Un grande precursore come il maestro pasticcere Corrado Assenza, anima del Caffè Sicilia di Noto e fautore del superamento delle barriere tra dolce e salato, raccontava in una recente intervista rilasciata a Gabriele Zanatta le ragioni che lo stanno spingendo a dedicare maggiore interesse al mondo della pizza, a scapito di quello dolce: “In questa comunità c’è dinamismo e voglia di innovare. È un cosmo oggi più vivace e interessante di quello della pasticceria”.
Assenza fotografa con esattezza una realtà che ha subìto in questi ultimi anni una sorta di rivoluzione capace di cambiarla in profondità. L’epicentro di questo sisma va localizzato a San Bonifacio, provincia di Verona, dove giusto vent’anni fa il pizzaiolo Simone Padoan, classe 1971, apriva il proprio locale, I Tigli, con in testa l’idea di rinnovare profondamente uno dei piatti italiani più conosciuti nel mondo: di lì a poco avrebbe in effetti creato la “sua” pizza, diversa da quelle viste fino ad allora, primo mattone di una scuola che oggi conta decine e decine di proseliti.
Così Padoan racconta quegli anni: «Era il 1999 e alcuni miei problemi in famiglia stavano affossando anche l’attività professionale. Pensai di dare una svolta: "Aprire un bar? Un'enoteca?". Poi decisi: invece di cambiare lavoro, avrei cambiato il modo di lavorare». Alla vigilia del nuovo millennio tirava brutta aria, nel mondo delle pizzerie, dominava la logica del fast food: prodotti sempre più massificati e scadenti, in una folle corsa ad abbassare costi e qualità. «Dissi: facciamo il contrario, miglioriamo gli impasti, usiamo materie prime fresche...». Nacque la pizza “alla Padoan”, che supera il già noto introducendo piatti d’alta cucina come condimento del disco lievitato. Impasto e guarnizione sono dunque preparati separatamente: il primo, ben idratato, a lunga lievitazione da lievito madre, è alto e croccante, sa di buon pane, viene servito al tavolo già tagliato a spicchi, una pizza alla volta cosicché i commensali possano condividere, ognuno mangia spicchi di pizze diverse, in una sorta di percorso da degustazione. Perché l’altra novità sta appunto in quel che viene messo sopra l’impasto, vere e proprie preparazioni d’alta cucina. Alcuni nostri recenti assaggi: pizza con carpaccio di cappasanta allo yuzu (il mandarino cinese, ndr), fior di latte, radicchio amaro al cartoccio, crema di pistacchio e cappero, polvere di rapa; oppure con crudo di gambero rosso, fior di latte, raperonzolo, lime, cetriolo e gin tonic; o con filetto di maialino al tè affumicato, fior di latte, agretti e cipolla bionda caramellata.
La svolta è stata così radicale da determinare una disputa anche terminologica. Perché è evidente che le proteste dei tradizionalisti hanno poco senso: la pizza di Padoan è squisita, “tutti gli devono essere grati, anche quei napoletani che lo vedono come fumo negli occhi perché ha aggiornato le lancette dell’orologio, dicendo sempre grazie al Pizzaiolo Ignoto che inventò la pizza ma senza mai farsi schiacciare da tradizioni e retorica”, ha scritto il critico gastronomico Paolo Marchi. Ma il punto è: davvero la si può chiamare pizza? Come distinguerla da quella classica? Come far capire al commensale cosa si troverà sopra il piatto?
Ne è nata una discussione che non ha ancora avuto esito. C’è chi parla di “pizza da degustazione”, chi di pizza “gourmand” o “gourmet”, chi di “pizza d’autore”, chi ancora di “pizza creativa”. Soluzioni tutte piuttosto insoddisfacenti, così come quella di “pizza alla veneta” che allude alle origini di Padoan e di molti tra coloro che ne hanno seguito le orme, primo tra tutti l’altro veronese Renato Bosco, un mago dei lievitati con piedi nel suo Saporé a San Martino Buon Albergo. Da lui si può scegliere tra cinque diversi impasti, con differenti struttura e consistenza. Nella confinante provincia di Brescia lavorano, con logiche simili, Nerio Beghi del Sirani di Bagnolo Mella e Antonio Pappalardo de La Cascina dei Sapori di Rezzato; nel Vicentino c’è Riccardo Antoniolo, dell’Ottocento Simply Food di Bassano del Grappa; due suoi collaboratori hanno aperto La Pizzeria a Marcon…
Da questo nucleo iniziale, grazie anche all’attività dell’Università della Pizza creata da un noto molino, la “nuova” pizza ha travalicato la propria area d’origine: la troviamo al ‘O Fiore Mio, con tre sedi a Bologna, Faenza e Milano Marittima; all’Apogeo di Pietrasanta, pizza-chef Massimo Giovannini; a I Due Gatti di Massimo Gatti, a Parma e Borgotaro; al Berberé di Castel Maggiore… Indirizzi ben noti ai buongustai: perché tra le conseguenze di questa nuova tendenza c’è stato l’inserimento delle pizzerie nelle guide dei ristoranti. La pizza è risultata “nobilitata”, la reputazione del pizzaiolo creativo è ascesa a un livello pari a quello dello chef. E, viceversa, alcuni chef si sono cimentati nella preparazione di pizze: il tristellato Massimiliano Alajmo, delle Calandre di Rubano (Padova), la serve al vapore come antipasto; il siculo-norvegese Christian Puglisi, già sous chef di Rene Redzepi al Noma - ossia del ristorante considerato primo al mondo - ne propone due spicchi diversi – con mozzarella fatta in proprio da latte danese – nel degustazione del Bæst, il proprio indirizzo più informale.
Un’espansione a macchia d’olio, vista a lungo con enorme fastidio nella patria della pizza doc, quella descritta dal disciplinare dell’Associazione Verace Pizza Napoletana, fondata nel 1985 nel capoluogo campano e che annovera oltre 200 professionisti iscritti, gli unici che possano fregiarsi del marchio “vera pizza napoletana”. Racconta la giornalista partenopea Luciana Squadrilli, tra le massime esperte di questo mondo: «Agli inizi c’è stata una spaccatura netta a Napoli fra tradizione "stretta" e chi cercava comunque di innovare, ma oggi sembra che in qualche modo le posizioni si stiano avvicinando. C'è un'attenzione più diffusa alla qualità e alla ricerca».
La fazione conservatrice è guidata da pizzaioli come Antonio Starita, Attilio Bacchetti, Salvatore Di Matteo e poi “la figlia del presidente”, al secolo Maria Cacialli, il padre era quell’Ernesto “‘o pizzaiolo del presidente” che preparò nel 1994 la famosa pizza a Bill Clinton durante il G7 a Napoli. Pronti a innovare, ma con juicio, sono nomi ormai famosi anche in tv come Enzo Coccia, Gino Sorbillo, i fratelli Salvo… Ci sono poi "cani sciolti" come Patrick Ricci e i suoi impasti incredibili - al farro, alla segale... - del Pomodoro & Basilico di San Mauro Torinese; o Denis Lovatel del Da Ezio, ad Alano di Piave. Mentre veri e propri pontieri tra tradizione campana e innovatori “del Nord” risultano infine figure come Gianfranco Iervolino, Ciro Salvo, il veneto Lello Ravagnan del Grigoris di Mestre o il grande Franco Pepe, uno che dalla sua Pepe in Grani di Caiazzo (Caserta) spiega così le proprie scelte: «La penso come Massimo Bottura (il maggiore chef italiano, ndr): facciamo tesoro della tradizione, ma dobbiamo guardare all'innovazione», tanto che sta persino testando un rivoluzionario forno elettrico, Scugnizzo della partenopea Izzo Forni, che ha prestazioni pari a quelle del miglior forno a legna.
E non è tutto. Esiste anche una “scuola romana” che comprende alcuni grandi indirizzi (In Fucina, Padoan style, e La Gatta Mangiona, più vicina a Pepe), e due geniali innovatori: Stefano Callegari inventore del Trapizzino, triangolo d’impasto nato con l'idea di inserire i piatti della cucina romana nella pizza bianca; e il sommo Gabriele Bonci, venerato nell’Urbe per il suo Pizzarium che sforna a getto continuo pizze al taglio dall’impasto perfetto e dai mille condimenti diversi.
Condimenti? Forse non è un termine adeguato. Perché se non è stata trovata ancora una parola adatta per denominare la nuova pizza “alla veneta”, lo stesso si può dire per ciò che va sopra l’impasto. Come chiamarlo? Condimento? Guarnizione? Farcitura? Tutte opzioni con pregi e difetti, Così dilaga l’uso dell’inglese “topping” e qui, tradizionalisti o no, c’è poco da dire: non è forse assurdo dover prendere in prestito un termine straniero per indicare uno dei due componenti principali dello street food… pardon del cibo da strada italiano per eccellenza?