Difficoltà accentuate, prospettive di crescita disattese, un presente difficile e un futuro assai incerto, ma probabilmente non roseo. I progressi rispetto al passato? Troppo deboli. Gli obiettivi di sviluppo fissati? Per il momento complicati da realizzare, in virtù di una realtà economica globale che non lascia particolare spazio all’ottimismo.

È a tinte fosche il quadro tracciato dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) nel suo consueto rapporto sull’andamento – nel corso dell’ultimo anno – della categoria dei cd. ‘Paesi meno sviluppati’, i Least developed countries. Una categoria ancora oggi troppo ampia e che non tende a comprimersi; una categoria che comprende 48 realtà statali rimaste indietro rispetto al resto del mondo e che faticano a colmare il gap.

La lista dei Paesi meno sviluppati è oggetto di revisione triennale – l’ultima è avvenuta nel marzo del 2015 – da parte di un apposito comitato di esperti, che trasmette poi le proprie valutazioni al Consiglio economico e sociale dell’ONU. I macro-parametri presi in considerazione per il giudizio si ricollegano al reddito pro capite, individuando specifiche soglie per aggiungere un Paese alla lista oppure rimuoverlo; ai cd. ‘asset umani’, da cui si ricava un indice composito fondato su variabili quali la percentuale di popolazione sottonutrita, la mortalità infantile, l’iscrizione alla scuola secondaria e i tassi di alfabetizzazione; e infine alla ‘vulnerabilità economica’, parametrata in particolare sull’esposizione del Paese a shock naturali o prettamente economici.

Se uno Stato presente nella lista riesce a ottenere performance soddisfacenti per almeno due dei tre macro-parametri, esso può essere proposto per la ‘promozione’ dalla categoria dei Least developed countries; se invece un Paese non inserito nella lista supera le soglie stabilite per i tre macro-parametri e ha una popolazione inferiore a 75 milioni di abitanti, può essere incluso nella categoria dopo aver prestato il suo consenso. La lista è stata introdotta nel 1971, il meccanismo della ‘promozione’ a successivi livelli di sviluppo per i Paesi in essa presenti è stato invece stabilito nel 1991: da allora, soltanto quattro realtà – Botswana, Capo Verde, Maldive e Samoa – sono state promosse.

Focalizzando l’attenzione sui valori riscontrati nel corso del 2015 – a cui il rapporto UNCTAD dedica ampio spazio – si può rilevare che la crescita del PIL reale dei Paesi meno sviluppati si è attestata su un modesto 3,6%, percentuale più bassa mai registrata dal 1994 e decisamente al di sotto del target del 7% annuo auspicato dal Programma di azione di Istanbul per il periodo 2011-2020. A determinare questo rallentamento, anche rispetto al 2014 quando la crescita si attestò su un più robusto 5,5%, sembra essere stato in primo luogo il notevole calo dei prezzi delle commodities, un fenomeno che ha influenzato in maniera negativa il sentiero economico di quei Paesi che dalle esportazioni di tali beni traggono importanti risorse. Tale andamento in discesa, che non ha risparmiato i minerali e i metalli, è stato particolarmente pronunciato per il petrolio, il cui prezzo – dopo una prima importante contrazione del 7,5% nel 2014 – è precipitato del 47,2% nel corso del 2015, con tutte le conseguenze negative che si possono dedurre per gli Stati esportatori.

Ed è proprio ponendo la lente d’ingrandimento sui Paesi raggruppati per tipologia di esportazione che si può meglio apprezzare questo aspetto: nei Least developed countries specializzati nell’esportazione di combustibili, il PIL reale ha infatti subìto un’allarmante flessione del 4,5% nel 2015, e non è casuale che la seconda peggiore performance abbia riguardato i Paesi specializzati nell’esportazione di altre commodities come il cibo e i beni agricoli, con un’espansione del PIL reale limitata al 3,2%. Decisamente più positivi sono invece i dati relativi ai Paesi che si dedicano soprattutto all’esportazione di manufatti: per loro, la crescita è stata del 6,2%.

Concentrandosi invece sulla dimensione geografica, i Paesi che hanno sofferto di più sono stati quelli africani: è su di loro che l’andamento dei prezzi delle commodities ha infatti prodotto i risvolti più negativi, a cui si sono peraltro aggiunti fattori come l’esposizione ad alcune epidemie. Burundi, Guinea Equatoriale, Sierra Leone e Sud Sudan hanno così sperimentato una contrazione del loro PIL, mentre Guinea e Liberia hanno dovuto fare i conti con una sostanziale stagnazione. Chi invece ha fatto registrare tassi di crescita particolarmente sostenuti è stata l’Etiopia, con un +10,2%, seguita dalla Repubblica Democratica del Congo, dal Bhutan, dal Myanmar, dal Laos e dalla Tanzania, tutti Paesi con una crescita pari ad almeno il 7%. All’estremo opposto della graduatoria lo Yemen, con una flessione del PIL del 28,2% legata in gran parte al dramma della guerra civile che lo dilania.

I Least developed countries – osserva l’UNCTAD – subiscono gli effetti di tre circoli viziosi: il primo è rappresentato dalla ‘trappola della povertà’, perché bassi redditi e una crescita economica ridotta portano a un aumento della povertà che, quasi a chiudere il cerchio, diventa un freno per migliori prospettive di crescita. La seconda è la ‘trappola delle commodities’, a sottolineare una dipendenza che, inevitabilmente, rende più esposti a shock legati ai fenomeni atmosferici e climatici o ancora a condizioni avverse sui mercati. La terza si ricollega infine a basi produttive deboli e a una diversificazione assai contenuta delle esportazioni, che costringono a dipendere in maniera massiccia dai prodotti importati.

Per quanto concerne l’immediato futuro, le difficoltà dei Paesi emergenti e la lenta ripresa globale non consentono di tracciare scenari incoraggianti per i Least developed countries, anche se per il 2016 e il 2017 sono previsti miglioramenti. L’originario obiettivo di ‘promuovere’ almeno la metà dei Paesi presenti nella lista entro il 2020 è ormai accantonato, e anzi secondo l’UNCTAD solo 10 Stati soddisferanno le condizioni per l’upgrade entro tale data, diventando poi 16 fino al 2025. Allora, solo 2 dei 32 Stati rimasti non saranno africani, a sottolineare come, tra i Paesi in difficoltà, quelli del Continente nero vivano la condizione peggiore. Per ora, in 13 realtà si è registrata una contrazione del PIL pro capite. E senza interventi tempestivi, i poveri rischiano di diventare sempre più poveri.