La prima Conferenza mondiale delle Nazioni Unite si tenne a Stoccolma dal 5 al 16 giugno 1972. Nello stesso anno, qualche mese prima, fu pubblicato da Donella Meadows, Dennis Meadows, Jørgen Randers e William W. Behrens III, il Rapporto sui limiti dello sviluppo, richiesto al MIT dal Club di Roma. Il rapporto, basato sulla simulazione al computer, prediceva le conseguenze della continua crescita della popolazione sull’ecosistema terrestre e sulla stessa sopravvivenza della specie umana. Le conclusioni del rapporto erano, sinteticamente, le seguenti: a) se l’attuale tasso di crescita della popolazione, dell’industrializzazione, dell’inquinamento, della produzione di cibo e dello sfruttamento delle risorse del pianeta devesse proseguire in modo inalterato, i limiti dello sviluppo saranno raggiunti in un momento indefinito nell’arco di tempo di 100 anni. Il risultato più probabile sarà un declino improvviso ed incontrollabile della popolazione e della capacità industriale; b) è possibile modificare i tassi di sviluppo e giungere ad una condizione di stabilità ecologica ed economica, sostenibile anche nel lontano futuro. Lo stato di equilibrio globale dovrebbe essere progettato in modo che le necessità di ciascuna persona sulla Terra siano soddisfatte e ciascuno abbia uguali opportunità di realizzare il proprio potenziale umano.

A distanza di circa 30 anni, all’inizio degli anni Duemila, il sistema di analisi è stato ampliato, aggiungendo una quantità maggiore di dati aggiornati e più moderni strumenti di calcolo. Sulla base di questi, nel 2004 è stato pubblicato un volume di aggiornamento intitolato Limits to Growth: The 30-Year Update (tradotto e pubblicato in Italia nel 2006 col titolo I nuovi limiti dello sviluppo): la pubblicazione, fondamentalmente, ricalcola e conferma i risultati precedenti. A tutt’oggi, possiamo dire di avere dilapidato gli ultimi 50 anni: i grani dell’ambientalismo, a suo tempo piantati, non sono germogliati e le finestre temporali di intervento si sono drasticamente ridotte. L’ultimo traumatico passo indietro sull’ambiente si è verificato il 30 giugno 2022: la Corte suprema degli Stati Uniti, accogliendo il ricorso della West Virginia, Stato più carbonifero degli USA, ha messo fuori uso l’Environmental Protection Agency (EPA), istituita nel 1970, poiché nella sentenza si legge che l’EPA non è mai stata autorizzata dal Congresso ad emanare le direttive necessarie per costringere le centrali termiche a ridurre le emissioni di CO2. In più, attualmente, in un pianeta sempre meno pacificato, ove esplodono guerre con teatri politici ed operativi molto ampi, di grande risonanza, ponendo in secondo piano o dimenticando lo status ambientale e la correlata transizione ecologica, la situazione è destinata a peggiorare, prova ne siano, ad esempio, il conflitto tra Russia e Ucraina, quello israelo-palestinese e la ininterrotta tensione politico-militare fra la Cina e Taiwan, che dà luogo a continue ed intense manovre militari. Molti dei cambiamenti ambientali e sociali che si verificano nei conflitti armati possono creare nuove e significative sorgenti di emissione dei gas ad effetto serra (GHG, Green­House Gas). Nello stesso tempo, il collasso di governo ambientale associato ai conflitti può creare o sostenere le condizioni che permettono il fiorire di pratiche inquinanti, vanificando gli sforzi per affrontarle. Si intende, di seguito, esaminare solo alcune delle sorgenti dirette ed indirette delle emissioni durante e dopo i conflitti. Queste ultime sono tipicamente funzione di come e dove vengono combattute le ostilità, nonché della loro intensità.

Emissioni dirette

I depositi di petrolio, la sua conservazione e le sue linee di trasporto sono spesso obiettivi di guerra (ad esempio, in Colombia, Libia, Siria, Iraq). I relativi incendi e versamenti generano emissioni. È stato calcolato che nel 1991 gli incendi di questo tipo, avvenuti durante la guerra del Golfo, hanno contribuito a più del 2% delle emissioni fossili di CO2 nell’anno suddetto, con conseguenze a lunga distanza e durata. Fra queste, l’inquinamento da incendi che ha contribuito all’accelerazione dello scioglimento dei ghiacciai tibetani, a causa della fuliggine depositatasi sul ghiaccio. La vegetazione può essere anch’essa obiettivo di guerra: allorché questa viene rimossa il carbonio in essa contenuto viene rilasciato. L’uso storico di defolianti chimici e la soppressione meccanica in Vietnam, Cambogia, Laos ebbe l’obiettivo militare di eliminare la copertura forestale, con circa il 14 ÷ 44% di perdita di specie arboree vietnamite. Si possono citare esempi più recenti, come il rogo di foreste nel Nagorno-Karabakh avente lo scopo di facilitare lo svolgimento delle ostilità con i droni; i raccolti attaccati nel Nord-Est della Siria e, in Israele, le aree protette date alle fiamme, mediante aquiloni incendiari.

Emissioni indirette

Le emissioni indirette provenienti da conflitti in atto sono difficili da quantificare, ma forse sono le più significative, dal momento che interessano molti settori e si proiettano nel futuro. Nelle prime fasi dei conflitti, le maggiori emissioni sorgono dalle infrastrutture danneggiate, dalla perdita di vegetazione e dalle operazioni relative agli aiuti umanitari. Il controllo delle emissioni indirette richiede in primis la comprensione della relazione esistente fra il mutamento sociale e l’ambiente, dal momento che molti di tali cambiamenti sono in relazione con le strategie messe in atto dalla popolazione civile per far fronte alle varie situazioni. Allorché le infrastrutture energetiche ed i mercati vengono colpiti dai conflitti, ma incombe la necessità di carburante, la popolazione spesso si rivolge verso alternative più dannose e meno efficienti. Per esempio, in Siria, si è creata una crisi di raffinazione artigianale del petrolio, correlata alla scarsa comprensione su come le pratiche altamente inquinanti contribuiscano alle emissioni. Lo stesso dicasi per quanto concerne la deforestazione per incendi, episodi ben documentati nella Repubblica Democratica del Congo, in Yemen, Sudan meridionale, Siria ed altrove. I movimenti umani transfrontalieri possono contribuire alle emissioni annuali dei Paesi confinanti, per esempio quelli di Libano, Giordania e Turchia, che riguardano gli spostamenti di popolazione in seguito ai combattimenti in Siria. Mentre si scrive, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, oltre a causare ed alimentare miseria diffusa, morte e distruzione, messe in evidenza dai mass media, arreca, con minore comprensione da parte dell’opinione pubblica, impatti di vasta portata sul clima. I miliardi di dollari in armi, jet, carri armati e camion che accompagnano il feroce conflitto (e non solo quest’ultimo), contribuiscono alle emissioni che, nell’offuscamento delle ostilità, rimangono difficili da quantificare e che non vengono considerate nell’obiettivo di Parigi per limitare il riscaldamento a 1,5 gradi Celsius (2,7 Fahrenheit). Inoltre, scatenando una crisi energetica mondiale, la guerra in Ucraina rappresenta anche una minaccia indiretta per gli obiettivi climatici globali.

Il conflitto ha messo in evidenza la dipendenza del mondo dal petrolio e dal gas che, fra l’altro, finanzia la macchina da guerra russa. Mentre le nazioni occidentali sono in corsa per trovare alternative, alcuni sono orientati verso sorgenti energetiche molto più inquinanti. Invece di realizzare una transizione più rapida verso le fonti rinnovabili, l’Unione Europea – per esempio – pianifica di sostituire una parte del gas russo con il “freedom gas” USA, ottenuto con la tecnica del fracking ad alte emissioni nocive. In più, temendo un blocco dei combustibili fossili, alcuni Paesi (tra i quali la Germania) cercano di intensificare l’uso del carbone per affrontare la crisi energetica.

La guerra mette a rischio gli obiettivi climatici

Durante il summit del G7, tenutosi in Germania il 26 giugno 2022, i leader mondiali hanno finalmente preso atto dell’impatto climatico del conflitto Russia/Ucraina. Axel Michaelowa (Political Economy and Development Department, University of Zurich) ha affermato: «Il G7 sta ora lottando con gli impatti indiretti della guerra legati all’energia…». Tali impatti «rendono più difficile per il G7 il raggiungimento degli obiettivi climatici previsti dall’accordo di Parigi». Michaelowa è l’autore principale di un rapporto, reso noto durante la Conferenza sul clima tenutasi nella prima settimana di giugno 2022 a Bonn, in Germania; in tale rapporto viene meglio evidenziata la necessità di dichiarare e rendere conto più dettagliatamente delle emissioni militari correlate ai conflitti. Fra l’altro, esso mostra che le emissioni delle operazioni militari in tempo di pace e di guerra sono note solo in parte, senza una chiara responsabilità nel contesto degli obiettivi climatici delle Nazioni Unite. Continua Michaelowa: «Dato che le emissioni militari possono raggiungere centinaia di milioni di tonnellate di CO2 all’anno», le Nazioni devono «…affrontare in modo più trasparente» gli impatti climatici diretti e indiretti delle guerre. Un suggerimento è l’inclusione di tutte le emissioni militari in un «Inventario globale» di gas serra, che dovrebbe essere finalizzato alla Conferenza sul clima COP28 del novembre 2022. Un altro suggerimento rientra nella Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che gestisce gli obiettivi climatici globali per monitorare a distanza la «distruzione ad alta intensità dei serbatoi di carbonio» durante la guerra, come depositi di carburante, città e incendi boschivi.

L’impronta di carbonio non viene segnalata

Sebbene le forze armate di tutto il mondo siano preoccupate da decenni per una crescente crisi climatica che potrebbe essere l’innesco chiave di un conflitto futuro, è stato fatto poco per affrontare il loro ruolo nell’incrementare il riscaldamento globale attraverso l’uso di combustibili fossili. L’Unione Europea, che, collettivamente, possiede il secondo insieme di forze armate del mondo, segnala solo alcune emissioni dovute a problemi di sicurezza nazionale: ad esempio, non sono incluse le emissioni indirette generate dalla produzione di sistemi d’arma militari. Secondo un rapporto del 2021 del Gruppo di monitoraggio con sede nel Regno Unito, le sole emissioni militari di quest’ultimo sono almeno tre volte superiori agli 11 milioni di tonnellate di CO2 segnalate nel 2018. Nel frattempo, poiché i ricercatori hanno affermato che le emissioni annuali delle Forze armate statunitensi, le più grandi al mondo, se adeguatamente conteggiate, ammontano a circa 23,5 mila kilotonnellate di CO2 nel 2017, si considera che la macchina da guerra statunitense sia la più grande consumatrice istituzionale di idrocarburi del pianeta. Secondo una stima, le migliaia di pozzi petroliferi dati alle fiamme durante la guerra del Golfo del 1991 rappresentavano il 2-3% delle diffusioni globali. Eppure, si è mostrato scarso interesse a limitare tali emissioni, fuori misura. Più recentemente, la situazione ha iniziato a cambiare, con la NATO che ha esortato gli Stati membri a diventare climaticamente neutrali entro il 2050. Il Gruppo di monitoraggio ha pubblicato, di recente, un rapporto che mostra che la rendicontazione regolare e trasparente, finora scarsa, di tutte le emissioni dirette e indirette sarà vitale per il raggiungimento dell’obiettivo di zero netto della NATO, includendo le emissioni Scope 3[1], come la ricostruzione post-conflitti.

La guerra in Ucraina riorienta il bilancio globale delle emissioni militari

La guerra in Ucraina ha messo in luce una crescente consapevolezza della rilevanza delle emissioni militari. Per Stuart Parkinson, ricercatore presso Scientists for Global Responsibility ed esperto di emissioni militari, qualsiasi spesa bellica è legata ai combustibili fossili, anche in Ucraina. Si deve considerare che, prima della guerra, la Russia e l’Ucraina insieme rappresentavano circa il 3,5% della spesa militare totale globale (2,1 trilioni di dollari), ma che da allora all’Ucraina sono stati dati 19 miliardi di dollari in aiuti militari solo dagli Stati Uniti. In questo quadro è necessario sottolineare che la spesa militare è di per sé ad alta intensità di carbonio, a causa della dipendenza delle forze armate dai combustibili fossili.  «È la prima volta che i media mi chiedono dell’impatto sul clima della guerra», ha affermato Doug Weir, direttore della ricerca e delle politiche presso The Conflict and Environment Observatory, riferendosi al modo in cui il conflitto ha messo in luce «l’insicurezza energetica» e la dipendenza dai combustibili fossili. Weir ha osservato che i budget militari sono spesso concentrati anche sulla sicurezza delle forniture di combustibili fossili, come ad esempio in Libia, dove il conflitto decennale ha rallentato la produzione di petrolio. Secondo Greenpeace, tra il 2018 e il 2021, Italia, Spagna e Germania hanno speso oltre 4 miliardi di euro in missioni che mirano a preservare l’approvvigionamento di petrolio e gas.

La trasparenza climatica potrebbe generare pace

Sebbene la nozione di guerre per il petrolio non sia nuova, il cambiamento climatico sta aggiungendo un’altra dimensione al legame tra forze armate e combustibili fossili. Se la contabilizzazione obbligatoria delle emissioni militari potesse minacciare la capacità di un Paese di raggiungere i propri obiettivi climatici, «questo potrebbe avere un effetto deterrente sull’aggressione», ha affermato Axel Michaelowa. La logica sottostante a questa affermazione è che l’azione per limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius richiederà una transizione energetica completa attraverso le fonti rinnovabili, il che significa che ci saranno meno soldi guadagnati dalle esportazioni di combustibili fossili che possono essere reinvestiti in grandi macchine da guerra e conflitti. «Se avessimo un mondo basato sull’energia rinnovabile e decentralizzata, ci sarebbero meno fondi per coloro che vogliono invadere i loro vicini» (Michaelowa).

Il problema delle emissioni inquinanti correlate alla ricostruzione

L’ambiente edificato, per la sua realizzazione, richiede circa il 40% dei materiali estratti nel mondo e gli scarti di demolizione e di costruzione rappresentano il più grande flusso di rifiuti in molti Paesi. Nell’insieme, l’edilizia e le costruzioni, in generale, sono responsabili del 39% di tutte le emissioni di carbonio nel mondo, con diffusioni operative (ad iniziare dall’energia utilizzata per riscaldare, raffreddare e illuminare gli edifici) che ne rappresentano il 28%. Il restante 11% proviene dalle emissioni di carbonio incorporate, o carbonio iniziale associato ai materiali e ai processi di costruzione, durante l’intero ciclo di vita dell’edificio. Inoltre, l’ambiente edificato richiede circa il 40% dei materiali estratti nel mondo, mentre i materiali di risulta, nella demolizione/costruzione, rappresentano il più grande flusso di rifiuti in molti Paesi. La percezione comune è che costruire di nuovo possa ridurre radicalmente le emissioni di carbonio, rispetto a un edificio esistente, da ristrutturare. È necessario osservare, però, che tali risparmi potranno essere raggiunti solo in futuro e anche quando le emissioni operative saranno ridotte costruire un nuovo edificio significherà aver pagato un pesante tributo anticipato in termini di emissioni di carbonio derivanti dall’estrazione di materie prime, dai trasporti e dalle varie attività correlate all’edilizia. Al contrario, una profonda ristrutturazione di un fabbricato esistente può ridurre le diffusioni di carbonio “operative”, evitando le emissioni associate alla costruzione di nuove strutture. Il carbonio incorporato copre le emissioni totali derivanti dalla costruzione di un nuovo edificio e dal suo fine vita. Il 60% delle emissioni di carbonio incorporate è associate alla sottostruttura, al telaio, ai piani superiori e al tetto di un edificio; elementi che dovrebbero essere conservati in una profonda ristrutturazione, il che significa che, in media, l’impronta di carbonio di un edificio ristrutturato è la metà di quella relativa alla sua sostituzione attraverso una nuova costruzione.

Il dato ambientale per la ricostruzione

Alla luce di quanto fin qui sommariamente esposto, si deduce che, se volessimo raggiungere lo “zero netto” di emissioni GHG nell’edilizia, attualmente e nel futuro, gli edifici dovrebbero ridurre la loro impronta di carbonio o le emissioni di carbonio incorporate. Una recente ricerca mostra che sarebbe auspicabile un bilancio di carbonio incorporato di 600 kg CO2e/m[2] (2), che è una sfida difficile dato che un tipico edificio commerciale ha da 1.000 a 1.500 kg CO2e/m2. Con un nuovo edificio, scantinati e telai strutturali richiedono tonnellate di cemento, acciaio e alluminio che rappresentano circa un terzo del carbonio incorporato. Michaelowa ha osservato che le emissioni previste dalla ricostruzione delle città distrutte durante la guerra in Siria, ad esempio, sono pari alla produzione annua di gas serra della Svizzera. Una profonda ristrutturazione può mantenere invece la sottostruttura e la struttura e fornire comunque eccellenti prestazioni del tessuto delle costruzioni. Mediante la scelta dei materiali opportuni, alcuni edifici possono ridurre la domanda di calore e fornire standard di illuminazione e ventilazione equivalenti o migliori rispetto ad un nuovo edificio. Ovviamente, non tutti gli edifici possono risultare adatti per l’ammodernamento “a zero emissioni di carbonio”, ma con la creatività si può fare molto più di quanto si possa pensare.

[1] Le emissioni GHG di Scope 3 comprendono, per esempio, le emissioni legate al ciclo di vita delle materie prime e dei combustibili, ai trasporti per approvvigionamento e distribuzione dei prodotti, ai viaggi dei dipendenti, ai rifiuti prodotti, agli investimenti aziendali e, normalmente, costituiscono la larga parte dell’impatto climatico aziendale.

[2] La CO2 equivalente (CO2e) è una misura che esprime l’impatto di una certa quantità di gas serra sul riscaldamento globale, rispetto alla stessa quantità di anidride carbonica (CO2). In particolare, si può parlare di “grammi di CO₂ equivalenti”, “chilogrammi di CO₂ equivalenti”, “tonnellate di CO₂ equivalenti” e così via, con riferimento, rispettivamente, a un grammo, un chilogrammo o ad una tonnellata di sostanza. In questo ambito, è opportuno definire il “potenziale di riscaldamento globale” (PRG). Questo parametro è una misura di quanta energia assorbiranno le emissioni di 1 tonnellata di gas inquinante, in un dato periodo di tempo, rispetto alle emissioni di 1 tonnellata di anidride carbonica (CO2). Maggiore è il PRG, più un dato gas riscalda la Terra rispetto alla CO2 nel suddetto periodo di tempo. Nel calcolo del PRG, viene utilizzato un periodo di 100 anni. Ad esempio, per il metano, il valore “28” di PRG₁₀₀ significa, quindi, che 1 tonnellata di metano ha 28 volte l’impatto sul riscaldamento globale di 1 tonnellata di anidride carbonica su un arco temporale di 100 anni_._

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