Sino a 1.000 spettatori per le sfide di semifinali e finale degli Internazionali di tennis di Roma, altrettanti per le partite della prima giornata del campionato di Serie A di calcio, poco meno di 3.000 per il gran premio di Formula 1 del Mugello a inizio settembre, circa 10.000 domenica scorsa a Misano per il Motomondiale. E poi, al chiuso, qualche centinaia di presenze per le partite della Coppa Italia del volley e 2.173 spettatori per la Supercoppa italiana di pallacanestro: lo sport italiano, dopo essere ripartito in piena estate dopo la fase emergenziale della pandemia da Covid-19, prim’ancora dell’arrivo dell’autunno ha riaperto anche agli spettatori sugli spalti, nonostante una curva di contagio tornata a crescere e comunque ben prima di quanto l’aspetto epidemiologico avrebbe lasciato ipotizzare.
Lo ha fatto, peraltro, in maniera non esattamente lineare, seguendo decisioni in certi casi poco coerenti e dovendo in altri rincorrere le fughe in avanti di alcune Regioni in prima linea in tema di ripartenza: intanto, però, il mese di settembre verrà ricordato anche per una prima e parziale riapertura degli impianti sportivi, in attesa di capire con il tempo gli effetti della scelta e, col senno del poi, se sarà stato l’inizio di un reale ritorno alla normalità piuttosto che un pericoloso strappo effimero. Di certo i gestori degli impianti sportivi hanno atteso molto, faticando peraltro a capire perché, in piena estate, la fruizione degli eventi sportivi all’aperto fosse interdetta quando invece discoteche e locali da ballo, dove gli assembramenti erano una realtà di fatto, avevano ottenuto il placet per la riapertura. Allo stesso modo non è stato facile capire dove fosse il discrimine effettivo fra le prime riaperture – quelle dei palasport, al chiuso insomma, con capienza fissata al 25% – e le perduranti chiusure degli stadi: fermo restando il parere negativo ma non vincolante del CTS, che ha sempre mantenuto una linea piuttosto chiara e tesa al principio di massima precauzione a prescindere dagli interessi delle parti in causa, e al netto delle motivazioni riguardanti la criticità degli spostamenti del pubblico da e per gli impianti, la sensazione era che non esistesse una logica precisa e non contraddittoria.
In questo senso la sperimentazione del ritorno degli spettatori in numero limitato al torneo WTA di Palermo, a inizio agosto, ha rappresentato la breccia decisiva: vero è che la Sicilia, sotto l’aspetto del contagio, ha sofferto meno rispetto ad altre regioni, ma l’adozione delle misure fondamentali (uso della mascherina durante il torneo, distanziamento, igienizzazione delle mani e sanificazione delle sedute) ha significato l’attuazione di una possibilità e ha cambiato in qualche modo il paradigma. A quel punto Toscana ed Emilia-Romagna hanno sfruttato la presenza in calendario di alcuni importanti eventi motoristici (la Formula 1 al Mugello e il Motomondiale, su doppio appuntamento, a Misano) per forzare la mano, attraverso deroghe specifiche che avevano un senso in considerazione della particolare logistica e capienza dei circuiti, mentre a Monza il gran premio d’Italia di Formula 1, per ragioni uguali e contrarie, veniva svolto sostanzialmente senza pubblico.
Aperture a macchia di leopardo, mentre il calcio – fatta salva la prova di 1.000 spettatori al Tardini di Parma per un’amichevole precampionato – sembrava ancora dover aspettare il proprio turno. O, almeno, era così sino alla vigilia dell’avvio del nuovo campionato di Serie A quando, con una precisa ordinanza, il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini aveva autorizzato l’apertura degli stadi di Parma e Reggio Emilia – dove si sarebbero disputate Parma-Napoli e Sassuolo-Cagliari – appunto per 1.000 spettatori, ai quali andavano aggiunti circa 300 addetti ai lavori. Un contropiede che aveva spiazzato il governo e si era risolto solo dopo un incontro fra il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia e le Regioni appunto, a seguito della decisione emiliano-romagnola e dell’attivazione dei protocolli di sicurezza già studiati in occasione dell’amichevole fra Parma ed Empoli. La giornata numero uno della Serie A si è disputata così a porte parzialmente aperte il che, se si considerano i fermi no di pochi giorni prima, mostra plasticamente sia la quantità di interessi in gioco nella fretta di riaprire, sia la totale assenza di una prospettiva o di un programma preciso delineato a livello generale, per quanto il ministro Spadafora abbia sostenuto che la decisione era già in programma per equiparare la situazione delle manifestazioni sportive a quella degli eventi culturali.
Con la UEFA pronta a testare un rilevante progetto pilota sulla riapertura a Budapest in occasione della sfida di Supercoppa (accadrà giovedì 24 settembre: 20.000 gli spettatori previsti alla Puskás Aréna per Bayern Monaco-Siviglia), i club calcistici italiani sono pronti a presentare i propri piani per aumentare i numeri di ingressi a seconda della capienza degli impianti, spalleggiati in questo senso dal pressing delle leghe. La Juventus per prima aveva già proposto un piano alla Regione Piemonte, accettato da quest’ultima ma bocciato dal governo dopo il parere del CTS, tuttavia il progetto ora trova nuova linfa dopo l’improvvisa accelerazione di un processo che pareva bloccato. Anche per questo, in una situazione fluida come quella attuale, è difficile prevedere i prossimi passi, tuttavia non si può escludere una retromarcia se dovessero eventualmente verificarsi piccoli focolai collegabili direttamente alle manifestazioni sportive, dove i principali rischi si annidano nei contesti e nelle condizioni di entrata e uscita dagli impianti (e nel modo di raggiungerli), più che al loro interno. Da diversi ambienti sanitari filtrano malumori per questo cambio di passo, in considerazione dell’arrivo dell’autunno con il corollario di malanni stagionali ed influenze dai sintomi spesso non troppo dissimili a quelli del Covid-19, aspetto che rischia di rendere di nuovo problematiche le regole di ingaggio delle figure chiamate per prime ad approcciarsi ai pazienti potenzialmente infetti (medici di medicina generale e strutture di emergenza-urgenza, come i pronto soccorso), riverberandosi di conseguenza sulle strutture di sanità pubblica. Sebbene la capacità di contrasto delle aziende sanitarie sia ora più organizzata e attrezzata, il pericolo di aumentare lo stress sul sistema nel suo complesso è concreto in una fase nella quale i contagi – lo certificano i numeri, in Italia e in Europa – hanno ripreso ad aumentare.
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