Un oro olimpico nei 100 metri piani e dunque un italiano (Marcel Jacobs) a fregiarsi del titolo di uomo più veloce del pianeta, un altro nella staffetta 4x100, la vittoria del campionato europeo di calcio a 53 anni di distanza dall’unico altro trionfo, i successi negli Europei del volley maschile e femminile, quello nel softball, la leggendaria Roubaix vinta da Sonny Colbrelli. E poi ancora due tennisti azzurri nella top 10 ATP (Association of Tennis Professionals), numeri da record nei medaglieri di Olimpiadi, Paralimpiadi e Mondiali di nuoto in vasca corta, l’oro iridato delle Farfalle della ritmica. Qualcosa all’elenco manca, perché ogni protagonista meriterebbe menzione, ma, proprio per questo, nella storia dello sport azzurro il 2021 è destinato a rimanere un anno pressoché irripetibile, dodici mesi nei quali l’Italia e gli atleti italiani hanno vinto di tutto, trionfando dappertutto e salutando peraltro in questo clima festoso i ritiri di personaggi quali Valentino Rossi e Federica Pellegrini. La percezione è quella di una superpotenza sportiva, cosa che l’Italia proprio non è, eppure l’anno che se ne va proietta esattamente questo nell’immaginario collettivo. Una pesca sportiva miracolosa celebrata persino dai francesi che hanno dedicato al movimento azzurro numeri monografici di riviste quali So Foot (“100% Italie”, il titolo del numero dedicato) e del magazine de L’Equipe (“La forza Italia”). Già, i francesi che s’incazzano, e che invece non solo non si arrabbiano più, ma nemmeno rosicano e anzi, applaudono con sportività, come forse gli italiani non farebbero mai e come, certo, non hanno fatto quando, ad esempio, nel 2018 proprio la Francia vinse un Mondiale di calcio al quale l’Italia neppure era stata capace di qualificarsi.

Da una prospettiva italocentrica, pertanto, il 2021 è già leggenda. Se gli italiani hanno vinto, però, è accaduto perché si è giocato, si è corso, si è nuotato. Una considerazione apparentemente scontata ma che, al contrario, porta con sé una serie di considerazioni per nulla banali in un mondo ancora segnato dalla pandemia. Nel 2020 lo sport si era fermato, per circa quattro mesi l’agonismo era sostanzialmente sparito, come nemmeno in tempi di guerra: erano appunto in programma le Olimpiadi e gli Europei di calcio, che saltarono così come gran parte dei tornei internazionali in calendario, vennero mutilate diverse competizioni nazionali e altre, quando ripresero nei mesi conclusivi dello scorso anno, ricominciarono in diversi casi all’interno di bolle o, comunque, private di ciò che rende lo sport un aspetto fondamentale della nostra vita associativa, ovvero il contesto, il contorno. Il 2021 ha rappresentato pertanto non l’anno della ripresa agonistica, in senso stretto, ma quello nel quale lo sport è tornato a vivere situazioni abituali “prima” della pandemia ‒ la presenza del pubblico negli impianti, il ritorno in forze dell’attività dilettantistica e di base ‒ con accorgimenti tipici di un “dopo” che, in realtà, è invece un “durante” piuttosto fluido nel quale protocolli e restrizioni cambiano di continuo e fa capolino anche una componente anti-vaccinista (in alcuni casi si tratta anche di atleti di grido, primo fra tutti il numero 1 ATP Novak Djokovic). Ai dettami dei governi lo sport finisce inevitabilmente per adeguarsi, ma sempre più di malavoglia, almeno per quanto concerne lo sport d’élite il quale, dopo avere sperimentato il lockdown e le conseguenti problematiche, dopo la ripresa ha ricominciato a pensare più a sé stesso e alle sue logiche che a quelle di interesse generale; un fattore, questo, caratteristico di un sistema economico specifico di stampo sempre più neoliberale.

In questo senso il 2021 ha anche confermato lo spostamento dell’asse geopolitico verso un Medio Oriente che, a grandi passi, sta assumendo il ruolo di potenza egemone sul piano proprietario e organizzativo dello sport. La recente acquisizione del Newcastle United da parte del fondo sovrano saudita PIF (Public Investment Fund) si situa nel solco di un processo, avviato una quindicina di anni fa, che ha visto Paesi come Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrain e Arabia Saudita assurgere a punti di riferimento economici per foraggiare club e istituzioni sportive attraverso sponsorizzazioni, partnership e acquisizioni sempre più spregiudicate. Non si tratta solamente del calcio ‒ che, dal 21 novembre al 18 dicembre 2022, vivrà i Mondiali in Qatar e che, nel 2021, ha visto quattro campionati (la Premier League inglese, la MLS statunitense, la Super League indiana e la A-League australiana) vinti da squadre controllate dal gruppo anglo-emiratino City Football Group ‒ ma di tutti gli sport più popolari in Europa. Si pensi ad esempio ai team ciclistici finanziati dai Paesi del Golfo, al Motomondiale che ha trovato nello stesso Qatar un partner assai rilevante, al rally che vede da alcuni anni la Dakar svolgersi in Arabia Saudita, per non parlare della Formula 1 nel cui calendario, proprio nel 2021, hanno debuttato i gran premi dell’Arabia Saudita (Gedda) e del Qatar (Losail), i quali si sono così affiancati a quelli di Bahrain (Manama) ed Emirati Arabi (Abu Dhabi). A ciò si accompagna la nomina in ruoli apicali di alcune istituzioni sportive di figure quali il neoeletto presidente della FIA (Federazione Internazionale dell’Automobile), lo sceicco Mohammed ben Sulayem, o del presidente del Paris Saint-Germain, Nasser Al-Khelaïfi, da aprile alla guida dell’ECA (European Club Association).

La salita di Al-Khelaïfi alla poltrona presidenziale dell’associazione dei club calcistici europei ci riporta poi a un altro evento significativo per lo sport europeo avvenuto nel 2021, vale a dire il coming out ‒ con relativo roboante e immediato fallimento ‒ del piano per rivoluzionare il calcio continentale attraverso la nascita della European Super League. Un progetto non nuovo ma uscito per la prima volta ufficialmente allo scoperto, potenzialmente capace di scardinare l’ordine costituito, annunciato in pompa magna e costretto a una ritirata tutt’altro che gloriosa. Tutto, ora, è apparentemente accantonato ma non certo scomparso, anche perché i promotori, riuniti nella European Super League Company s.l., hanno citato a giudizio la UEFA e la FIFA ponendo ai giudici della Corte di giustizia dell’Unione Europea una domanda pregiudiziale per chiarire se queste stiano comprimendo la libera concorrenza e abusando della propria posizione dominante quali organizzatori e regolatori del calcio continentale. C-333/21 è il codice di incardinamento del protocollo presso la cancelleria della Corte: se ne discuterà probabilmente nella seconda metà del 2022 e, in ogni caso, la pronuncia sarà importante per interpretare il futuro dello sport europeo più seguito.

Cambiando continente, com’era prevedibile, negli Stati Uniti va segnalato il disgelo dello sport nei confronti della Casa Bianca dove il passaggio dall’amministrazione guidata da Donald Trump ‒ in aperto scontro con gli atleti più in vista ‒ a quella del presidente Joe Biden ha significato anche la distensione dei rapporti tra governo e sportivi, caratterizzata simbolicamente da ritorno delle squadre vincitrici dei tornei più rilevanti ‒ a puro titolo di esempio i Milwaukee Bucks per la NBA (National Basket-ball Association), i Tampa Bay Buccaneers per la NFL (National Football League), i Los Angeles Dodgers per la MLB (Major League Baseball) ‒ alla dimora presidenziale per gli onori di rito spesso mancati in era Trump. In uno sport dalle connotazioni sempre più eminentemente politiche, non si tratta affatto di un dettaglio.

Immagine: La squadra italiana celebra la vittoria alla fine del campionato UEFA Euro 2020. Gruppo A partita tra Italia e Galles allo Stadio Olimpico di Roma (20 giugno 2021). Crediti: Marco Iacobucci Epp / Shutterstock.com

Argomenti

#calcio#Olimpiadi#italia#sport