2 dicembre 2022

Proteste e rivendicazioni al Mondiale in Qatar

La fascia di cui in pochi si sono accorti l’hanno indossata alcuni membri del comitato organizzatore del Mondiale di Qatar 2022, e dire che lo hanno fatto nel giorno di Germania-Giappone, quello della protesta, divenuta iconica, a causa della mancata autorizzazione della FIFA per l’utilizzo, da parte dei capitani di alcune Nazionali, della fascia arcobaleno a supporto della campagna One Love. Meglio andare con ordine, allora, perché in tema di proteste e rivendicazioni politiche la Coppa del Mondo attualmente in corso in Qatar si sta rivelando la più prolifica e complessa degli ultimi decenni.

 

La fascia indossata dai membri del comitato organizzatore, prima di tutto: bianca, con una fantasia nera ispirata al motivo decorativo tradizionale della kefiah, il copricapo arabo simbolo del popolo palestinese. La notizia l’ha battuta la Reuters, l’immagine l’ha evidenziata Kurdsat Sport sui propri profili social e non è cosa da poco: il Qatar fa parte degli Stati che non riconoscono Israele e lo rimarca. Sebbene i cittadini israeliani siano liberi di andare in Qatar, i giornalisti inviati delle televisioni israeliane hanno segnalato il rifiuto (quando non lo scherno) da parte dei tifosi arabi a farsi intervistare una volta conosciuta l’origine dei media, e del resto già alla vigilia dei Mondiali era stato notato che sul sito dell’area hospitality della FIFA, nel menù di prenotazione, non compariva Israele ma la dicitura «territori palestinesi occupati». Perché il Mondiale di calcio è questo, una straordinaria vetrina per mostrare a una platea internazionale le proprie istanze propagandistiche e il sostegno a questa o quella causa, una vetrina che può essere sfruttata ma che porta con sé anche il forte rischio del disvelamento, anch’esso assai rilevante, di possibili magagne potenzialmente molto lesive dell’immagine proiettata, non solo per il Paese organizzatore, ma anche per le istituzioni del calcio.

 

Ecco perché è significativo che la fascia di cui sopra sia stata indossata e mostrata proprio nel corso di una partita, quella tra Germania e Giappone, che resterà a suo modo storica per una protesta relativa a un’altra fascia a sostegno di una campagna internazionale in favore dei diritti LGBTQI+, non indossata dal capitano della Nazionale tedesca Manuel Neuer (così come, il giorno precedente, dai capitani dell’Inghilterra Harry Kane, del Galles Gareth Bale e dei Paesi Bassi Virgil van Dijk) dopo che la FIFA aveva comunicato l’intenzione, corretta da regolamento, di sanzionare chi avesse indossato negli elementi della divisa di gioco qualcosa di non autorizzato. Neuer, allora, invece che con la fascia arcobaleno è sceso in campo con quella istituzionale recante il generico messaggio «No discrimination», ma per protestare contro la FIFA gli undici calciatori della Germania hanno scelto di farsi ritrarre, nelle foto ufficiali di rito prima della partita, con la mano sulla bocca, coperta per simboleggiare la censura della FIFA. Censura che, peraltro, per paradosso è stata confermata e sottolineata dalla decisione della regia televisiva di produzione delle immagini di non mostrare il momento né in diretta né dopo, sforzo vano e ridicolo considerando che le fotografie sono diventate immediatamente virali in rete, rilanciate peraltro proprio dalla federazione calcistica tedesca che aveva anche approntato uno specifico messaggio per spiegare i motivi del gesto: «Volevamo usare la fascia del nostro capitano per prendere posizione sui valori che abbiamo nella Nazionale tedesca: diversità e rispetto reciproco. Insieme ad altre nazioni, volevamo che la nostra voce fosse ascoltata. Non si trattava di fare una dichiarazione politica: i diritti umani non sono negoziabili. Dovrebbe essere dato per scontato, ma non è ancora così. Ecco perché questo messaggio è così importante per noi. Negarci la fascia da braccio è come spegnere la nostra voce. Sosteniamo la nostra posizione».

 

Prim’ancora che il Qatar – già di suo da mesi sotto i riflettori per le migliaia di morti bianche nei cantieri, per i diritti negati ai lavoratori e ai migranti –, in questo caso a rimetterci sul piano dell’immagine proiettata è la FIFA stessa, svelata in tutta la sua ipocrisia in poche mosse, a maggior ragione considerando l’intemerata del presidente della confederazione calcistica internazionale, Gianni Infantino, nell’ormai celebre conferenza stampa all’immediata vigilia del Mondiale: «Today I feel qatari, today I feel arab, today I feel african, today I feel gay, today I feel disabled, today I feel immigrant worker». E cioè: «Oggi mi sento qatariota, arabo, africano, omosessuale, disabile, lavoratore migrante», disse, mettendo in un unico calderone le diverse fonti di polemica, specialmente sui diritti negati. Una conferenza stampa in cui, sebbene per eterogenesi dei fini, non sono mancati punti centrati (nello specifico una critica alle politiche europee sui migranti e sulla doppia morale dei commentatori: «Noi chiudiamo le frontiere, creiamo stranieri illegali. Quante persone perdono la vita nel tentativo di arrivare in Europa?»), ma che poi, nella realtà dei fatti, lasciano perplessi quando, per esempio, si scopre che i lavoratori immigrati che hanno lavorato alla costruzione degli stadi non hanno accesso ai biglietti né ai lasciapassare necessari per vivere il Mondiale nelle aree di Doha dove si ritrova il resto del mondo, ma vengono relegati, quasi segregati, davanti ai maxischermi approntati al Cricket Stadium di Asian Town, a tre quarti d’ora e chissà quanti gradi di separazione dalla festa del calcio di chi se lo può permettere e ha il passaporto giusto. Perché la propaganda, sotto i riflettori globali, finisce inevitabilmente per esporsi anche al disvelamento di aspetti imbarazzanti come questo, ben più rilevante del divieto di vendere e bere birra negli stadi, piuttosto normale, prevedibile e anche legittimo essendo i tifosi ospiti in un Paese islamico.

 

Ma il Mondiale, vale la pena ripeterlo, è un palcoscenico unico e inimitabile, dove anche per questo i calciatori dell’Iran, qualificato ed eliminato alla fase a gironi, si sono trovati a vivere un’esperienza mediatica delicatissima, proprio nei mesi di una fase complessa vissuta dal Paese. Dopo la morte di Mahsa Amini, arrestata con l’accusa di non indossare correttamente il hijab e le proteste che in Iran mischiano le dimensioni anagrafica, religiosa, economico-politica ed internazionale, la Nazionale si è trovata al centro dei riflettori per aspetti non calcistici: per non avere cantato l’inno prima della gara contro l’Inghilterra, per averlo fatto sommessamente in occasione della partita contro il Galles, con gli atteggiamenti dei calciatori vivisezionati e, spesso, raccontati con una scarsa attenzione al contesto e a una serie di situazioni non verificabili, come le pressioni provenienti da Teheran, sia da parte del regime che da parte dei leader della protesta. Perché gli atleti, alla fine, in Qatar erano considerati simbolo sia di un regime – e dunque oggetti di propaganda – che di un popolo e delle sue rimostranze, schiacciati insomma sotto il peso di spinte opposte e dall’essere stati di fatto costretti a caricarsi di responsabilità che non avevano, non loro. Significativo anche quanto si è visto sugli spalti dove, a fronte di diverse persone che hanno palesato ed esposto i segni di solidarietà nei confronti delle proteste (soprattutto in occasione di Inghilterra-Iran), hanno fatto da contraltare nelle gare seguenti numerosi supporter filogovernativi (ne ha scritto qui la BBC), quasi degli “agenti culturali” inviati da Teheran per monitorare la situazione e controllare le proteste.

 

A livello di simboli, gli Stati Uniti – inseriti nel girone dell’Iran – ci hanno messo del proprio, presentando la gara sui propri canali ufficiali, almeno inizialmente, pubblicando la bandiera iraniana priva dell’emblema della Repubblica Islamica al centro, una scelta che aveva portato l’Iran a protestare formalmente con la FIFA. E siccome nessuna rivendicazione nasce nel vuoto, anche le immagini della bandiera esposta nello spogliatoio della Serbia hanno fatto il giro del mondo: sul vessillo campeggiavano i confini nazionali del Kosovo riempiti dai colori della bandiera serba e la scritta «nessuna resa». La FIFA ha aperto un procedimento in merito alla provocazione, e non poteva sfuggire come la Nazionale serba fosse inserita nel medesimo girone della Svizzera, selezione nelle fila della quale negli anni non sono mancati calciatori di origine kosovara. Peraltro, nel Mondiale di Russia 2018 si disputò proprio una gara tra Serbia e Svizzera nella quale gli autori delle due reti svizzere dell’incontro (che terminò 1-2), i kosovari di etnia albanese Xhaka e Shaqiri, esultarono mimando provocatoriamente l’aquila bicipite e suscitando, prevedibilmente, un vespaio di polemiche. Quattro anni più tardi, la polemica ritorna. È il Mondiale, dopo tutto, e sotto diversi rispetti rispecchia il mondo con i suoi nazionalismi e le sue tensioni.

 

Immagine: La’eeb, la mascotte del Mondiale di calcio 2022, durante la cerimonia di apertura, Doha, Qatar (20 novembre 2022). Crediti: A.RICARDO / Shutterstock.com

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