10 dicembre 2014

Quando la destra denunciava la casta

Forse aveva ragione Montanelli, quando pronosticò che Silvio Berlusconi avrebbe distrutto non soltanto la sinistra, ma anche la destra. Di sicuro, il fondatore di Forza Italia, sdoganando nel ’94 i «camerati», ha annichilito una certa tradizione anti-partitocratica e anti-affaristica radicata nell’estrema destra italiana. Oggi è difficile crederlo, dopo i festini del «Trimalcione de’ noantri» (Franco Fiorito), le parentopoli di Alemanno e la recentissima inchiesta sulla «Mafia Capitale», ma ci fu un tempo in cui il Msi poté presentarsi, non a torto, come il partito dalle «mani pulite», mentre la stampa limitrofa imbastiva robuste campagne contro le malefatte dei potenti. D’accordo, talvolta questi fogli ne approfittavano per delegittimare il regime democratico tout court, dipinto quale ricettacolo d’imbrogli e malversazioni. E tuttavia, come non rimpiangere l’indubbia onestà di molti (non tutti) i nostalgici di Mussolini? Queste e altre storie si leggono in uno stuzzicante volumetto di Filippo Maria Battaglia, dedicato alle origini della «casta», fra anni Quaranta e anni Cinquanta, che propizia alcune glosse a margine. Innanzitutto, gli umori anti-casta sono antichi quanto la «casta» stessa, un termine sfoderato da Luigi Sturzo già nel ’50, per censurare «la tendenza di dare posti di consolazione a ministri, sottosegretari e deputati fuori uso». Ma ancor prima, nel dicembre ’44, Guglielmo Giannini – sul numero uno dell’«Uomo Qualunque» – tuonava contro «gli uomini politici professionali», affamati di «cadreghini e canonicati». Ciononostante, la cristallizzazione di un ceto politico spregiudicato e rapace non sarà poi così immediata, se nel settembre ’46 sull’«Europeo» Vittorio Zincone dipinse come «deputati poveri» i neoeletti all’Assemblea Costituente. Gran parte di loro si barcamenava fra alberghetti e pensioncine, mentre per il vitto si rivolgevano al Circolo delle Forze Armate di Palazzo Barberini, assai apprezzato per la sua mensa a buon mercato. Un articolo quasi strappalacrime! In secondo luogo, la prima stagione di grandi scandali coincide, forse non casualmente, con l’uscita di scena dell’integerrimo De Gasperi, che nel ’53 lascia la presidenza del Consiglio e muore l’anno dopo. Già nel ’54, in pieno «caso Montesi», Pietro Ingrao evoca la «questione morale», con quasi trent’anni di anticipo su Berlinguer. Ma non ci sono soltanto comunisti e terzaforzisti a denunciare gli «avidi forchettoni» democristiani. Spiccano pure le grandi firme della destra: Guareschi, Malaparte, Ansaldo, Longanesi, Montanelli e un combattivo reduce di Salò, Mario Tedeschi, che prenderà le redini del «Borghese» dopo la morte di Longanesi (settembre ’57). Un suo libro del ’56 sulla corruzione capitolina suona sinistramente attuale. In terzo luogo, la cooptazione dei socialisti nella «camera dei bottoni», alla fine del ’63, estenderà presto il malcostume pure agli «onorevoli» di sinistra. Lo confermano anche i dati delle autorizzazioni a procedere richieste al Parlamento dalla magistratura. Va comunque aggiunto che se il Pci riuscì a conservarsi quasi sempre «lindo», non fu soltanto per la diversità antropologica dei suoi militanti (innegabile), ma anche grazie all’«oro di Mosca», generosamente elargito dal Cremlino. Infatti, quando nell’estate del ’54 Giulio Seniga, stretto collaboratore del vicesegretario Pietro Secchia, fuggì con un’enorme somma di denaro prelevata dalle casse del Pci (pari a circa 9 milioni di euro attuali), nessuno osò denunciare il furto, trattandosi di finanziamenti sovietici illegali. Infine, non bisognerebbe mai dimenticare che all’epoca la magistratura era assai timida verso la «nomenclatura», perciò non conosceremo mai i reali contorni dell’«economia della corruzione» agli albori della Repubblica. Anche se allora la passione politica forse restava un contravveleno al banditismo affaristico più spinto.

 

Filippo Maria Battaglia, Lei non sa chi ero io! La nascita della Casta in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2014, pagg. 74, € 8,00.


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