«Sono accusato di produzione e spaccio di stupefacenti, sequestro di persona e tentato omicidio. Mi chiamo Pietro Zinni e sono un ricercatore universitario». La battuta iniziale del film di Sydney Sibilia “Smetto quando voglio” (2014) che narra la storia di un gruppo di bravi studiosi, di materie umanistiche e scientifiche, che, allontanati dalla carriera accademica a causa dei tagli governativi, si dedicano al crimine, ci racconta come l’università italiana appaia ormai una sorta di UFO, se non addirittura un corpo estraneo.

Due recenti articoli di Gian Antonio Stella sul “Corriere della Sera” tentano di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla situazione del mondo universitario. Nel primo egli sottolinea come il processo di invecchiamento del corpo docente rappresenti un vero e proprio suicidio per un sistema universitario degno di questo nome. Nel secondo articolo Stella presenta il pamphlet di Stefano Pivato, ex rettore dell’Università di Urbino (Al limite della docenza. Piccola antropologia del professore universitario, Roma, Donzelli, 2015). La recensione di Stella si sofferma con dovizia di esempi sul fatto che i docenti universitari vivono nella totale autoreferenzialità, nutrita di un ego smisurato, sono fannulloni, rifiutano il mondo digitale e prosperano nel più bieco localismo opposto ai «grandi atenei internazionali che sono un viavai di eccellenze». Tono ancor più reciso ha l’intervento di Maurizio Di Fazio su “L’Espresso”, con titolo e occhiello che sono tutto un programma: Ma quant’è bella la vita dei docenti universitari. In un pamphlet in libreria in questi giorni, Stefano Pivato traccia un ritratto tagliente e autocritico della tribù degli ordinari, associati e ricercatori, immutabile e soprattutto insondabile.
Tuttavia se leggiamo il libro di Pivato, scopriamo che la satira antropologica occupa solo il primo capitolo (pp. 11-28) e che il gustoso pamphlet racconta, nelle sue 116 pagine, ben altro. Sono purtroppo questi i meccanismi perversi della comunicazione: utilizzando una parte minima del volume, si dà vita a un’analisi frettolosa che ha la stessa fondatezza dell’affermazione che tutti i musulmani sono potenziali terroristi. In questo modo si crea una trappola comunicativa: le affermazioni giornalistiche diventano verità inoppugnabili che magari finiscono per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica gli ennesimi tagli lineari. Come se, di fronte all’arresto di un carabiniere, si decidesse che la Benemerita sia un covo di delinquenti da chiudere.
Ci troviamo dunque di fronte a un altro esempio di quel «“neronismo” che, da qualche anno, pervade i media italiani sul tema dell’università», di cui parla lo stesso Pivato (p. 101). Di quel pressapochismo e improvvisazione con cui il mondo giornalistico e politico sono soliti usare i dati relativi all’università manipolandoli «al solo scopo di dimostrare tesi preconcette» (pp. 102-104).
Sia chiaro: la fenomenologia dei tipi accademici proposta da Pivato non è falsa. Seguendo però la logica del far d’ogni erba un fascio, si potrebbe dire che, in realtà, essa si attaglia assai bene alle generazioni più avanti negli anni, quelle che spesso hanno tenuto (e tengono) le redini del potere universitario. Non certo a gran parte dei docenti e ricercatori che oggi lavorano nelle università italiane. Privi spesso di prospettive di carriera - che, in tutti i sistemi universitari sani, sono un volano per la produttività - e quei fondi di ricerca che nei decenni scorsi sono stati sempre elargiti a pioggia e a fondo perduto, nella fattispecie senza alcuna valutazione dei risultati.
Per i mass-media è più facile indicare il capro espiatorio di turno, piuttosto che spiegare i meccanismi complessi che reggono l’università, come qualunque ambito della società contemporanea. Il pamphlet di Pivato illustra molto bene i guasti derivanti dalle “riforme” universitarie (dei ministri Berlinguer e Gelmini) che il potere politico, di destra e di sinistra, ha compiuto negli ultimi vent’anni. E come, a sua volta, il corpo accademico - o per meglio dire i suoi vertici - abbia abilmente sfruttato gli ampi varchi concessi dalle sedicenti riforme per la propria auto-conservazione (pp. 91-93 e 107-108).
Poco importa poi che i veri problemi restino irrisolti. Come la crescente burocratizzazione (secondo la tipica idea che, per dimostrare di lavorare, occorra produrre più riunioni e atti burocratici possibili, anziché didattica di qualità e pubblicazioni scientifiche da verificare rigorosamente); l’assenza di meritocrazia, fatta di veri incentivi ai più bravi e di disincentivi ai lavativi, non lasciando una materia tanto delicata all’autonomia ossia alla discrezionalità di atenei che possono tranquillamente infischiarsene. Tanto più che nessuno è oggi responsabile di scelte sbagliate: se un dipartimento assume un asino, chi ha preso tale decisione non subisce la benché minima conseguenza, in termini di carriere, stipendi, disponibilità di fondi.
È inutile poi ripetere il mantra che le università italiane sono assenti dalle classifiche internazionali, dato che esse non sono più strutturalmente in grado di competere a livello globale. I finanziamenti pubblici e privati di cui dispongono le università anglosassoni sono lontani anni luce da quelli cui possono attingere quelle italiane, dove mancano investimenti nella ricerca di base, umanistica e scientifica, da attribuire secondo criteri non clientelari e con rigorose verifiche a posteriori. Non solo: nel mondo anglosassone per accedere alle università si pagano fior di rette che sono un tabù in Italia. Dove l’università deve essere sotto casa (ma in questo caso il localismo va bene a tutti…) e sotto costo. Con il paradosso che oggi gli atenei inglesi sono pieni di studenti italiani di famiglie benestanti, disposte a pagare cospicue rette pur di garantire un futuro lavorativo ai propri figli. Per tutti gli altri ci sono le nostre vituperate università!
I mass-media, da parte loro, avallano una visione distorta della realtà, dato che gli scandali “vendono”. Tuttavia la facile demagogia favorisce unicamente la folta schiera di coloro che hanno avuto e hanno le redini di quel che resta del potere accademico. I quali non solo hanno goduto di ampi privilegi, come, ad esempio, carriere fatte quasi senza pubblicazioni e automatismi stipendiali (aboliti dal 2010), ma sono, in varia misura, corresponsabili di molti dei problemi di cattiva gestione delle università. Il “siamo tutti colpevoli” che costoro spesso intonano, non significa solo negare la verità dei fatti, ma è funzionale all’auto-assoluzione da ogni responsabilità.
L’università non è infatti un corpo separato, ma è in realtà lo specchio del paese e delle sue classi dirigenti. Anche qui i “diritti acquisiti” per anzianità spesso contano più dei meriti nella ricerca e i discorsi auto-conservativi si alimentano delle querimonie sul piccolo mondo antico. Il senso d’irresponsabilità è diventato soprattutto la cifra della maggior parte dei comportamenti: chi riveste una qualche autorità accademica (elettiva) cerca abitualmente di presentarsi come irresponsabile. In questo clima non c’è da stupirsi se continuano i comportamenti poco trasparenti e lontani non solo da ogni idea di bene comune, ma anche dal buon senso.
Speriamo non abbia ragione il protagonista di “Smetto quando voglio” che così apostrofa i suoi colleghi di sventura: «Voi siete le migliori menti in circolazione, e vivete ai margini della società» .

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