«Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio»: vera o apocrifa, la stracitata frase attribuita a Winston Churchill domenica notte a Londra si è capovolta, dal momento che ad avere perso una partita di calcio come fosse una guerra (letteralmente: 45 i tifosi arrestati per gli incidenti provocati a fine gara ancora all’interno dello stadio) è stata l’Inghilterra, sconfitta ai calci di rigore dall’Italia nella finale di Euro 2020. La Nazionale azzurra ‒ rimasta clamorosamente fuori dal Mondiale 2018 ‒ ha compiuto un’impresa imprevista e imprevedibile, vincendo la coppa confederale intitolata a Henry Delaunay 53 anni dopo l’ultimo e unico trionfo, e lo ha fatto a Wembley, in casa di quegli inglesi che nella Nazionale di Gareth Southgate ‒ alla prima finale in un grande torneo internazionale dal 1966, quando l’Inghilterra alzò al cielo la Coppa Rimet ‒ avevano riposto speranze e persino una discreta dose di spirito nazionalistico, da sfruttare anche quale propaganda gratuita e popolare per una Brexit tutt’altro che fluida.

Nulla di nuovo: nelle competizioni sportive riservate alle Nazionali è normale assistere ad una generale impennata di patriottismo interessato, spesso d’accatto, ma in questo caso in Inghilterra, anche in virtù del suo ruolo di sede di semifinali e finali, la situazione è andata oltre, certamente a causa dell’ottimo rendimento della selezione, ma anche della particolare situazione politica che la nazione vive dal referendum sulla Brexit del giugno 2016. Vedere il numero 10 di Downing Street adornato da decine di bandiere di San Giorgio è parso senz’altro irrituale e kitsch, del resto il premier britannico Boris Johnson ‒ che non fa della sobrietà una cifra stilistica personale ‒ ci ha tenuto ad indossare la maglia della Nazionale non solo allo stadio, ma anche facendosi fotografare così conciato fuori dalla residenza riservata ai primi ministri. Fiducioso in un successo storico, poi invero sfumato sul più bello, Johnson ha scelto lo spirito di fazione, ha cambiato la sua foto nel profilo Twitter alla vigilia della finale preferendone una in divisa calcistica a quella istituzionale (che ha ripreso il proprio posto dopo l’ultimo rigore) e, non potendo intestarsi una vittoria che non è arrivata, alla fine ha comunque voluto celebrare i calciatori della Nazionale, definiti «eroi» che hanno reso «orgogliosa l’intera nazione», con un uso dei termini non casuale. Il tutto mentre dalla Scozia ‒ dove il quotidiano indipendentista The National aveva dedicato una fortunata prima pagina al ct italiano, Roberto Mancini, raffigurato nei panni di William Wallace ‒ alle zone repubblicane dell’Irlanda del Nord, il Regno Unito non era affatto saldo nel sostegno calcistico alla nazione costitutiva principale.

Le alte cariche italiane hanno mostrato invece una certa misura. La composta presenza del presidente Mattarella a Wembley va inserita in un canone già inaugurato da Pertini nel 1982 ‒ il cui capo ufficio stampa e consigliere era Antonio Ghirelli, uno dei più importanti giornalisti sportivi italiani ‒ e seguito da tutti i capi di Stato in occasione delle finali di Mondiali ed Europei; per gli inglesi, assente la regina Elisabetta II che comunque aveva scritto una lettera ai giocatori, allo stadio erano presenti il principe William, la moglie duchessa di Cambridge Kate Middleton e il primogenito George. Al contrario l’attuale omologo di Johnson, Mario Draghi, non era andato a Londra e si era limitato a messaggi più istituzionali. «Al di là della presa posizione strana su possibilità di trasferire la finale a Roma ‒ spiega lo storico dello sport Nicola Sbetti ‒ Draghi saggiamente non ha cavalcato l’evento, mantenendo una visione da tecnico e non populista: si è occupato di un eventuale aspetto organizzativo e per lui politicamente rilevante, ma ha lasciato ad altri il ruolo di tifoso. Non aveva bisogno di sfruttare questa vetrina, conscio anche del rischio, data l’aleatorietà del calcio».

Sicuramente populista è stata la scelta del governo inglese di autorizzare l’aumento della capienza di Wembley per semifinali e finali (passata dal 25% della fase a gironi al 75% della final four, ovvero da circa 22.000 a quasi 66.000 spettatori), a dispetto dei numeri e dei timori riguardanti la crescita dei contagi da variante Delta, seguendo in questo senso i desiderata economici della UEFA nonché di fatto allineandosi alle scelte di governi come quello ungherese di Orbán. Un azzardo che solo il tempo, fra nemmeno molti giorni, dirà quanto sia stato pericoloso, ma che di certo, appunto per l’aleatorietà del campo, ha finito per regalare una incancellabile serata da incubo a migliaia di tifosi pronti a festeggiare una vittoria che sentivano nell’aria e che, invece, ha tenuto sveglie fino all’alba le città italiane, in un’estasi che a tratti ha riportato ai Mondiali del 2006 ‒ con in più, però, la forse maggiore voglia di celebrare dopo un anno e mezzo di pandemia non ancora conclusa ‒ molto più che al 1968, estate dell’unico Europeo vinto sino a domenica dall’Italia, in un mondo però completamente diverso e impossibile da paragonare a quello attuale.

Immagine: Campionato UEFA Euro 2020. La squadra italiana celebra la vittoria alla fine della partita tra Italia e Galles allo Stadio Olimpico di Roma (20 giugno 2021). Crediti: Marco Iacobucci Epp / Shutterstock.com

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