Giusy Versace, già protagonista alle Paralimpiadi di Rio 2016, Felice Mariani, bronzo olimpico a Montreal 1976 nel judo, Andrea Mura, due volte velista dell’anno. Poi il presidente del Potenza Salvatore Caiata e Adriano Galliani: ci sono anche loro fra gli eletti che nei giorni scorsi si sono presentati presso la Sala del Mappamondo di Montecitorio e la Sala Caduti di Nassirya di Palazzo Madama per i primi adempimenti spettanti ai nuovi deputati e senatori e che sono pronti a sedere sugli scranni della Camera e del Senato. E ancora il riconfermato Cosimo Sibilia, presidente della Lega nazionale dilettanti del calcio, e altri dirigenti sportivi meno noti al grande pubblico. È il caso di Paolo Barelli, ormai dal 2000 presidente della Federazione italiana nuoto, già senatore per tre legislature fra il 2006 e il 2013 e pronto ad iniziare la sua quarta, di Giancarlo Giorgetti che è in Parlamento dal 1996 e, fra l’altro, è stato anche presidente del collegio dei revisori dei conti della Federvolley, di Claudio Barbaro, presidente Asi - Associazioni Sportive e Sociali Italiane ininterrottamente dal 1994 e già deputato dal 2008 al 2013, di Enrico Costa, due volte ministro nel corso dell’ultima legislatura, e nel frattempo presidente di una disciplina associata al CONI, quella della pallapugno.

Partiti diversi, esperienze diverse, un aspetto in comune: provengono dal mondo dello sport, come molti loro predecessori già dai tempi della Prima Repubblica. Atleti noti e personaggi che, magari, hanno anche un passato agonistico, ma di fatto hanno costruito la loro carriera dietro la scrivania, in ruoli a tutti gli effetti già politici: quello dello sport e di tutto ciò che vi ruota attorno è del resto un ambito significativo della società, sia per gli aspetti di cittadinanza sia per quelli di tipo economico e fiscale, ed è del tutto normale e, per certi versi, necessario, che alcune figure di quel mondo trovino rappresentanza anche nelle liste elettorali e, in caso di esito positivo alle urne,  nelle aule parlamentari. Non sfugge però nemmeno che la notorietà di taluni candidati dal background o dalla fulgida gloria sportiva funga anche da grimaldello in chiave propagandistica, perché a volte avere un nome che veicoli una caratteristica vincente in un ambito trasversale serve indiscutibilmente per partire con un minimo vantaggio. Utilizzando lo slogan di uno spot televisivo d’antan: non basta, ma aiuta.

Un discorso che valeva di più soprattutto anni fa, con sistemi elettorali che prevedevano le preferenze – non i listini bloccati delle ultime leggi elettorali (i cosiddetti “Porcellum” e “Rosatellum”) – quando in Parlamento ci si finiva con il proprio nome dal momento che le scelte andavano direttamente al candidato. Nel 1972, ad esempio, furono ben 63.346 le preferenze ottenute dal candidato della Democrazia cristiana Concetto Lo Bello, il più noto arbitro di calcio italiano prima di Pierluigi Collina, nella circoscrizione Catania-Messina-Siracusa-Ragusa-Enna, mentre nel 1987 furono 37.013 quelle ricevute da Gianni Rivera, l’ex Golden Boy del Milan e anch’egli democristiano, nella circoscrizione Milano-Pavia. Arrivò invece a 36.140 preferenze nella circoscrizione Torino-Novara-Vercelli nelle elezioni del 1992 Gian Mauro Borsano, socialista, presidente del Torino che proprio nel giorno del voto – coincidenza singolare, o forse qualcosa di più – aveva battuto per 2-0 la Juventus nel derby della Mole, arrivando a superare nel numero di preferenze anche uno storico maggiorente del PSI torinese, Giuseppe La Ganga.

Eletti a furor di popolo, loro. Poi, certo, non tutti ottengono il seggio: non è accaduto nelle elezioni dello scorso 4 marzo – con collegi e liste bloccati – all’ex nuotatore ed oro olimpico Fioravanti, così come non è approdato al Senato il presidente della Lazio Claudio Lotito e, in passato, non avevano fatto breccia sull’elettorato delle preferenze gli ex calciatori José Altafini  Giuseppe Dossena o l’ex marciatore Abdon Pamich, giusto per fare alcuni nomi. Al contrario, nell’ultimo decennio, sono entrate in Parlamento fra gli altri Manuela Di Centa e Valentina Vezzali e c’è anche chi è diventato ministro dello sport, come Josefa Idem. Senza contare chi ha attraversato politica e sport in una lunghissima carriera di incarichi in entrambi gli ambiti, come Franco Carraro, la cui figura però meriterebbe una voce a parte per la sua importanza e complessità.

Sebbene la parola “sport” non compaia nella Costituzione, dopo tutto i parlamentari si trovano a dover votare diverse decine di volte nel corso di una legislatura provvedimenti che hanno a che fare – sotto diversi rispetti – con il loro ambito di competenza e su aspetti tutt’altro che secondari. Nell’ultima legislatura (2013-2018) si è dato il caso della legge 12/2016 rubricata come “Disposizioni per favorire l’integrazione sociale dei minori stranieri residenti in Italia mediante l’ammissione nelle società sportive appartenenti alle federazioni  nazionali, alle discipline associate o agli enti di promozione sportiva” e nota come “ius soli sportivo”, che di fatto equipara i minori italiani e quelli stranieri, purché in possesso del requisito della residenza, per agevolarne le procedure di tesseramento nelle società sportive favorendo così un’integrazione sociale capace di passare attraverso la pratica sportiva. Una legge che si cela dietro lo sport ma ha un impatto sociale che va ben oltre, mentre è entrata in vigore con l’inizio del 2018 la legge 205 (Legge di bilancio 2018) del 27 settembre 2017, che nell’articolo 1 comma 353 e 354 introduce nello sport dilettantistico un nuovo profilo giuridico, quello delle società sportive dilettantistiche lucrative.

Il tutto mentre, anche per questioni di legittime precedenze e più discutibili resistenze o disinteresse, la legislazione sportiva in Italia attende da decenni provvedimenti di riforma organici e strutturali. L’impianto normativo sul professionismo sportivo – che peraltro nega il professionismo per le donne – è di fatto fermo al 1981, con la legge 91 che venne emanata in un contesto sportivo lontanissimo da quello attuale, mentre appartengono a XIII e XIV legislatura la Legge Melandri (recentemente modificata) e l’ammissione del fine di lucro per le società di calcio (decreto-legge 435 del 1996, convertito nella legge 586 del 19 novembre 1996), che però negli anni ha esposto diversi club calcistici a rischio fallimento per la presenza di proprietari interessati a fini differenti rispetto a quelli sportivi. Perché le dinamiche economiche e finanziarie dello sport si muovono a velocità decisamente superiori a quelle della politica e, quando si resta in ritardo, non è sufficiente la presenza di qualche parlamentare ex atleta o dirigente, e forse nemmeno di un ministro, a consentire di recuperare terreno.

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