Si apre con una pagina del Fedro di Platone, la conversazione tra Carlo Sini e Gabriele Pasqui raccolta in Perché gli alberi non rispondono. Lo spazio urbano e i destini dell’abitare (Jaca Book, 2020). Rivolgendosi a Fedro, il saggio Socrate dice che la sua passione è imparare, «ma la campagna e gli alberi non mi insegnano e non mi rispondono, mentre imparo dagli uomini in città». E noi, quest’oggi, memori dell’insegnamento socratico, abbiamo voluto conversare con il filosofo Carlo Sini per tornare a riflettere sui destini dell’abitare e sulla rivoluzione degli spazi urbani dopo l’esperienza del Covid-19.
Mentre leggevo Perché gli alberi non rispondono, più volte sono finito a chiedermi perché una materia come l’urbanistica, lo studio dello spazio, venga spesso trascurata tra le lenti d’indagine per leggere la nostra realtà
Credo che lei abbia ragione: raramente l’urbanistica esce dall’ambito degli studi e dei lavori specialistici. Forse qualche invito alla eccezione lo troviamo proprio tra i filosofi, per i quali il tema dell’abitare è fondamentale; penso in particolare a Heidegger, ma non solo. Infatti è almeno dal Rinascimento italiano che il modo nel quale gli esseri umani hanno colonizzato la terra è oggetto di riflessione. Posti tra gli angeli e i bruti, direbbe Pico, la nostra caratteristica è di riuscire a trovar casa ovunque, anche nei luoghi e nei climi estremi del pianeta. Questo lungo processo di umanizzazione della natura selvaggia, culminante nella imposizione universale del principio antropico, motiva oggi, come sappiamo, molti problemi e profonde considerazioni che coinvolgono il nostro antico e tradizionale creare muri e ripari e vie di comunicazione. Questa umanissima architettura dell’esperienza è diventata oggi un luogo di interrogativi e di problemi, sicché proprio l’urbanistica è in particolare invitata a uscire da quel tratto di ottusità specialistica che affligge oggi in varia misura l’insieme dei nostri saperi.
La sua conversazione con Gabriele Pasqui, pubblicata all’inizio del 2020, si concentra sui destini dell’abitare. Nessuno avrebbe potuto immaginare quello che sarebbe successo solo pochi mesi dopo. Il Coronavirus, la pandemia, i due lockdown, come hanno influenzato, modificato il nostro abitare gli spazi?
La pandemia ha influito profondamente sulle esperienze legate all’abitare, sia per lo spazio privato, sia per quello pubblico. La cosa, credo, ha rivestito persino qualche tratto positivo, se non proprio per tutti, almeno per molti. Per esempio, ci siamo riappropriati delle possibilità dimenticate o ignorate offerte dalle nostre abitazioni, possibilità per le quali non si aveva solitamente né tempo né attenzione. Il medesimo è accaduto per gli spazi della nostra città che abbiamo ripercorso dopo periodi di forzata assenza e che abbiamo riscoperto o scoperto nella loro “bellezza” estetica o anche solo psicologica. Ma naturalmente i problemi nati dalla pandemia hanno prodotto conseguenze di gravità inaudita, che tutti stiamo sperimentando dolorosamente. Colpita al cuore è la natura stessa della nostra vita di umani, perché gli umani sono tali solo nella condivisione sociale e comunitaria del loro essere e di ogni loro azione. La rarefazione o addirittura la proibizione dei rapporti personali e collettivi ha totalmente snaturato sia lo spazio pubblico delle città, sia quello privato delle case, cioè la loro vitale e feconda interdipendenza. Non dimenticheremo facilmente lo spettacolo spettrale delle vie cittadine e delle piazze deserte, per non dire delle nostre porte di casa sbarrate agli estranei, dietro la quali stare, all’occasione, in agguato circospetto con mascherine e disinfettanti ad hoc, cioè ad hominem.
A proposito di spazio urbano e di case, vorrei chiedere in che modo lo spazio urbano condiziona le persone che lo abitano. Mi spiego meglio: in che modo lo spazio in cui abitiamo ‒ una grande casa, così come una grande città ‒ ha effetti sulle nostre persone, sul nostro modo di essere e di abitare il mondo?
Ricordo una esperienza che credo sia molto comune: quella di un sogno nel quale mi rivedo bambino in una casa dove abitai con la mia famiglia moltissimi anni fa: la casa nel sogno è grandissima e, in certi anfratti, un po’ misteriosa e persino paurosa. Poi capita che in quella casa del sogno per caso mi ritrovi come ospite oggi e mi rendo conto che non è affatto vasta e misteriosa. Si trattava della esperienza del bambino rispetto all’abitazione e viceversa. Lo spazio in cui viviamo e la natura del nostro abitare sono componenti determinanti del nostro essere. In questo senso la rivoluzione urbana, già nel mondo antico, ma ovviamente ancor più nel mondo moderno e contemporaneo, ha di fatto prodotto inedite modalità dell’essere umani, a cominciare dai modi di relazione con il nostro stesso corpo naturale. Oggi sappiamo dalla epigenetica, in base a dati oggettivi e incontestabili, che il corpo umano è il risultato di processi di interazione biologica e sociale. Nelle concrete esperienze di vita storiche il biologico si fa sociale e il sociale si fa biologico. Ne deriva che il nostro modo di essere animali è da sempre interamente modificato dal nostro essere soggetti culturali, in particolare da quando la nostra comunità iniziò a diventare una comunità linguistica, ovvero simbolica. Di qui la grande, profonda responsabilità di ogni progetto abitativo, la sua natura etico-politica profonda, poiché modificare le qualità di esistenza quotidiana e la qualità generale dell’ambiente artificiale e naturale circostante reca sicuramente con sé conseguenze decisive per la storia e l’identità degli esseri umani che vi si trovino coinvolti. Di questa nascita sociale e di questo destino biologico le nostre realizzazioni abitative sono direttamente responsabili, il che sembra ancora lontano dall’essere adeguatamente compreso dai progetti della politica e dell’economia dei nostri giorni. Forse la pandemia offrirà occasione di inedite meditazioni in proposito.
In Perché gli alberi non rispondono, riprendendo un precedente saggio di Pasqui sul rapporto tra case e scuole, lei si pone una domanda importante: perché scuola e lavoro, casa e scuola conviene pensarle insieme? Oggi che abbiamo assistito, per questioni di necessità, a cosa significa pensarle insieme, ritiene che sia un bene o un male per il nostro modo di vivere in comunità?
La questione fondamentale che sottende, a mio avviso, la sua domanda penso che si potrebbe esprimere così: che gli esseri umani non sono tali per essenza o a priori, non nascono “umani” e chi sostiene il contrario, per le sue ideologiche convinzioni, mente e si, o ci, inganna. Essere umani significa sempre diventare umani, cioè accedere a quel connubio di natura e cultura, connubio inscindibile, che costituisce l’appartenere all’umanità. L’umano è in cammino e non ha luoghi definitivi o assoluti per definirsi. Questo significa che abitare insieme, come la natura sociale dell’animale umano da sempre esige, comporta un infinito processo di formazione e di educazione. Esso comincia con il rapporto originario dell’infante con gli adulti che gli sono vicini e che lo curano (ricordo che nessun infante lasciato solo diventerebbe un essere umano o imparerebbe a parlare) e prosegue entro gli istituti educativi che ogni società umana, da quando ne abbiamo notizia, ha strutturato e previsto. Questo fatto fondamentale, nella moltiplicazione moderna dei suoi tratti e dei suoi aspetti, nella uscita dalla religione come unico fattore educativo, imposto dalla evoluzione della storia, nel diffondersi di iniziative private mosse da finalità esclusivamente economiche, nella influenza nefasta di questa mentalità mercantile sulle scuole pubbliche, ossessionate dal problema “lavoro” e di essere gradite e “attuali” per i propri giovani alunni, è il punto di partenza da cui è derivata una situazione problematica sotto gli occhi di tutti: che le nostre società democratiche esigono cittadini in grado di fare scelte autonome e responsabili, cioè di cittadini “educati” e “formati” alla vita societaria e comunitaria, non di masse il cui consenso sia facilmente catturabile dalle tecniche per la diffusione del consumo delle merci, dalle false notizie e da linguaggi aggressivi e accattivanti per gli ignoranti e i facinorosi. Quindi, niente autentica democrazia senza un profondo investimento nella formazione, nella cultura e nella scuola, la casa del cittadino in formazione.
Un’ultima domanda, vorrei ancora soffermarmi sul concetto di comunità. Parlando delle grandi città dice che «sono, o sono divenute, per loro natura, impolitiche o extrapolitiche». Assumono la logica degli aeroporti, sono «un luogo di transito del consumo universale». Secondo lei, com’è possibile contravvenire a questa logica, rivoluzionarla? Oggi, com’è possibile rendere di nuovo le città “abitabili”?
Le città del futuro dovrebbero allontanarsi dall’antico modello della città chiusa nelle sue mura, col portone sbarrato per gli stranieri. In una umanità globale in cammino le differenze possono essere molto più virtuose che non viziose. Si tratterà di ritrovare, alla base delle differenze, un’unità ideale ancora più antica e più profonda, risalente alle epoche nelle quali l’umanità era primordialmente in cammino, e fare di questa origine comune un progetto vivente di umanità; quindi il punto di partenza per la progettazione di città che accolgono il contributo reale e la collaborazione di tutti. Una urbanistica non calata dall’alto, ma costruita pazientemente insieme a coloro che, con le loro differenti culture ed esigenze, ne sono o ne saranno i reali abitatori e responsabili.