Dialoghiamo oggi con Maya De Leo, docente di Storia dell’omosessualità presso il corso di laurea in DAMS dell’Università degli Studi di Torino e autrice di un libro che ha già segnato – per la sua straordinaria importanza – la coscienza culturale del nostro Paese. Si intitola Queer. Storia culturale della comunità LGBT+, la prima storia completa delle sessualità e delle identità LGBT+ in Occidente.
Comincerei dalle due parole-mondo che fanno da titolo e da sottotitolo al suo lavoro, Queer e LGBT+: Cos’è Queer? Bisogna leggere Queer e LGBT+ l’uno come il sinonimo dell’altro? In che modo, vicendevolmente, si includono e si distinguono?
Il termine, per chi non conoscesse la storia di questa parola, ha come primo significato quello di “strano”, “eccentrico”, “bizzarro” e storicamente è stato utilizzato come insulto omo-lesbo-bi-transfobico.
A partire dagli anni Novanta il termine è stato fatto oggetto di riappropriazione e rivendicazione orgogliosa da parte della comunità LGBT+. La comunità era stata colpita pesantemente dall’offensiva omolesbobitrasnfobica legata alla narrazione mediatica dell’epidemia dell’HIV (e alla sua gestione politico-istituzionale). In quel contesto, queer evocava la rabbia delle soggettività marginalizzate, il loro scarto rispetto alle norme di genere, prima ancora di definire un’identità.
In questo senso, il termine queer illumina anche la dimensione intersezionale della comunità che designa: “razza”, classe, abilità sono tutte dimensioni marcate da asimmetrie e diseguaglianze di potere che si intersecano inevitabilmente con quelle di genere.
Da un punto di vista storico, proprio per il suo carattere aperto e centrato sulla dimensione della relazione con il proprio contesto di riferimento, il termine queer può essere utile per descrivere soggettività ed esperienze del passato, a partire, appunto, dal rapporto con il loro contesto, senza forzarne un confronto con il nostro contesto attuale. Queer, dunque, è anche un approccio storiografico: la ricerca di storie, soggettività, vite le cui tracce sono state attivamente occultate nel tempo richiede infatti un ripensamento anche in relazione al nostro modo di interrogare le fonti, di inserirle nelle scansioni periodizzanti dettate dai macroeventi della storia “mainstream” e anche dalle linee narrative adottate per raccontare queste storie.
Se queer, nell’accezione che ne viene fatta in questo libro, privilegia l’attenzione alla dimensione dello scarto dalle norme di genere, l’acronimo aperto LGBT+ pone invece l’accento sulla varietà delle esperienze incarnate di questo scarto. L’acronimo aperto, pur con tutti i suoi limiti, rappresenta una formula sintetica per nominare – rispettandola – questa varietà nella sua dimensione sociale. Inoltre, il sottotitolo “storia (culturale) della comunità LGBT+” vuole enfatizzare l’attenzione che il libro pone alle dinamiche attraverso le quali, nel tempo, la varietà dei soggetti indagati arriva a nominarsi collettivamente, appunto, come “comunità LGBT+”.
Sul sito di Einaudi leggiamo a proposito di Queer: «Finalmente un’opera italiana completa e di riferimento per la storia delle sessualità e identità LGBT+». Questo è inizialmente motivo di enorme gioia, perché leggendo ci rendiamo conto di partecipare collettivamente a un momento davvero importante per la storia culturale del nostro Paese. Nello stesso tempo, però, è forse inevitabile riflettere sul «ritardo» con cui queste pagine vengono accolte in Italia. Da una parte è motivo d’orgoglio sottolineare che finalmente un grande editore pubblichi una storia della comunità LGBT+; dall’altra, nel 2021, molti di noi spererebbero che questo non fosse un evento eccezionale, ma la normalità. Che ne pensa?
Sì, è sicuramente motivo di grande gioia che un editore così importante abbia supportato con entusiasmo questo progetto che, in un certo senso, è veramente un progetto “collettivo”: oltre ai risultati delle mie ricerche e alla prospettiva data dal mio sguardo storico, si può infatti dire che il testo per la prima volta in Italia, offre una sintesi del lavoro ormai quarantennale della storiografia internazionale su questi temi. Ci troviamo quindi effettivamente di fronte a un ritardo: a differenza di altri contesti (penso ad esempio a quello anglosassone), in Italia gli studi LGBT+ hanno iniziato solo da poco un percorso di riconoscimento all’interno dell’accademia. Spero, in questo senso, che l’iniziativa di Einaudi possa servire da esempio e da incoraggiamento anche ad altri editori e aiuti a promuovere nuovi studi e nuove pubblicazioni in questo campo.
Sempre restando in Italia, c’è un capitolo davvero molto interessante sull’omosessualità e il fascismo. Il regime preferisce tacere l’esistenza dell’omosessualità, perché non venga macchiata in alcun modo l’idea della virilità italica. Ecco, questa pratica del silenziamento, l’atteggiamento all’invisibilizzazione, pensa che sia ancora presente nella coscienza del nostro Paese? O sono altri oggi le pratiche e gli atteggiamenti contro cui doversi scontrare?
Come racconto nel libro, l’invisibilizzazione, che fu in effetti una strategia centrale nel corso del ventennio fascista, era in realtà un’eredità della politica liberale dei decenni precedenti (a differenza di quanto nello stesso periodo era avvenuto in altri contesti nazionali, come Inghilterra e Germania, che avevano optato per la criminalizzazione). Inoltre, la stessa strategia continua a essere utilizzata diffusamente anche nei primi decenni del dopoguerra, senza una netta soluzione di continuità col fascismo: restano in piedi alcune misure repressive, come le retate, il coprifuoco e il foglio di via per le persone transgender, ma soprattutto prosegue l’opera di censura e, sebbene compaiano sporadicamente campagne di tono “scandalistico” su giornali e rotocalchi con l’intento di agitare lo spettro della “perversione”, la pratica del silenziamento si conferma come la “cifra nazionale” nella gestione della popolazione LGBT+.
Oggi la situazione è cambiata e, soprattutto dagli anni Duemila, i temi LGBT+ si sono spostati sempre più al centro del dibattito pubblico. Da una parte questo cambiamento è senz’altro positivo perché apre spazi per la presa di parola, la rivendicazione dei diritti e, attraverso una politica di visibilità, rende ineludibile la presenza della comunità LGBT+ nello spazio pubblico. D’altra parte, il dibattito sui media, sulla stampa generalista e sui social ha assunto toni molto violenti che espongono quotidianamente le persone LGBT+ a discorsi d’odio e ad attacchi che, anche in mancanza di tutele giuridiche mirate, comporta un oneroso costo psicologico (nel migliore dei casi).
«La diversità è ricchezza» si legge sul pancione di un uomo trans incinto, nella bellissima copertina che Fumettibrutti realizzò qualche settimana fa per L’Espresso. Cosa ci ostacola dall’accogliere la diversità? Dall’accettare che una persona si riconosca con un pronome diverso da quello a cui sarebbe legata dalla nascita? Che una persona possa definirsi non binaria? Quali sono le prossime sfide culturali che il nostro Paese dovrà affrontare per potersi finalmente dire un Paese civile?
Una delle ragioni per cui mi sono appassionata alla storia LGBT+ è proprio questa capacità della storia di «denaturalizzare il normale», per dirlo con le parole di Sara Garbagnoli, una studiosa che stimo molto. La prospettiva storica consente infatti di mettere in luce il carattere socialmente e culturalmente costruito di quel che solitamente viene indicato come “normalità” o “natura”.
La storia ci aiuta quindi a vedere come categorie che abbiamo “naturalizzato” nella nostra mente, immaginandole universali e immutabili nel tempo, siano in realtà il prodotto di operazioni culturali e politiche, in alcuni casi anche sorprendentemente recenti. È questo, ad esempio, il caso del concetto di “nazione”, e di quello, a essa legato, di “tradizione”. Ma anche concetti come quello di “famiglia” o “maternità” sono stati oggetto di profonde trasformazioni nel tempo, sia in relazione agli assetti sociali che definiscono che ai significati culturali che rivestono.
Anche i concetti di “genere” e “sessualità” non fanno eccezione. In particolare, come mostro nel libro, il binarismo di genere, ossia la riduzione dei generi a due, maschile e femminile, e la loro concezione come radicalmente e qualitativamente diversi e incommensurabili, è un sistema tipico del contesto occidentale e fortemente legato ad assunti politici e culturali propri dell’età contemporanea.
A mio avviso, quindi, una chiave importante per il superamento della diffidenza e dell’ostilità nei confronti delle “diversità” sta prima di tutto nella decostruzione – anche storica – del concetto stesso di “normalità” e, di conseguenza, anche di quello di “diversità”, a favore di una visione più ricca, articolata e complessa della realtà del nostro passato e del nostro presente.
Le ultime pagine sono dedicate al queer come aspirazione. Come condizione da raggiungere, come obiettivo a cui aspirare. Una felice utopia o un programma necessario per il futuro?
Nella parte finale del testo parlo di “queer futurity” prendendo a prestito la formula usata dal teorico queer José Estaban Muñoz e le elaborazioni di teoriche femministe come Donna Haraway e Helen Hester. Sebbene non proponga facili ricette per la salvezza del pianeta, la prospettiva queer ci offre un modello di configurazione di alleanze tra soggetti marginalizzati, una prospettiva decentrata che, mettendo globalmente in questione le dinamiche di potere, faccia spazio a una comunità di resistenza trasversale rispetto ai concetti di genere, sesso, “razza” e anche di specie.
Maya De Leo, Queer. Storia culturale della comunità LGBT+, Einaudi Storia, 2021, pp. 260