diversificare il corpo studentesco non è sufficiente per giustificare una discriminazione positiva (o affirmative action). Trattasi di una vera e propria rivoluzione copernicana se si tiene conto che la stessa Corte, nel caso Grutter (2003), aveva fondato l’ammissibilità di siffatti programmi proprio sul Quattordicesimo emendamento, mentre nel più risalente caso Brown (1954) la equal protection clause aveva consentito di aprire una breccia nel regime di apartheid nelle scuole pubbliche.
Il ragionamento dalla Corte poggia su tre argomenti: a) tutti i programmi di ammissione agli studi universitari che tengono positivamente conto dell’appartenenza etnica devono avere un limite temporale che la Corte, proprio in Grutter, individuò nel 2028, anno in cui presumibilmente l’uso dell’affirmative action non sarebbe stato più necessario per raggiungere l’obiettivo di un corpo studentesco etnicamente differenziato. Tuttavia, sia Harvard che l’UNC hanno riconosciuto che i loro programmi non hanno una data di scadenza; b) la Corte ritiene che gli obiettivi perseguiti da tali programmi, quali «preparare i laureati ad adattarsi a una società sempre più pluralistica» e «educare gli studenti attraverso la diversità», siano troppo vaghi e, dunque, non meritevoli di protezione; c) l’ultimo argomento speso a favore dell’incostituzionalità dell’affirmative action è di carattere logico-matematico: le ammissioni all’università sono accostabili ai giochi a somma zero nei quali l’attribuzione di un plus nelle procedure di valutazione a uno studente appartenente a un certo gruppo etnico va a scapito di tutti gli altri partecipanti, donde la contrarietà alla equal protection clause.
Tale revirement riporta alla mente quanto intuito da Jorge Luis Borges in Pierre Menard, autore del Don Chisciotte: nessun libro può essere scritto due volte; ogni parola assume un preciso significato nell’epoca in cui è pronunziata. Pare, dunque, che la equal protection clause si presti a una lettura storicizzata: ieri vessillo della desegregazione, oggi della più miope meritocrazia. Il rigore della soluzione adottata dalla Corte è, almeno in apparenza, temperato dalla considerazione che nulla impedisce alle università di prendere in considerazione l’etnia caso per caso: ciò che contrasta con la Costituzione è la valutazione dell’appartenenza etnica ai fini del superamento della procedura di ammissione come valore in sé. Ma se l’appartenenza etnica continua, benché in misura diversa, a contare, allora: Much ado about nothing? Non la pensano in questo modo le giudici dissenzienti Sonia Maria Sotomayor e Ketanji Brown Jackson le quali, non senza accenti polemici, lanciano un accorato j’accuse contro l’opinione della maggioranza. La dissenting opinion della giudice Sotomayor pone l’accento sulla funzione catalizzatrice dell’affirmative action nella lotta al superamento delle disuguaglianze sociali. Arrestare ora tale processo significherebbe «annullare i lenti ma significativi obiettivi già raggiunti», imponendo alla nazione una regola superficiale di «cecità razziale». Non manca una stoccata contro la tranquillizzante considerazione che l’appartenenza etnica, benché indirettamente, possa comunque essere presa in considerazione nelle procedure di ammissione: atteso che l’opinione della maggioranza non può sfuggire all’inevitabile verità che l’etnia conta nella vita degli studenti, chiosa Sotomayor, la rilevanza indiretta della stessa suona come «a false promise to save face» ovvero come «an attempt to put lipstick on a pig».
I tabloid americani si sono concentrati sulla dissenting opinion di Jackson – giudice di ultima nomina, prima donna afroamericana a ricoprire l’incarico – in aperta polemica con Clarence Thomas, il più conservatore dei membri della Corte, notoriamente contrario all’affirmative action. Secondo Thomas i programmi di ammissione che tengono conto dell’origine etnica non fanno nulla per aumentare il numero complessivo di soggetti appartenenti a categorie svantaggiate in grado di accedere a un’istruzione universitaria, ma al contrario ridistribuiscono semplicemente gli studenti, collocandone alcuni in istituti più competitivi di quelli che avrebbero altrimenti frequentato; inoltre, tali programmi sono forieri di produrre forme di stigmatizzazione sociale attraverso la polarizzazione tra studenti beneficiari e non.
Tali argomentazioni sono state screditate da Jackson la quale, con una memorabile metafora dal gusto eufuista, osserva che «Justice Thomas ignites too many more straw men to list, or fully extinguish, here». La cecità della maggioranza dinanzi alla questione razziale non ne implicherà il superamento: al pari dell’elefante rosa nella stanza, non pensare alla questione razziale nel contesto universitario la renderà ancora più importante, finanche a ostacolare l’adempimento della promessa di uguaglianza contenuta nel Quattordicesimo emendamento, ritardando il giorno in cui ogni cittadino americano avrà le stesse opportunità di prosperare indipendentemente dall’appartenenza etnica. Pare che la Corte suprema abbia spazzato via con un colpo di ramazza anni di giurisprudenza e politica integrazionista, sconfessando l’attualità della questione razziale nel campo dell’istruzione. Dalla motivazione della Corte traspare l’idea per cui, una volta espiato il peccato originale dell’apartheid, le politiche integrazioniste non abbiano più ragion d’essere. Questa sorta di hard reset propugnato dalla Corte sbatte contro le dilaganti tendenze suprematiste che negli ultimi anni squassano gli Stati Uniti. E allora da dove partire se non dall’università e, più in generale, dalla scuola per costruire una società realmente egualitaria?
È certo che l’opinione della Corte farà parlare di sé nei mesi a venire. Peraltro, sulla scia della sentenza della Corte suprema, l’associazione Lawyers for Civil Rights ha presentato una richiesta al governo federale perché metta fine al trattamento speciale che l’Università di Harvard riserva ai figli di ex alunni e donatori nelle procedure di ammissione. Non resta che stare a vedere, benché lo scenario non sia dei più rassicuranti.