I decimi anniversari, e i loro multipli, sono un’occasione ghiotta per fare bilanci. Niccolò Machiavelli è stato tra i precursori, con i suoi due Decennali in rima. Nel primo ‒ che va dal 1494 al 1504 ‒ esordisce così: «Io canterò l’italiche fatiche, / seguìte già ne’ duo passati lustri / sotto le stelle al suo bene inimiche». Le “italiche fatiche” da raccontare sono senza dubbio tante anche guardando all’imminente trentennale dell’inchiesta “Mani pulite”: il 17 febbraio 1992 a Milano fu arrestato ‒ per aver intascato tangenti ‒ Mario Chiesa, presidente socialista e craxiano del Pio Albergo Trivulzio, in un’inchiesta coordinata dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro.

Si generò ben presto il termine Tangentopoli, per definire un sistema diffuso di corruzione in cui si intrecciano partiti, finanza, imprenditoria e società più o meno civile. Le conseguenze di quegli eventi si avvertono ancora oggi. Tuttavia, tanti italiani under 40, troppo giovani per ricordare o nati dagli anni Novanta in poi, probabilmente ne hanno avuto notizia solo grazie a una serie televisiva: quella ‒ non troppo fedele ai fatti ‒ andata in onda su Sky come trilogia nel 2015, 2017 e 2019, con i titoli 1992, 1993 e 1994.

Ricordare nel 2022 quegli anni è sempre opportuno. Semmai il problema oggi non consiste nella capacità di rievocarli, bensì nella scarsa capacità di storicizzarli. In altre parole, non si è ancora cercato di spiegare quel cataclisma giudiziario in relazione al preciso periodo storico in cui si è verificato, esaminando tutte le componenti in gioco. È chiaro che un approccio di questo tipo dovrebbe spettare, tre decenni dopo, agli storici; perché di giudizi sociologici, giornalistici, giurisprudenziali, giustizialisti, innocentisti e politicisti ne sono già stati emessi parecchi.

È lecito obiettare che 30 anni sono pochi per guardare a quel periodo in modo storicistico? Si potrebbe replicare con un esempio famoso: lo storico Renzo De Felice rivoluzionò le precedenti analisi sul fascismo a partire dal 1965, appena 20 anni dopo la Seconda guerra mondiale. Tanto che in occasione del trentennale, nel 1975, creò gran scompiglio tra storici e politici quando con Laterza pubblicò l’Intervista sul fascismo, confrontandosi con lo studioso statunitense Michael A. Ledeen. Invece, per quel che riguarda Mani pulite, prevale ancora un tipo di lettura memorialistica.

Guarda caso, nelle librerie ci sono tre libri usciti a fine 2021: due scritti da giornalisti che seguirono quelle cronache giudiziarie (Goffredo Buccini del Corriere della sera, per l’editore Laterza, e Mario Consani de Il Giorno, per Nutrimenti) e uno (edito sempre da Laterza) redatto dal più “giustizialista” dei magistrati del pool anticorruzione: Piercamillo Davigo. Il volume di Buccini ‒ Il tempo delle mani pulite. 1992-1994 ‒ e quello di Davigo ‒ L’occasione mancata. Mani pulite trent’anni dopo ‒ sono, da punti di vista diversi, racconti autobiografici; con conclusioni in entrambi i casi piuttosto amare, a proposito delle conseguenze. Mentre il libro di Consani ‒ Tangentopoli per chi non c’era ‒ ha un taglio didascalico, nel senso positivo del termine: in terza persona, l’autore fa una cronistoria dedicata ai più giovani.

È ovvio che le ricostruzioni di ciascuno degli autori possono essere considerate “di parte”, a seconda di giudizi e pregiudizi sugli anni di Tangentopoli. D’altronde, anche l’autore di questo articolo è stato uno dei cronisti che seguirono l’inchiesta milanese, per l’Unità; quindi a sua volta potrebbe apparire parziale. Per contestualizzare un minimo la vicenda, basti ricordare che dal “caso Chiesa”, che lì per lì pareva clamoroso ma circoscritto, partì una raffica di indagini ‒ milanesi e non solo ‒ che nel giro di pochissimi anni sconvolse il sistema dei partiti: la maggior parte, dalla DC al PSI, sparì e tutti furono stravolti; nacquero nuove formazioni politiche, in testa la berlusconiana Forza Italia. Dal cataclisma è nata quella che è definita ‒ impropriamente ‒ “Seconda Repubblica”, di cui vediamo i risultati più o meno apprezzabili.

Buccini racconta le scorribande nel Palazzo di giustizia di Milano, in compagnia (e/o in concorrenza) con un plotone di giornalisti intorno ai 30 anni, mandati allo sbaraglio anche da altre testate. Le racconta dal punto di vista del cronista del Corriere, incluse le dinamiche all’interno della redazione e i rapporti col direttore Paolo Mieli. Sostiene col senno di poi che i giornalisti come lui, della stampa e delle TV (il web non c’era ancora), ebbero il torto di costruire un’illusione: quella sulla «fine della corruzione e degli intrighi, secondo cui i magistrati erano i vendicatori della società civile contro una politica marcia». Il racconto è fluido e coinvolgente, sebbene non emerga che la varietà dei redattori “al fronte” era molto variegata e non tutti coltivavano quell’illusione: alcuni per partito preso; altri perché cercavano di mantenere la tensione verso l’imparzialità: senza sposare acriticamente la causa giudiziaria, per quanto in apparenza “salvifica”.

Il magistrato Piercamillo Davigo, il più granitico (ancora oggi) nella certezza dell’infallibilità dell’indagine giudiziaria, ammette: «Le difficoltà che i miei colleghi e io abbiamo incontrato sono state enormi per una ragione semplice: non si può processare un sistema prima che sia caduto. All’inizio… sembrava che i guasti fossero limitati ai partiti politici (neppure tutti) e alle imprese... Strada facendo ci siamo accorti che il malaffare era dilagato ben oltre». Così racconta i suoi entusiasmi e le sue delusioni (anche nei confronti di Di Pietro, quando questi nel 1994 lasciò in modo imbarazzante la toga), rievoca l’iniziale enorme sostegno popolare nei confronti del pool di magistrati, cita la reazione dei potentati: «Lentamente i legami di potere si rinsaldarono e da allora l’Italia è teatro di uno scontro tra il tentativo di far osservare la legge anche ai detentori del potere politico ed economico e la tentazione di questi poteri di sottomettere gli organi giudiziari alla volontà politica. Poteva essere l’inizio di un positivo rinnovamento per l’Italia. Ma fu un’occasione persa».

Il giornalista Mario Consani non trae conclusioni personali. Racconta. Ecco gli arresti quotidiani di imprenditori e politici, il pool acclamato, il cappio esibito in Parlamento dai leghisti (in prima fila con i post-fascisti nelle manifestazioni pro-Mani pulite), le monete contro il segretario del PSI Bettino Craxi, i processi, i suicidi, compresi quelli di vip dell’economia come Gabriele Cagliari (Eni) e Raul Gardini (Montedison ed Enimont), coinvolti in indagini collaterali a quelle del pool. Fino all’invito a comparire per Silvio Berlusconi e alle dimissioni inattese di Di Pietro dalla magistratura.

Nel libro di Consani i giudizi sono affidati a due commentatori: nella prefazione, l’avvocato penalista Giuliano Pisapia (all’opera sul fronte di Mani pulite, poi sindaco di Milano, oggi europarlamentare del PD); in un’intervista conclusiva, l’ex pm di Mani pulite (e di altre clamorose inchieste) Gherardo Colombo, dal 2007 ex magistrato. Pisapia solleva dubbi sull’«uso eccessivo della carcerazione preventiva», usata «non raramente senza che vi fossero i presupposti previsti dalla legge», ma finalizzata «a dichiarazioni accusatorie degli indagati». Poi afferma: «Il sistema giudiziario non è, e non può essere considerato, onnipotente. L’opera dei magistrati è fondamentale, ma intorno al loro lavoro non può né deve esserci alcuna aura salvifica. Non sono stati, né avrebbero potuto esserlo, gli arresti e i processi a battere la corruzione. La questione… deve essere affrontata dal punto di vista culturale».

Tuttavia, è proprio l’intervista a Colombo quella che suggerisce la necessità di storicizzare Tangentopoli. Perché una delle domande per gli storici è questa: Mani pulite ha fatto crollare il sistema dei partiti oppure quel sistema aveva creato le condizioni per autodistruggersi? L’ex pm sembra rispondere quando afferma: «Le indagini sono state possibili per… la fine della divisione del mondo in due blocchi contrapposti». In precedenza, la «guerra fredda… era presa a giustificazione di ampi strappi alla legalità (ovviamente inconfessati) che spesso integravano reati». Dopo la caduta del muro di Berlino, «le parole d’ordine che cementavano i partiti tradizionali diventano senza senso e gli elettori si rivolgono ad altro... Per lo stesso motivo non si ha più la forza di bloccare le inchieste e Mani pulite non viene fermata. Prima, invece, le poche indagini che iniziavano in un modo o nell’altro si arenavano, si dissolvevano, si bloccavano, spesso ostacolate anche dall’interno della magistratura».

Conclude Gherardo Colombo, per quel che riguarda questo aspetto: «Non credo si faccia un servizio alla storia prospettando la vicenda come se quell’inchiesta fosse separata dalla realtà dell’epoca, nata in provetta e basata sul nulla. Ed è fuorviante sostenere che le indagini siano state la causa dell’implosione del sistema politico tradizionale». Un punto di vista su cui è difficile non concordare. Tuttavia, sarebbe ora che la storia ‒ quella svolta dagli storici di professione ‒ cominciasse ad avere la meglio sulla memoria, quella dei protagonisti. Leggere col metodo della ricerca storiografica quelle “italiche fatiche”, per dirla con Machiavelli, è diventato possibile. E forse indispensabile.

Bibliografia

Goffredo Buccini, Il tempo delle mani pulite. 1992-1994, Laterza, Bari 2021

Mario Consani, Tangentopoli per chi non c’era, Nutrimenti, Roma 2021

Piercamillo Davigo, L’occasione mancata. Mani pulite trent’anni dopo, Laterza, Bari 2021Immagine 0

Immagine di copertina: Da sinistra, Gherardo Colombo, Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo. Crediti: L’immagine è un fotogramma tratto dal video MANI PULITE - Tangentopoli spiegata in 15 minuti (https://www.youtube.com/watch?v=hCUY23HBKkE)

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