Il tempo lungo delle settimane del contagio ci ha forzatamente abituato a parole desuete per il lessico moderno: pandemia, quarantena, isolamento, profilassi, stato di emergenza. Questi suoni a noi estranei hanno fatto irruzione nel movimento quotidiano delle vite, messe d’un tratto sottovuoto, come le sempreverdi ampolle dei paesaggi con la neve da agitare che si trovano agli angoli di ogni aeroporto. Abbiamo iniziato ad osservare come spettatori inermi i nostri giorni fermi, i cortili vuoti, le serrande aperte fino a sera nella speranza di intravedere qualcuno o anche qualcosa a noi prossimi, le strade silenziate e sconosciute agli occhi familiari.
Ma due espressioni, più delle altre, nella lavanderia sentimentale che il Coronavirus ci ha imposto, hanno preso a ibridarsi, a confondersi: mobilità e fissità. Due opposti, come reciterebbe il dizionario. Eppure il Covid-19, che ha mischiato le carte in tavola come un pokerista avvezzo al colpo di scena, ha estratto il nocciolo delle parole, per rieducarci ad esse.
Appartengo ad una generazione che ha fatto della mobilità il vessillo della scelta libera: liberi di muoversi nell’Europa aperta, liberi di andare e tornare, liberi di lavorare con metodi nuovi, liberi di essere connessi, liberi e felici di sentirci veloci. Mobilità equivaleva a velocità. Il mondo in un clic, ogni muro può cadere, le persone si affastellano su linee immateriali. Le cose “smart”, gli amori mobili, le case fluide, le città in perpetua percorrenza. Un concetto di modernità afferrabile durate la corsa, nell’illusione che quest’ultima ci avrebbe resi simili anche nella lontananza. D’un tratto, senza preavviso di sorta, la mobilità è diventata il capo d’accusa, la colpa. Essere mobili significava trovarsi dal lato del virus, che per definizione sa correre meglio di noi. E allora per fermare il suo slancio tossico, mortale, abbiamo riscoperto la necessaria fissità. Stare fermi, in casa, lontano dagli altri. Distanziamento come affrancamento dal morbo. Ci siamo scoperti ad osservare la morte, il dolore, la paura, il vuoto, senza movimento. Le persone amate, i luoghi di sempre, persino gli addii, da remoto. L’immobilismo ha appiattito le differenze e acuito le distanze. Tutto, da fermi, si è fatto pesante. Porgere la mano è d’improvviso un male dal quale ripararsi.
E non sono solo psicologici, i risvolti di questa mutazione di senso delle parole.
La mobilità è spesso sinonimo di precarietà, perché la speranza che l’ambizione al posto fisso lasciasse spazio alla conquista del lavoro flessibile è stata smentita dalla storia. La classe così eterogenea e grossa dei lavoratori ha sentito crescere, in questi mesi, la faglia che separa quelli con i diritti da quelli che i diritti li vedono annacquati. L’impatto economico di questa crisi è materia di discussione politica quotidiana. Ma qualunque possa essere la ricetta, gli ingredienti sono noti a tutti: diseguaglianze, impoverimento, indebitamento. Senza contare che, ancora una volta, il peso della cosiddetta fase 2, cui seguiranno la numero 3 e la numero 4, lo portano perlopiù le donne sulle loro spalle stanche. Le donne per le quali aumentano le deleghe familiari, le madri lavoratrici alle prese con una dilatazione delle responsabilità, le colleghe meno garantite e dunque più sole alle quali spetteranno difficili compromessi.
Come funamboli intontiti vorremmo riprendere a muoverci, ma sappiamo che ogni errore di leggerezza peserebbe sui risultati di questa battaglia tutta da vincere. Allo stesso modo, come centometristi ingessati, sappiamo che quello che prima ci appariva vecchio e logoro, come la lentezza, può tornare ad essere una opportunità.
Avvenire, il giornale della CEI (Conferenza Episcopale Italiana), titolava in prima, pochi giorni fa «lavorare meno, tutti», seguendo la eco di un antico sentire radicale e di sinistra. Poche formule potrebbero riassumere meglio un’urgenza avvertita da tutti. Il lavoro sarà la parola del futuro prossimo. Che diventi l’occasione di una riflessione ampia, seria, sulle condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori, molti dei quali lanciati nella corsa senza equipaggiamento, è un auspicio. Ma fare di questi giorni un motivo non di rinascita quando di ri-crescita, scrivendo nuove regole che attenuino la vulnerabilità e premino la fatica del coraggio, quello sì, è un dovere morale. Al pari del rispetto delle regole.
La terza implicazione è quella che ci investe come cittadini, parte di una comunità.
Dovremo imparare a muoverci con mezzi puliti, a tenere la distanza di sicurezza, a pretendere servizi più efficienti, a rispettare i luoghi nella loro integrità, non già per una scelta etica ma per istinto di sopravvivenza. A credere nella prossimità, a ripensare al modo di comprare e di viaggiare, ad acquistare un libro e un biglietto per il teatro in più, a fare scelte di quella che un tempo si chiamava “sostenibilità”, in pubblico e nel nostro sempre più risicato privato. Ma la più sfidante delle strade che si affacciano alla nostra vista resta culturale: per pretendere che “non accada più”, forse, servirà ripeterci, come una preghiera della notte, che spetta a noi non fare più parte di quello che finalmente ci sembra così ingiusto.
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