È successo a tutti, a tavola o in altre situazioni sociali: trovarsi di fronte a una persona totalmente assorta dal proprio cellulare, che mortifica i tentativi di conversazione o semplice interazione. È il phubbing, termine inglese – per noi italiani suona sgradevole come il fenomeno stesso – che nasce dalla crasi di phone e snubbing, snobbare con il telefono. Basta capitare in un parco giochi infantile per scoraggiarsi: molti genitori trovano immediato rifugio nei social network perdendo di vista i loro figli, che crescono divisi tra il risentimento per quell’oggetto attraente e l’inevitabile imitazione del modello comportamentale.
Il fenomeno è stato descritto per la prima volta nel 2013 dal giovane esperto di comunicazione australiano Alex Haigh, che con umorismo anglosassone ha creato un sito web per contrastarlo. Vi si possono leggere affermazioni come «se il phubbing fosse un’epidemia avrebbe decimato sei volte la Cina» o «il 97% delle persone affermano che il cibo è più sgradevole se a tavola ne sono vittima»; è possibile scaricare delle locandine per invitare a non metterlo in atto nei locali pubblici o il modello di una lettera destinata ai phubber di propria conoscenza, in cui si invita a riscoprire l’interazione faccia a faccia.
Al di là dell’ironia, si tratta di un comportamento davvero capace di erodere la qualità delle relazioni, particolarmente quelle di coppia quando diviene pervasivo. In uno studio del 2016 pubblicato dalla rivista Computers in Human Behaviour, condotto da James A. Roberts e Meredith E. David, è stata creata una scala a nove item di phubbing ed è stata messa in relazione con la qualità relazionale e con caratteristiche di personalità: malgrado il campione ristretto il risultato è stato netto nell’evidenziare la capacità del phubbing di incrementare i conflitti di coppia, particolarmente nelle persone con uno stile di attaccamento ansioso. L’aspetto più importante evidenziato dai ricercatori è che il fenomeno può avere un impatto indiretto sullo sviluppo di disturbi depressivi. Un’altra ricerca condotta dall’Università del Kent e pubblicata quest’anno dal Journal of Applied Social Psychology ha fornito risultati simili: gli autori hanno sottolineato come il phubbing sia una modalità di esclusione sociale, capace di «minacciare bisogni umani fondamentali come l’appartenenza, l’autostima, il senso di realizzazione e il controllo». Non solo: la continua ricerca dello smartphone si sta configurando come nuova dipendenza comportamentale, coinvolgendo gli stessi circuiti nervosi della dipendenza da sostanze.
Scene come quelle a cui assistiamo sui nostri treni o metropolitane, la quasi totalità delle persone chine sui propri dispositivi, mostrano il quadro di una società in preda alla distrazione di massa. Cosa fare per riprenderci il nostro tempo e la capacità tutta umana di relazionarci ed emozionarci con gli altri? Combattere la secolare e rinnovata battaglia contro la soddisfazione immediata dei bisogni effimeri: l’apparente inclusione sociale fornita dai social network può essere gestita e limitata. Eliminare dallo smartphone le app più coinvolgenti può portare a un calo del tempo di utilizzo fino al 90%, senza che i nostri rapporti sociali ne siano intaccati, vista la possibile asincronicità della comunicazione digitale. Nei casi più gravi bisogna rivolgersi alla psicoterapia cognitivo-comportamentale: prima tappa è portare alla consapevolezza di ciò che si rischia di perdere con il proprio comportamento dipendente.