Difficile parlare di diritto di satira con chi non prevede neanche la possibilità di rappresentare la figura umana, non dico Maometto. Figuriamoci se disegnano il Profeta sulla copertina di un settimanale della gauche parigina più dissacrante, che prende il nome da Charlie Brown, mentre minaccia 'Cento frustate a chi non muore dal ridere' o si dispera cupamente per gli integralisti che compiono cose turpi in suo nome: 'È dura essere amati da degli stronzi'.

Anche il codice penale italiano, non solo gli integralisti, punisce il 'vilipendio della religione' e pure qui una censura, seppure meno violenta, sarebbe teoricamente possibile in base a un articolo di legge che una volta proteggeva solo la 'religione di Stato'. Cioè la religione cattolica. E dopo la riforma Calderoli - che ha tolto il carcere per i 'reati d'opinione' -, anche le altre fedi. L'ex ministro della Lega, sempre nel 2006, ha indossato, sotto alla camicia, una t-shirt con una vignetta di France Soir, sulla scia delle famigerate vignette danesi, e mostrandola in televisione ha scatenato tumulti in Libia. Più precisamente a Bengasi dove una decina di persone che protestavano sono state uccise dalla polizia di Gheddafi. Nella caricatura esibita da Calderoli, il Profeta compariva accanto ad altre divinità che lo invitano a non prendersela troppo per la satira. Prima o poi tocca a tutti. Ma chi tocca l'Islam muore. Non ci vuole molto: basterebbe mettere un piede alla Mecca o alla Medina senza essere musulmani, altro che scherzarci sopra, altro che satira.
Parlare di Islam significa tagliare con l'accetta la realtà. Si tratta di una religione professata da 1,6 miliardi di fedeli – la seconda in assoluto, dopo il cristianesimo, ma in ascesa costante, a differenza di quest'ultimo –, spalmata come l'hummus su una fetta di mondo che va dall'Atlantico alla Cina compresa. La fascia di territorio conquistata con un'incredibile campagna militare dai seguaci del Profeta subito dopo la sua morte nel VII secolo d.C., grazie all'energia del carburante teologico. Una cavalcata – sciabola in pugno - così incredibile e implacabile da causare conversioni di massa in popolazioni antiche come i persiani.
Tagliare con l'accetta la realtà, dicevo. La cultura araba è diversa da quella mediorientale e nordafricana – il Cairo e Beirut non sono la Mecca –, anche se i fondamentalisti si somigliano dappertutto. In Siria, all'inizio della rivolta poi sfociata in guerra, la satira si faceva, eccome. Nel 2011 il cantante Ibrahim Qashush si è esibito in una filastrocca di sberleffo al regime di Assad. La notte stessa lo hanno sgozzato e buttato in un fiume. 'Cosa rispondere a un uomo che preferisce obbedire a Dio che agli uomini e, di conseguenza, crede di meritare il cielo sgozzandovi?', ha detto Voltaire, citato da Laurent Binet ieri su Facebook.
Il vignettista siriano Ali Ferzat ha disegnato Assad con la valigia in mano che fa l'autostop a Gheddafi in fuga dalla Libia. Il 26 agosto 2011 lo hanno rapito, portato in un'area periferica e gli hanno spezzato le mani. Si è fatto l'autocaricatura nel letto d'ospedale mentre con la mano destra bendata alza il dito medio. Nel novembre di quell'anno Charlie Hebdo ha pubblicato la famosa copertina e la sede è stata bruciata da un attentato incendiario. In Siria hanno combattuto molti integralisti franco-alerigini per poi tornare a Parigi e dintorni. Tra tutte le vignette di solidarietà per le vittime a Charlie Hebdo la più emblematica rappresenta un jet che si dirige verso due matite torreggianti sullo skyline di Manhattan come grattacieli. La mattanza – macelleria islamica, per parafrasare Ferruccio Parri – rappresenta, per il rapporto tra fondamentalismo islamico e libertà di espressione, un vero e proprio 11 settembre.
Il rapporto tra islamismo e censura è sempre stato a dir poco fecondo, ma negli ultimi decenni le cose sono peggiorate perché da un lato le società islamiche si sono globalizzate e dall'altro hanno reagito alle minacce di contaminazione culturale con il riaccendersi del focolaio integralista. Si fa prima a dire che cosa non è stato censurato nei paesi islamici rispetto a quello che è stato censurato. Parlando del celebre regista egiziano Youssef Chahine si possono cogliere entrambi gli aspetti. Nell'Egitto del dopoguerra, e in generale nei regimi laici, militari e post-coloniali, ci sono stati spazi creativi anche ampi. I problemi sono venuti di conseguenza e di conseguenza sono peggiorati ultimamente con la crisi di quei regimi. Chahine, premio alla carriera a Cannes nel '97, ha sempre scatenato controversie per i temi trattati nei suoi film. Urticanti per l'Ummah, la comunità dei fedeli islamica. Non è piaciuta ad alcuni la figura di Averroè nella pellicola Il destino, perché il filosofo soffriva l'oppressione della censura religiosa. In Alessandria... perché?, film autobiografico, non sono piaciuti i riferimenti a rapporti omosessuali. Per esempio tra un soldato britannico e un egiziano. Lo stesso regista non ha mai nascosto la sua bisessualità. La sua lunga e luminosa carriera è costellata da controversie. Nel 1994 Chahine ha girato L'emigrante e il modo in cui ha raccontato la figura di Giuseppe, figlio di Giacobbe, ha destato proteste. Non dimentichiamo che Maometto è l'ultimo profeta, quello definitivo, e l'Islam non disconosce le religioni monoteiste che lo precedono – ebraismo e cristianesimo –, semplicemente se ne considera il completamento. L'ultima parola di Dio agli uomini. Cristo non era il figlio di Dio ma un profeta, come lo era Maometto: se fosse stato suo figlio, Dio non lo avrebbe mai lasciato mettere in croce. Anche un altro grande artista egiziano, il premio Nobel per la letteratura Nagib Mahfuz, ha avuto guai per il modo in cui ha tratto i profeti nel suo romanzo I figli di Gabalawi. Ricevendo così una condanna da parte dell'autorità religiosa sunnita in Egitto, l'istituto d'Al Azhar. A questa si è aggiunta la condanna politica per avere appoggiato il trattato di pace con Israele. Troppo! Un paio di coltellate non gliele leva nessuno: nel '94, l'anno in cui Chahine girava L'emigrante, Mahfuz, vecchio, cieco e diabetico, è stato colpito due volte al collo. Se l'è cavata per miracolo, se l'espressione non suona blasfema.
Qualche coltellata non è stata risparmiata a Ettore Capriolo, traduttore per Mondadori dei Versetti satanici di Salman Rushdie, nonché padre della scrittrice Paola Capriolo. Rushdie ha osato scrivere un romanzo sul cedimento che alcune fonti attribuiscono a Maometto durante una predicazione alla Mecca. O meglio una sorta di interferenza satanica nella trasmissione delle parole divine. L'Islam, almeno quello ortodosso, è strettamente monoteista. Molto più del cristianesimo dove ci sono la trinità, i santi e così via. Tirare fuori questo cedimento pagano e politeista in un bestseller internazionale è un affronto bell'e buono. Ma in cosa consiste questo cedimento e dunque l'affronto? Alle persone alle quali predicava, il Profeta avrebbe chiesto che cosa ne pensavano di Allat, Uzza e Manat, tre divinità pagane pre-islamiche, smorzando il suo monoteismo intransigente, e cercando un compromesso rispetto allo scandalo causato dalle sue idee. Il giorno dopo si sarebbe pentito e avrebbe detto che quelle parole gli erano state sussurrate all'orecchio sinistro, non al destro come al solito. Quindi non venivano dall'arcangelo Gabriele ma da Satana. L'episodio viene riportato da alcune fonti islamiche ma è stato epurato dall'Islam ortodosso. Rushdie è stato condannato dall'ayatollah Khomeini con una fatwa e un commerciante di Teheran ha messo simpaticamente una taglia sulla sua testa che per fortuna svetta ancora sul collo a distanza di quasi trent'anni e si è pure concessa il lusso di baciare la moglie-modella Padma Lakshmi, da cui poi si è separato. Ex valletta di Fabrizio Frizzi a Domenica in... Quanto alle coltellate: Capriolo se l'è cavata nell'attentato del '91 a Milano ma a Tokyo il traduttore giapponese dei Versetti satanici, Hitoshi Igarashi, ci ha invece lasciato la pelle pochi giorni dopo.
Un sintomo di come e quanto siano peggiorate le cose nei già difficili rapporti tra Islam e libertà di espressione è la 'serie di Challawi'. Nel Pakistan degli anni '60 – il periodo romantico dei Beatles in India e degli hippies a Kabul – ha venduto moltissime copie questo giallo il cui protagonista è una investigatrice lesbo che, oltre a risolvere casi complicati, bazzica gli scuolabus in cerca di ragazzine. Interrotta per problemi di salute dell'autore, la serie di Challawi era troppo spinta per la deriva autoritaria e conservatrice che ha investito il Pakistan. L'hanno riesumata nel 2011 al festival letterario di Jaipur, India, ma anche qui sono venuti fuori guai. Un estratto della traduzione inglese doveva essere letto in pubblico ma alla fine l'evento è saltato. Ufficialmente per la possibile presenza di scolaresche... Insomma per prudenza nei confronti di orecchie innocenti più che per non irritare i musulmani indiani. Questo è un breve brano dalla serie di Challawi. La detective, di nome Bano, sale sul consueto scuolabus e, dopo averlo passato in rassegna, si piazza di fronte a una 15enne 'il cui petto incontrava le mie preferenze per misure e forma'. E poi: 'Casualmente le ho messo una mano sulla coscia e le ho chiesto: dove vivi baby? Nasirabad, ha risposto timidamente. Mi piaceva la sua timidezza. Le ragazze sfrontate ed estroverse sono più deliziose a letto, ma è difficile portarcele. Le timide sono più facili da sedurre'.
Da noi, ai tempi della Dc e di Andreotti, un poliziesco del genere avrebbe avuto problemi. Solo la Francia può dire di essere un paese storicamente tollerante. Ma l'immigrazione, la multietnicità. scombussolano le carte dell'etica nazionale. In Pakistan le infiltrazioni di Al Quaeda dall'Afghanistan hanno resto la situazione ancora più problematica di quanto non fosse. Leggere Lolita a Karachi? Forse persino più difficile che a Teheran. Almeno oggi che il paese è angariato dai talebani, e teatro di attentati terribili. Come quello del 16 dicembre scorso, in una scuola di Peshawar, frequentata da giovani figli di militari, dove hanno perso la vita venticinque bambini, in maggioranza femmine. Altro che toccare le cosce.
Al fascino tradizionale dell'Islam, quello che ha fatto convertire René Guénon ma pure Alessandro Bausani, traduttore della versione classica del Corano in Italia, si spno sostituiti il tritolo ottuso dei talebani, il piombo grigio delle armi dell'Is, l'Afghanistan afono e senza musica di Bin Laden, ai vortici dei dervisci di Battiato le giravolte dei giustizieri spietati di Parigi intorno al corpo del poliziotto appena freddato in boulevard Richard-Lenoire. 'Basta Basta. Siamo a corto di vergini' dice un desolato Allah ai martiti appena arrivati in paradiso. Troppi jihadisti si immolano e arrivano nell'aldilà islamico a reclamare la loro ricompensa. Anche questa è una vignetta. Una delle vignette danesi che per prime hanno attirato l'ira islamista sulla satira. Sante parole?