Prima acclamavamo festanti con fiaccole e popoli viola, i magistrati tutti, Mani pulite e dintorni.

Oggi applaudiamo ai referendum che la gran parte dei giudici, a torto o ragione, ritengono non siano “sulla” giustizia ma “contro” la giustizia.

È il pendolo delle nostre passioni collettive, che difficilmente imbocca il percorso stretto ed equilibrato del saggio riformismo, mentre oscilla, con archi sempre più lunghi, per fermarsi solo sui punti più lontani. E se di solito ci sono le nebbie dell’inesorabile tempo che passa, a risparmiarci misericordiosamente i conti con le nostre contraddizioni, ieri sera, 16 febbraio 2022, ha avuto davvero un effetto straniante e insieme spietato, quasi sadico, per impietosa coincidenza di calendario, vedere scorrere le immagini evocative dei 30 anni di Mani pulite che proprio oggi si compiono e, contemporaneamente, le notizie dai TG sull’esito delle decisioni della Corte costituzionale assunte sui quesiti referendari e le nostre stesse reazioni.

Sbagliavamo allora? Sbagliamo adesso?

Certo la passione per Di Pietro e Davigo fu cieca davvero; il sostegno magari ci stava pure, ma gli osanna e gli applausi agli schiavettoni delle celle e delle manette, avrebbero dovuto pizzicarci più volte, farci svegliare e ascoltare gli inviti di chi invano provava a condurci ad appena maggiore equilibrio; bastava dire, vanno bene le indagini e ci mancherebbe, va bene scoperchiare il diffuso malaffare, ma la gogna, l’eccesso di carcere preventivo, la bulimia accusatoria che non si concentrava sugli illeciti più evidenti ma ovunque ne vedeva, forgiando ogni giorno nuove figure accusatorie, gli editti a reti unificate, le copertine dei procuratori sul cavallo bianco, tutto questo sarebbe stato meglio criticarlo e così pure almeno provare ad arginarlo, più che assecondarlo come invece abbiamo fatto in massa. Anche perché, mirabilmente ricordava ieri Giuliano Spazzali, la storia non si è mai fatta con i processi penali. Bastava per un attimo pensarci, per farci essere più cauti o almeno meno osannanti. Spazzali è l’avvocato che con determinazione e dignità, difese Cusani in diretta televisiva in un processo in parte sacrosanto ma in tanta parte costruito per fare sfilare al banco dei testimoni, che però lo spettatore non distingueva da quello degli imputati, anzi dei già condannati (senza sentenza), l’intero rosario degli allora potenti leader di partito, in balbuziente difficoltà o in fiera, quanto disperata e in realtà impossibile, difesa.

Da questo impietoso confronto di immagini, l’inevitabile effetto straniante e un po’ imbarazzante di ieri sera, che dovrebbe però guidarci almeno oggi, nel commentare le decisioni della Consulta sui quesiti sulla giustizia, cercando quel minimo equilibrio che all’epoca del tutto ci fece difetto.

Anche la Corte costituzionale, ovviamente, respira l’aria del tempo e quindi dove ha potuto, dove non le era del tutto costituzionalmente impedito, come per l’eutanasia e la cannabis, i referendum sulla giustizia li ha ammessi quasi tutti. Certo, come ha ricordato molto bene Amato, ammettere un referendum non vuol dire invitare a votare per il “Si” e magari alla fine mancherà pure il quorum e di tutto questo resterà poco e niente.

In ogni caso, alcuni significativi quesiti saranno al nostro esame, a partire da quello, impropriamente definito di “separazione delle carriere dei magistrati” e che però un elemento di discontinuità, se approvato, di sicuro lo segnerebbe. In realtà il passaggio del singolo magistrato dalle funzioni requirenti (di pubblico ministero per intenderci) a quelle giudicanti e viceversa, già oggi non avviene spesso. Fatta la scelta iniziale per vocazione o convenienza di collocazione territoriale, poi su quella funzione ci si forma e ci si forgia, non aspirando nemmeno a cambiarla. Ma ciò non toglie che impedirne per legge la possibilità, come avverrebbe in caso di approvazione del quesito da parte del corpo elettorale, segnerebbe, per l’ordinamento giudiziario, un passaggio di fase e sicuramente attesterebbe quel bisogno, non tanto di terzietà effettiva del giudice (che dipende di più dalla cultura e dalla coscienza giuridica di ciascuno), ma di terzietà percepita dai destinatari del servizio giustizia che è elemento niente affatto secondario nella stessa tenuta e credibilità del sistema istituzionale.

Come pure platealmente figli dei tempi e dell’inversione a U degli umori collettivi, sono i quesiti per l’abrogazione, non degli eccessi, ma dell’intera legge Severino sul rapporto tra condanne e candidabilità e per la drastica riduzione dei presupposti che legittimano la custodia cautelare. Non molti anni fa, si scendeva in piazza per la “Severino” difendendone anche i pur evidenti eccessi, come quello che sospende il sindaco per ben 18 mesi anche per una mera decisione solo di primo grado sul talvolta inafferrabile reato di abuso di ufficio, talmente rimesso alla ricostruzione delle intenzioni dell’amministratore affidata alla discrezionale valutazione  del giudice, che forse richiedere una decisione almeno confermata in appello, sarebbe stata scelta indubbiamente più ponderata. Ma togliere con un colpo di spugna tutte le incandidabilità, anche quelle connesse ai reati più gravi, magari dovute alla contaminazione criminale dell’azione politica e amministrativa forse è anche questo un eccesso non del tutto raccomandabile. Staremo a vedere. Certo, la Corte ammettendo il referendum ha ritenuto che le nostre oscillanti passioni possano essere misurate, e a loro affidata la scelta. Ora vedremo che dirà il termometro, che peraltro quando tra qualche mese si voterà, non è detto che sarà lo stesso di oggi.

Pure assai significativo è il quesito che sforbicia la custodia cautelare. “Tagliare le unghie ai pubblici ministeri”, si sarebbe detto ai tempi delle grandi contrapposizioni sul tema. Ma oggi, come con la consueta onestà intellettuale ha sottolineato in televisione Gherardo Colombo, è l’eccesso di carcere che interroga una società che voglia dirsi davvero civile e guardi alla pena non come vendetta ma come correzione e, se possibile, rieducazione.

Per il resto a parte la avvertita necessità di significative innovazioni sul funzionamento del CSM cui peraltro governo e Parlamento stanno cercando faticosamente di porre rimedio, e l’introduzione della componente dell’Avvocatura nella valutazione dei magistrati, anche questa, più simbolica che foriera di effetti sui giudizi di valutazione delle professionalità dei giudici, che difficilmente  cambieranno, il quesito sulla responsabilità civile diretta è giustamente risultato alla Corte non errato nel merito, ma all’evidenza volto ad introdurre un nuovo istituto, con una valenza quindi propositiva non ammessa in una democrazia rappresentativa, dove se un’innovazione così forte (dove la parte del processo può a sua volta instaurarne un altro citando direttamente in tribunale civile il suo stesso giudice, con qualche rischio di cortocircuito e la introduzione per legge del processo al processo che tante volte abbiamo criticato) deve essere introdotta dal Parlamento se ne ha numeri e forze. Certo il sistema che oggi passa dalla mediazione di una previa responsabilità dello Stato dovrebbe, da un lato, essere maggiormente utilizzato e dall’altro dimostrare maggiore effettività nel risarcire gli errori giudiziari non infrequenti e comunque davvero così lontani dal fondamentale insegnamento “meglio dieci colpevoli in libertà che un innocente in prigione”. Già, quell’insegnamento, basterebbe farlo davvero proprio per avere almeno una bussola e farsi ognuno una consapevole opinione, che a ben vedere è il primo dei nostri doveri.

Immagine: La Fontana dei Dioscuri e il palazzo della Corte costituzionale in piazza del Quirinale, Roma (10 ottobre 2020). Crediti: Jolanta Wojcicka / Shutterstock.com

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