Giorni intensi quelli del maggio 1978; giorni che avrebbero segnato il futuro della nostra società civile. Lo sconcerto e il dolore subito conseguenti al rinvenimento del corpo senza vita di Aldo Moro, l’onda lunga della scoperta delle circostanze della morte del giornalista Giuseppe Impastato: la percezione di terrorismo, mafia e lotta politica sarebbe mutata indelebilmente. Ma un altro avvenimento di pochi giorni successivo, relativamente improvviso e in qualche modo traumatico, avrebbe cambiato in meglio il nostro Paese: l’approvazione della legge 180, con l’abolizione dei manicomi e la riorganizzazione dell’assistenza psichiatrica.
Il 13 maggio di quarant’anni fa segnò la vittoria della battaglia culturale, scientifica e politica avviata dalla figura carismatica di Franco Basaglia che – come ben dimostrato dal recente saggio di John Foot, tradotto in italiano come La Repubblica dei matti – non fu solo a battersi, ma venne sostenuto in primis dalla moglie Franca Ongaro, dai suoi staff nei manicomi di Gorizia e Trieste e dai colleghi di Psichiatria democratica. Al netto delle inevitabili critiche per una legge quadro, poco accurata e varata tanto in fretta da non permettere di prepararsi propriamente alle sue conseguenze – parte dei familiari dei 100.000 internati protestò per il mancato supporto – la legge 180 ha fatto dell’Italia il Paese ancor oggi all’avanguardia per l’assistenza psichiatrica, incassando a più riprese gli elogi dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS).
Pazienti inseriti in reparti di massimo 30 persone all’interno di ospedali pubblici, e non più ammassati in strutture isolate; abbandono dell’elettroshock e della contenzione fisica; terapia basata sulla relazione e non solo sulla farmacologia e, soprattutto, l’inserimento in progetti all’interno del tessuto della società civile. Arte, recitazione e sport: negli ultimi anni e sull’esempio del Giappone, nel quale esiste da anni un campionato di calcio composto da squadre di pazienti e sovvenzionato dalle squadre professionistiche, si sta affermando nel nostro Paese il progetto Crazy for Football, titolo del fortunato documentario vincitore del David che ha seguito le gesta degli azzurri nel primo mondiale di calcio a 5 di categoria.
In omaggio al quarantennale della legge Santo Rullo, ispiratore del progetto e psichiatra autenticamente basagliano, ha deciso di organizzare a Roma la seconda edizione del mondiale, il cui fischio d’inizio è stato il 13 maggio con il match Italia-Cile «nel palazzetto più bello di Roma, il PalaTiziano progettato da Nervi per Olimpiadi del 1960. La dignità passa anche attraverso la bellezza».
Una reale inclusione avviene coinvolgendo la società civile, e non c’è mezzo migliore dello sport più popolare; il mondiale è patrocinato tra gli altri anche da CONI e FIGC, e Rullo ne approfitta per alcune notazioni controintuitive: «secondo una ricerca condotta nel 2015 dal sindacato mondiale calciatori su un campione di 350 calciatori professionisti, un terzo di loro ha sofferto o soffre del principale disturbo clinico contemporaneo, quello che a giudizio l’OMS nel 2020 diverrà la causa principale di disabilità al mondo: la depressione. Chi ne è venuto fuori – come Buffon – ne parla, ma anche un disturbo dell’umore viene vissuto come uno stigma. Una maggiore informazione porterebbe a una concezione inclusiva di questi disturbi, e alla conclusione che siamo tutti più o meno vulnerabili». L’invito – con un pizzico di ironia – è quello di venire a tifare al PalaTiziano fino a mercoledì 16 maggio, giorno della finale: «in fondo saremo gli unici azzurri impegnati in un mondiale quest’anno, e comunque in campo non ci sarà nessuno più matto di Ventura che ha affrontato la Spagna con due centrocampisti».