Quattro parole che diventano cinque, una traduzione non letterale ma capace di riempire di ulteriore senso l’originale. Diego Armando Maradona è un capitolo di Futbol a sol y sombra, quello che da noi è noto come Splendori e miserie del gioco del calcio, dello scrittore uruguaiano Eduardo Galeano. Descrive Maradona, Galeano, con un icastico «jugó, venció, meó, perdió» che, nella traduzione italiana di Pierpaolo Marchetti, diventa «giocò, vinse, pisciò, fu sconfitto», e in quella forma passiva c’è tutto l’espressionismo di una parabola, quella umana del leggendario calciatore argentino, irripetibile.
L’episodio tratteggiato da Galeano si riferisce al Mondiale del 1994 negli Stati Uniti, alla squalifica per doping che di fatto chiuse la carriera ad altissimi livelli di Maradona, fatto salvo l’occaso in una dovuta epifania al Boca, la squadra del cuore. Davvero fu sconfitto, più che perse, perché il mondo di Diego Armando Maradona ha travalicato i confini di una esistenza individuale per entrare a pieno diritto nel patrimonio collettivo, non solo degli appassionati di calcio o di sport in generale. Certo, il grimaldello è stato il piede sinistro, il genio abbacinante sul campo, ma l’esserne eccellenza assoluta è diventato pretesto per rendere di pubblico dominio l’uomo. I suoi eccessi e la sua generosità figlia di una storia personale mai rinnegata, le sue debolezze e la sua onnipotenza nel rivendicare una possibilità di quelle che capitano in sorte a uno su centinaia di milioni: riuscire a farsi ascoltare da tutti.
Divino eppure umano, troppo umano: il lascito di Maradona è qui, nell’avere fuggito la perfezione patinata accettando di avere a volte la faccia sporca, perché la vita è così. «El futbol es el deporte mas lindo y mas sano del mundo. Porque si se equivoque uno, no tiene que pagar el futbol. Yo me equivoqué y pagué, pero la pelota no se mancha»: lo disse nel pomeriggio del suo addio al calcio, lo sport più pulito e sano del mondo – le sue parole – perché se uno fa degli errori, non è il calcio a dovere pagare; io ho sbagliato e ho pagato, ma il pallone non si macchia. Il pallone, il gioco del bambino diventato adulto, angelo o demone – che importa? –, angelo e demone forse, e comunque paladino riconosciuto di tutti coloro che non sono mai diventati come lui ma della cui schiera avrebbe fatto parte se non ci fosse stato il calcio a dargli una possibilità.
Ecco perché Maradona è stato un fenomeno sociale e culturale, un fenomeno eminentemente politico anche grazie alla straordinaria eco mediatica generata da ogni suo gesto. Unico nell’esaltare il riscatto sociale e la redenzione dei popoli (quello argentino, quello di Napoli) che vivevano nella sua fede, nel suo culto; amico di Fidel Castro e sostenitore esplicito di Evo Morales e Hugo Chávez, personaggio puro e allo stesso tempo raffinatamente truffaldino (fu lui a rovesciare il senso del gol irregolarissimo contro l’Inghilterra a Messico 1986: a caldo la definì la mano de Dios, ci mise in mezzo le Falkland/Malvinas e ci cascarono tutti), iconico paladino degli oppressi e contestatore di un certo potere sebbene egli stesso immerso nel vizio che l’aveva portato più volte ad un passo dalla morte. È anche grazie a lui se, sul campo e per traslato nella vita, ha senso pensare che i piccoletti e i derelitti possano battere i giganti e i plutocrati, e che non sia solo cosa da fumetti.
Il Maradona politico è stato quello che la sua idea l’ha sempre detta, giusta o sbagliata, alzando la voce, e tanto bastava, mentre i fuoriclasse venuti dopo di lui (e anche eccelsi sportivi prima di lui, Muhammad Alì escluso) si sono dimostrati fenomeni pure del marketing, buoni per quasi tutte le stagioni: poche parole e mai fuori posto, anodini casomai, perché guai ad agitare gli sponsor o – absit iniuria verbo – la fanbase. Maradona no: ci fosse da tirar bordate sul presidente della FIFA Blatter o del suo vice, l’argentino Julio Grondona, da dare degli hijos de puta agli italiani che fischiarono l’inno argentino prima della finale di Italia ’90, da definire traditrici le eminenze del Partido revolucionario institucional messicano, da presentarsi in TV indossando una t-shirt con il messaggio “Stop Bush” dove la S era sostituita da una svastica, oppure da prendere la tessera del partito peronista in un momento di difficoltà per la popolarità di Cristina Kirchner, El Diez ha sempre preso posizione senza filtri. Uomo indiscutibilmente di parte eppure in fondo uomo della collettività, perché non si può volere male a chi ha fatto meglio di tutti ciò che tutti avrebbero voluto fare quando, bambini, si sognavano grandi.
L’epigrafe se la scrisse da solo nel 2000. Una autobiografia di vent’anni fa (pubblicata in Italia da Fandango con il titolo Io sono El Diego) che si chiude con parole che paiono già un testamento: «Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato così male. So di non essere nessuno per cambiare il mondo, ma non voglio che nessuno entri nel mio a condizionarlo. A manovrare la partita, che è come condizionare la mia vita. Nessuno riuscirà a farmi credere che i miei errori con la droga o con gli affari abbiano cambiato i miei sentimenti. Nessuno. Sono lo stesso. Quello di sempre. Io sono El Diego».
È stato El Diego. È stato tutto.