La media è abbastanza costante ormai da anni: 3 morti al giorno. Nel 2022 sono state 1.090 le persone che hanno perso la vita sul lavoro. L’anno precedente erano state un po’ di più, 1.221, ma il calo si deve – fortunatamente – all’attenuarsi della pandemia da Covid-19 che aveva fatto salire a dismisura i decessi nel comparto sanitario. Ora che si sta tornando alla “normalità”, i settori in cui si muore di più sono trasporti, edilizia, manifattura, mentre il 30% dei decessi avviene “in itinere”, cioè andando o tornando dal luogo di lavoro. La statistica non dice tutto. Per esempio, che si può morire anche in luoghi apparentemente impensabili, lontani mille miglia dall’iconografia classica del lavoro pericoloso: perché nemmeno la più fertile fantasia potrebbe immaginare due morti e un ferito grave non in un’acciaieria o sotto un’impalcatura, ma in un circolo del golf; perdipiù in via Karl Marx. È accaduto vicino a Milano, il 12 aprile – mese in cui si celebra la giornata mondiale della sicurezza sul lavoro – per il cedimento di una piattaforma elevabile su cui 3 operai stavano potando degli alberi ad alto fusto.
I numeri, invece, ci indicano alcune tendenze. La prima è che il numero assoluto degli infortuni è in aumento: lo scorso anno più 25% sul 2021. La seconda che le età più pericolose sono quelle all’estremità del percorso lavorativo: gli ultrasessantenni sono 12% del totale, i giovanissimi tra i 15 e i 24 anni il 9%. La terza che cresce il numero degli incidenti mortali di cui sono vittime gli stranieri, oltre il 10%. La quarta che, in un panorama occupazionale ancora ad ampia prevalenza maschile, gli incidenti femminili aumentano di più rispetto a quelli maschili (più 43% rispetto a più 16%).
Cosa vuol dire tutto questo? In primo luogo, che la “geografia” dell’infortunistica ricalca quella del mercato del lavoro e delle professionalità, confermando che i mestieri più pericolosi sono sempre più appannaggio delle fasce sociali e anagrafiche più deboli. In secondo luogo, che nei settori lavorativi meno professionalizzati conta soprattutto la velocità d’inserimento nell’organizzazione produttiva e la rapidità di esecuzione delle mansioni, cose che vanno a scapito della sicurezza: dove la quantità prevale sulla qualità, il lavoro è più rischioso, una tendenza confermata dall’incremento dei dati assoluti degli infortuni che ha accompagnato la ripresa produttiva post-Covid.
Tutto ciò significa che si muore soprattutto per inesperienza (giovani), usura (anziani), marginalità (stranieri): i giovani sono spesso lavoratori precari – in alcuni casi addirittura stagisti o studenti in alternanza scuola-lavoro – poco o male informati sulle mansioni che devono svolgere; gli anziani sono vittime di attività che conoscono magari anche troppo bene, ma che per loro sono diventate troppo faticose e pesanti; gli stranieri s’infortunano per i mille motivi derivanti dalle difficoltà d’inserimento in una nuova comunità, dalla lingua all’emarginazione etnica.
Eppure il nostro Paese è quello che ha una delle migliori legislazioni al mondo per la tutela contro gli incidenti sul luogo di lavoro. Anche dal punto di vista contrattuale, le principali categorie produttive stipulano accordi tra aziende e sindacati che prevedono norme molto precise; nelle imprese che aderiscono a questi contratti vengono eletti tra i lavoratori i delegati alla salute e sicurezza, per confrontarsi con le imprese su questa materia.
I problemi nascono quando si passa dalla teoria alla pratica. “A monte” per lo scarso spazio che viene dato alla formazione dei dipendenti; “a valle” per la carenza di controlli da parte dell’autorità pubblica, visto che i continui tagli di bilancio degli ultimi anni hanno ridotto il numero degli ispettori del lavoro a poco più di 4.000. In linea più generale, a peggiorare il quadro, c’è la costante tentazione di bypassare i limiti imposti da leggi, professionalità e buonsenso, magari staccando qualche dispositivo di sicurezza o scordandosi di utilizzare qualche “fastidiosa” protezione; per guadagnare di più o finire prima il lavoro.
Alla fine, è sempre un problema di risorse – economiche e umane – e di come vengono utilizzate: nel caso della sicurezza, risparmiare tempo e denaro non è mai un buon investimento per la vita.