Un’estate torrida, affollata e più cafona che mai, questa del 2017. Una stagione che impone domande e sollecita risposte, nel tentativo di immaginare per l’Italia un futuro turistico realmente sostenibile. Da nord a sud, il nostro Paese ha registrato quest’anno un fenomeno che, per numeri di presenze e modalità di permanenza, pare a chi scrive più simile alla biblica piaga delle locuste che a una diffusa e rispettosa volontà di scoperta e fruizione del territorio.

Diverse città, Venezia in primis, vivono questo incubo da anni: nel centro storico del capoluogo veneto gran parte degli edifici non ospita più cittadini e servizi per la comunità ma fa prepotentemente spazio a B&B, appartamenti per vacanze, negozi di souvenir-patacca, finti sushi-bar. Anonimi ristoranti prendono il posto di trattorie storiche; da piazza Roma a Rialto, e fino a San Marco, si viene ingurgitati da folle ciabattanti con il telefonino in mano, scese a frotte da abnormi navi da crociera, giusto il tempo di qualche selfie.

In Val Pusteria, nell’efficientissimo Alto Adige, le cose non vanno meglio: un’intera pineta è stata rasa al suolo per ospitare un maxi-parcheggio vicino al Lago di Braies, ex gioiello alpino diventato infrequentabile nella maggior parte dell’anno; il lago Sorapiss si è trasformato in una piscinetta d’altura, preso d’assalto da gente in costume da bagno e relativa immondizia; le Tre Cime di Lavaredo sono ridotte a banale siparietto per autoscatti, dove peraltro è difficilissimo immortalarsi da soli. Dalle montagne al mare, il pensiero va a Gallipoli e al Salento, balzati all’onore delle cronache per balconi affittati a 10 euro a notte o simulazioni di attentati nella folla dantesca per evitare di saldare il conto. Oppure nelle sarde Chia, Villasimius, Budelli, che nei mesi clou si trasformano in calderoni ribollenti di imbarcazioni, ladri di sabbia, bagnanti all-inclusive (molti dei quali ghettizzati in pachidermici villaggi vacanza che ingurgitano ogni singolo euro, restituendo zero all’economia locale).

Il fenomeno si riscontra anche sui laghi: sul Lario, battelli strapieni saltano le fermate lasciando le persone a terra; su spiaggette un tempo defilate, in un paesaggio che ha sedotto i maggiori poeti della storia, si arroventano braciole, turisti paonazzi e stereo a tutto volume. Soffrono anche il Lago Maggiore e quello d’Iseo; solo il Garda sembra in grado di resistere, in ragione della sua maggiore ampiezza e di un’organizzazione capace di accogliere un numero ingente di persone. L’elenco continua con Matera, ex città-presepe presto capitale di una cultura su cui dovremmo interrogarci; con Laigueglia e Alassio, strette nella morsa del turismo benestante delle città del Nord e l’assalto low-cost dei pendolari del mare; sul Monte Bianco, dove cordate di dilettanti in infradito pretendono di affrontare ferrate in alta quota. E ancora, si pensi all’incoscienza dei barbecue incendiari a Campo Imperatore, alla ressa e agli schiamazzi nelle chiese di Assisi e di Villammare (qui è entrata perfino una “signora” in bikini).

Troppa gente, e troppa mala educazione: questo sembra essere il nuovo problema del turismo italiano. Non vale ovunque, questo è certo: luoghi come la Riviera romagnola o il litorale veneto possono ospitare senza problemi migliaia e migliaia di villeggianti, anche scalmanati, in ragione degli ampi spazi e della presenza di infrastrutture e servizi adeguati. L’Italia però non è solo questa: il nostro è anzi un Paese costituito prevalentemente da città-museo, piccoli borghi, tesori d’arte, gioielli naturalistici - incantevoli quanto fragili. Si tratta di un sistema complesso, eterogeneo, che richiederebbe modelli di sviluppo diversificati, capaci di interpretare le esigenze di ogni territorio e delle sue specificità.

Non è sostenibile un turismo che, con l’alibi del business a tutti i costi, snatura luoghi autentici trasformandoli in luna-park. Non è pensabile immaginare che Riccione e Cala Luna possano interpretare la stessa idea di vacanza al mare. Non è accettabile che la ricchezza artistica e paesaggistica di molta parte d’Italia venga ulteriormente distrutta dagli scempi dell’abusivismo, dall’assenza di educazione al territorio e da una narrazione superficiale e pronta all’uso, che alla lunga rende ogni posto uguale a tutti gli altri. Recentemente si è iniziato a sussurrare di ingressi a pagamento o di accessi a numero chiuso, ma purtroppo siamo molto lontani dall’elaborazione di una strategia nazionale, capace di conciliare la tutela delle perle italiane con le necessità dettate dall’industria turistica di massa. Last but not least, mancano strumenti di educazione e di contrasto ai comportamenti inadeguati, dannosi o pericolosi; strumenti che raccontino le peculiarità di ogni luogo imponendo, al tempo stesso, alcune regole ferree: di rispetto, di decoro e di tutela del posto in cui ci si trova.

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