I dati dell’Ispra mostrano una progressiva espansione delle infrastrutture e delle aree urbanizzate. In contraddizione con una situazione di crisi economica divenuta, dal 2008 in poi, strutturale, il consumo di suolo, seppur lentamente, continua a crescere. La forte diminuzione dei “Permessi di costruire” relativa al secondo trimestre del 2020 risente invece della crisi legata all’attuale emergenza sanitaria. Questa sì solo congiunturale, peraltro auspicabilmente. Le conseguenze nefaste del processo in termini di impermeabilizzazione del suolo sono state definite, dalla Commissione europea, “costi nascosti”. Si tratta, cioè, di un costo che non viene incluso in quello di costruzione in senso stretto, ma pesa pur sempre sulle spalle della collettività. In tal senso, il testo del disegno di legge approvato alla Camera nel 2016 (Atto n. 2039) impone, nella prospettiva del raggiungimento del consumo di suolo zero per il 2050 (obiettivo stabilito a livello europeo), l’adeguamento della pianificazione territoriale, urbanistica e paesaggistica vigente alla regolamentazione proposta. Al contempo, per fare fronte alle esigenze abitative del caso, esprime una chiara preferenza per la riqualificazione del patrimonio esistente.
Quando si parla di consumo di suolo (talvolta vero e proprio abuso), ci si riferisce in Italia, anche nel progetto di legge sopra citato, al seguente fenomeno: la progressiva, per certi versi incontrollata, espansione del tessuto urbano su terreni la cui possibile destinazione d’uso, tramite gli strumenti urbanistici, varia da non edificabile (agricola) ad edificabile (con indici di diversa intensità). L’intervento legislativo per lo stop al consumo di suolo, quindi, è allo stato finalizzato a trovare una soluzione al problema nei termini sopraindicati. In particolare, pur nelle variegate declinazioni delle possibili soluzioni, il fil rouge consiste ‒ consisterebbe ‒ nel vietare per legge la trasformazione dei terreni attualmente ad uso agricolo.
Tuttavia, questa nozione di consumo di suolo, se paragonata a quella ampia utilizzata dalla stessa Unione Europea, appare invero fortemente limitativa, non considerando tutte le possibili variabili del fenomeno. Nello specifico, sembra esserci un convitato di pietra: nelle nostre città è in atto un processo “silente” eppure di generale ed immediata percezione: dove un tempo c’erano ville con ampie aree verdi sorgono, in tempi spesso rapidissimi, tradizionali residenze condominiali. La conseguenza diretta è rappresentata da una altrettanto rapida e significativa riduzione degli spazi verdi.
Non abbiamo statistiche che rilevino ‒ e rivelino ‒ l’entità di questo fenomeno; e già questa (colpevole) mancanza di consapevolezza è un primo problema. Significativo, in ogni caso, è il dato relativo all’ampliamento dei volumi edificati registrato, per l’anno 2016, dall’Istituto nazionale di statistica: un ampliamento di volumi pari a oltre 4,5 milioni di metri cubi, ben 1/5 rispetto ai fabbricati residenziali nuovi per lo stesso anno.
Questa tendenza interessa l’intero territorio nazionale (con picchi nel Nord-Est) e, dal punto di vista diacronico, ricorda alcune vicende della storia, remota e recente, d’Italia: il cosiddetto “Sacco di Palermo” degli anni Cinquanta e Sessanta, ma, ancor prima, le vicende più controverse della Roma risorgimentale. Nel primo caso vennero approvate numerose varianti ai piani urbanistici, si dice “in una notte”, al fine di evitare, con una rapida demolizione, che le Ville di maggior pregio potessero essere tutelate dall’intervento statale. Quanto a Roma, al momento della sua annessione al Regno d’Italia, la Città Eterna era ben lungi dall’essere la più grande città europea per estensione territoriale. In principio, infatti, il nucleo centrale della Roma papalina era formato da ville, orti, vigne. Non appena Roma fu istituita capitale d’Italia, i proprietari delle ville iniziarono un processo di lottizzazione, dando vita alla prima grande espansione edilizia. Non si tratta certo della fase peggiore dello sviluppo urbanistico della Capitale; ma ogni perplessità è lecita, non potendosi seriamente dubitare che la originaria salvaguardia di un paesaggio urbano ad altissimo tasso di naturalità avrebbe potuto favorire uno più armonico sviluppo del tessuto urbano nel senso di una stretta interrelazione tra città e natura.
Tornando al tema da cui si è partiti: una specifica attenzione, anche normativa, alla tutela degli spazi urbani residenziali nel contesto di qualificate aree verdi potrebbe evitare che comportamenti indubbiamente leciti, ma non per questo necessariamente “giusti”, come nei due casi storici citati, producano effetti sostanzialmente distorsivi. Ed invero, la demolizione e ricostruzione di una villa non rientra nella nozione di consumo di suolo nel senso fatto proprio dal legislatore nazionale, poiché interessa comunque zone definite dalla legge urbanistica “di completamento” (e non zone agricole).
Ma non può certamente parlarsi di riqualificazione del tessuto esistente. Non si tratta, infatti, di rigenerazione del patrimonio edilizio degradato, eventualmente favorito dal riconoscimento di una cubatura premiale definita attraverso accordi amministrativi, ma di una mera ipotesi di “valorizzazione economica delle aree”, a scapito, non a servizio, di una effettiva riqualificazione territoriale.
Certo, resta la tutela dei grandi parchi o ville di interesse artistico, fortunatamente vincolati per legge; ma perché non rivolgere una attenzione anche ai giardini di medie dimensioni che pur rappresentano piccoli, ma significativi, polmoni verdi delle nostre cittadine? Siamo sicuri che la loro conservazione non risponda ad un interesse pubblico? Il riferimento è all’interesse di natura ambientale ad avere una città verde, nel tempo della economia verde.
Del resto, una colpevole mancanza di attenzione al profilo in esame rischierebbe di determinare l’effetto, certamente non voluto, per il quale la stessa approvazione di una legge sul consumo di suolo porterebbe ad una esplosione del fenomeno, quale risposta (speculativa) agli stretti vincoli posti con riguardo alla edificazione extraurbana. Nella direzione qui auspicata, il Parlamento potrebbe adottare una norma che faccia propria la nozione comunitaria di consumo di suolo, cristallizzando per legge l’edificabilità sulle aree di completamento già edificate alla situazione di fatto esistente al momento di entrata in vigore della medesima legge. Sembra questa la scelta più giusta per evitare, in futuro, di guardarsi indietro e pensare al tempo odierno come ad un amaro passato.
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