Imparare sure del Corano per farsi trovare preparati all’eventuale interrogazione di uomini con lunga barba e mitragliatore? Esprimere sui social network il fermo proposito di bombardare ignote località mediorientali – o simmetricamente di interrompere dall’immediato ogni attività di peacekeeping? Accettare senza riserve limitazioni della libertà in nome della sicurezza? Evitare concerti, stadi, viaggi in treno e aereo, o controllare ossessivamente comportamenti e bagagli degli individui dall’epidermide più scura della nostra se costretti a farlo?
Idee e comportamenti comprensibili, a fronte del peggior regalo che gli attentatori griffati Isis potessero farci: l’imprevedibilità di una violenza brutale, l’impossibilità di comprendere cosa cambiare in noi per sfuggire alla minaccia.
Il ruolo dei media: cosa vuole l’Isis
I media, con le loro scelte editoriali, hanno una grande responsabilità nel veicolare messaggi corretti per rappresentare lo scenario in cui viviamo.
Non è un caso che molte testate europee comincino a rifiutare di trasmettere le immagini cruente degli attentati, capaci di creare emulazioni nei soggetti deboli – qualche giorno fa due rapinatori nella metropolitana di Roma si son fatti largo inneggiando all’Isis per sfuggire alla cattura - e seminare paura in chi frequenta zone considerate a rischio; la logica è quella di bloccare la strategia da social media marketing degli uomini del califfato, che dal continuo rimpallo di video dal forte contenuto emozionale trae il suo potere attrattivo. Raccomandazione rilanciata dalle autorità, a partire dagli attentati a Bruxelles dello scorso marzo in poi. Un caso paradigmatico di contagio del panico avvenne lo sorso novembre, poco dopo la serie di attentati a Parigi: una donna telefonò alla nipote raccomandandole di non frequentare la borghese area di Ponte Milvio a Roma in base a presunte informazioni riservate provenienti dal Viminale e non divulgate: la registrazione diventò virale e fu necessario l’intervento del premier Renzi per arginare una deriva paranoica collettiva.
Secondo una ricerca di Huddy e collaboratori, la percezione del rischio terrorismo aumenta l’intolleranza politica, la xenofobia e i pregiudizi, fino ad arrivare a una riduzione delle facoltà cognitive, a maggiore chiusura mentale e a intolleranza verso le opinioni discordi. Terreno fertile per il califfato, che su una progressiva emarginazione degli europei di religione islamica punta per la radicalizzazione e vendetta dei reietti. Non bisogna perdere di vista i dati: una stima recente del Pentagono parla di trentamila affiliati Isis, a fronte di un miliardo e seicento milioni fedeli dell’Islam nel mondo.
La costruzione della sicurezza
La sensazione di sentirsi al sicuro, prima ancora che dai fattori psicosociali, risente della storia individuale di ogni persona. Lo psicoanalista Erik Erikson individuò nel primo anno di vita il preciso compito esistenziale della creazione di fiducia o sfiducia, in noi stessi e negli altri; Bowlby avrebbe poi riconosciuto pattern precisi e relativamente stabili nell’evoluzione dei comportamenti di sicurezza o insicurezza, espressi poi nella coppia o in società. Da qui un turbamento variabile rispetto alle minacce d’attualità. Fallimenti in questa fase possono condurre a disturbi di personalità, dell’umore o del pensiero: la necessità di scindere e sviare dallo sguardo cosciente esperienze spaventose vissute precocemente può condurre a sensazioni di vuoto da riempire con la ricerca di identità forti o con comportamenti smodati. Fino ad agire fantasie mortifere in cui tutto il mondo deve morire con sé: l’identikit è quello del killer di Nizza.
Cosa fare per i testimoni o i familiari delle vittime
L’Italia ha pagato un tributo di sangue inferiore agli altri Paesi in cui sono avvenute materialmente le stragi. Le storie dei nostri connazionali uccisi, all’estero per studiare, lavorare o in vacanza, ci hanno toccato: le famiglie hanno diritto a comunicazioni puntuali e affidabili sulle condizioni dei propri cari, cosa che a Nizza non è del tutto avvenuta. Chi poi ha fatto esperienza di situazioni traumatiche non comuni, pur riuscendo a trarsi in salvo ne porterà con sé per tutta la vita i segni: risvegli notturni, flashback dolorosi, continuo stato di allerta sono alcuni sintomi del disturbo post-traumatico da stress, legato all’esposizione a un improvviso pericolo di vita. Per loro c’è un approccio terapeutico efficace, sviluppato dalla psicologa statunitense Francine Shapiro negli anni Duemila: l’EMDR (Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari). Si tratta di un metodo che utilizza i movimenti oculari - o altre forme di stimolazione alternata destra/sinistra: dopo una o più sedute di EMDR i ricordi disturbanti legati all’evento traumatico sono desensibilizzati e perdono la loro carica virulenta. Il cambiamento è molto rapido, indipendentemente dal tempo trascorso dall’evento.
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