I dati diffusi in questi giorni circa la diminuzione di oltre il 10% del numero dei laureati (dato negativo che si somma a quello degli ultimi anni) hanno guadagnato distratti titoli nei mass media, che si sono limitati a lanciare grida d’allarme per le tasse universitarie troppo alte. In realtà è evidente che tale flessione, per nulla transitoria, ha molto più a che vedere con la crisi economica e culturale dell’Italia che con il livello delle tasse universitarie. Che peraltro sono da noi assai basse se le confrontiamo a quelle delle Università anglosassoni di cui gli stessi mass media cantano le lodi e che portano ad esempio virtuoso alle cenerentole italiane.
Questo è il frutto di un quindicennio di continui tagli lineari al finanziamento del sistema universitario. Riduzioni dagli effetti disastrosamente recessivi: anziché spingere - come falsamente si afferma - a spendere meglio il denaro pubblico, esse hanno colpito in maniera indiscriminata ciò che funziona bene e ciò che funziona male, chi lavora magari molto e bene e chi lavora poco o affatto. Quel che nessuno dice è che tutto questo ha un duplice e perverso risultato: premia le gestioni e i comportamenti più discutibili e, al contempo, deprime chi cerca di operare al meglio delle possibilità. Con buona pace del merito tanto sbandierato da politici e mass media di ogni colore.
Se a questo quadro aggiungiamo le continue notizie di scandali, veri o presunti - volti a descrivere il mondo accademico, ancora una volta indiscriminatamente, come una congerie di corrotti e scansafatiche - il gioco è fatto: delegittimazione, squalificazione, progressiva emarginazione sociale ed economica, che non colpiscono né i baroni corrotti, né gli scansafatiche - guarda caso dotati di adeguate coperture corporative, sindacali e di potere - ma tutti gli altri. Scandali che, a loro volta, rimbalzando fra i mass media e il mondo politico, preludono, accompagnano e giustificano agli occhi di un’opinione pubblica frastornata ulteriori tagli…
Anche nella giusta idea di internazionalizzare l’Università ci distinguiamo per un curioso strabismo: le retoriche ministeriali hanno stabilito che attirare studenti e ricercatori stranieri è una priorità, se non che, dal punto di vista della legislazione e della burocrazia, siamo ancora fermi al XIX secolo. Uno studente, anche dell’Unione Europea, che voglia iscriversi in un ateneo italiano deve sottoporsi a una trafila di traduzioni giurate, bolli, tasse e balzelli amministrativi di ogni tipo che scoraggerebbero chiunque. Senza poi contare il permesso di soggiorno, da rinnovare annualmente, e il fatto che deve dimostrare di possedere un reddito minimo!
Un altro totem è la “fuga dei cervelli” che, contrariamente a quanto si creda, non è affatto una questione dirimente: è cosa normale in tutto il mondo accademico, dalla nascita delle università nel Medioevo, che docenti e studenti si spostino laddove siano loro offerte le migliori condizioni di studio e ricerca. È una prassi che s’interruppe con lo sviluppo degli stati nazionali fra XIX e XX secolo, ma che, da almeno un ventennio, è ripresa in molti Paesi europei. Il guaio italiano è che, mentre esportiamo bravi ricercatori e professori, non ne attiriamo. Per meglio dire: non ne vogliamo. In Francia, Germania e Inghilterra troviamo facilmente studiosi di altri paesi sulle cattedre universitarie. In Italia i professori stranieri sono mosche bianche, anche perché la “fuga dei cervelli” è diventata una priorità a livello di comunicazione.
Nei fatti si attua un protezionismo anacronistico, fatto di complicazioni normative, di arbitrio dell’amministrazione e di localismo sfrenato. Sul sito web dell’Istituto Universitario Europeo nel quale si formano decine di studiosi provenienti da dentro e fuori l’UE il sistema accademico italiano è pudicamente definito «a non-competitive system». In passato gli apprezzamenti erano ancor più duri. Non importa se giusti o sbagliati, essi sono l’indicatore di come l’università italiana è percepita nel mondo…
Tutto ciò nel sostanziale disinteresse dei ministri dell’Università, della classe politica e dell’opinione pubblica. Anche perché l’internazionalizzazione significa investimenti di risorse che nessuno ha la minima intenzione di fare.
Ora poi si ventila persino l’abolizione delle abilitazioni scientifiche in nome della chiamata diretta dei professori da parte delle università. Sarebbe la pietra tombale definitiva sul merito, sull’internazionalizzazione e su ogni effettiva speranza di cambiamento. Soprattutto servirebbe solo per dare ai vari potentati - che portano molte responsabilità del presente disastro, ma vivono ben al riparo delle loro posizioni - l’illusione di contare ancora.
Possiamo solo augurarci che non si avveri la battuta di Woody Allen e di non trovarci a un bivio: «Una via conduce alla disperazione, l’altra all’estinzione totale. Speriamo di avere la saggezza di scegliere bene».
© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata