25 maggio; da pochi giorni sono state revocate parzialmente le restrizioni del lockdown, ora almeno ci si può muovere all’interno della propria regione. Dopo tanta reclusione dentro le mura di casa e piccoli percorsi a piedi nel perimetro del mio comune del basso Salento, avevo proprio bisogno di un altrove, e quel luogo, per quanto ne sapevo, prometteva di essere un altrove ‘molto altrove’. Sentivo che era il momento giusto.
Da Lecce prendo un treno che risale tutta la lunga Puglia, la mia destinazione è al limite ultimo fin dove mi è permesso spingermi in ‘regime di Covid’, l’ultima provincia della regione: Foggia. Lì ad aspettarmi trovo Latyr. Ci siamo conosciuti l’anno prima, lui partecipava da studente ad un corso di formazione per mediatori interculturali a Lecce in cui io avevo tenuto delle lezioni. Papa Latyr Faye, detto Hervé, è senegalese, di Dakar. Ha lasciato il Senegal nell’agosto del 2007, ha preso un aereo per Marsiglia e da lì ha girato per altre città europee, dove vivono alcuni suoi fratelli da molti anni. In Francia, in Belgio, poi arriva in Italia: prima a Milano, successivamente va a Verona, a Parma e infine, a dicembre di quello stesso anno, a Foggia per trovare un suo zio paterno, Mbaye Ndiaye, che era arrivato l’anno prima. Da quel momento un destino comune li terrà uniti e li porterà negli anni successivi a San Severo. In Senegal Latyr faceva l’agente immobiliare e gestiva alcune attività commerciali di famiglia. Durante il corso a Lecce mi aveva parlato di un sogno-progetto, su cui da quasi un decennio aveva riversato tutte le sue energie; a poco a poco, negli anni, era divenuto sempre più concreto.
Usciamo dalla stazione di Foggia e saliamo su un’auto. Saluto e tendo la mano all’uomo che è seduto al posto di guida, presentandomi. E lui: ciao, sono Mbaye Ndiaye. Partiamo.
Percorriamo una distesa enorme e libera, solo campi, di cui non si vede la fine, un mare d’oro, un giallo caldo e avvolgente, tagliato solo da quella strada dritta, stretta e lunga su cui ci muoviamo, il mare d’oro ci scorre ai lati. C’è tanta luce e anche tanto vento, disegna ininterrottamente delle onde sulla cresta del mare d’oro, sono morbide e luccicano al sole. Non stacco gli occhi dai vetri del finestrino, non voglio perdermi nulla di questo paesaggio solitario e suggestivo. Cambiamo direzione, ci immettiamo sulla S.S. 16 Foggia-San Severo, ne percorriamo un tratto fino ad un cancello giallo: “ecco siamo arrivati” mi dice Latyr.
Sul cancello svetta un grande cartello che recita: Casa Sankara – Centro Stefano Fumarulo.
Oltrepassiamo sempre in macchina il cancello e raggiungiamo un piazzale sterrato dove ci fermiamo e scendiamo. Dove siamo? «In località Fortore in agro di San Severo – mi risponde Mbaye – e tutta quest’area un tempo era un’azienda agricola, chiamata appunto Azienda Fortore: è di proprietà della Regione Puglia». Mi spiega che i terreni di pertinenza qui attorno sono rimasti abbandonati e incolti per decenni, pure alcuni prefabbricati lì presenti, frutto di un progetto di albergo diffuso di molti anni fa che poi non era mai partito. «Finché nel 2012 siamo arrivati noi: l’erbaccia era ad altezza d’uomo. Ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo ripulito e rimesso in sesto questo posto, da allora ce ne prendiamo cura».
Ad accoglierci in quel piazzale c’è un grande murales del presidente rivoluzionario burkinabé, con il pugno sinistro alzato e una delle sue frasi: Lo schiavo che non prende la decisione di lottare per liberarsi merita completamente le sue catene.
Non mi stupisco che l’eroe africano della lotta alla povertà, all’ingiustizia, all’imperialismo capitalista e neocolonialista, campeggi in questo luogo. Non è un accostamento di superficie. Thomas Sankara ha puntato molto, nel suo breve ma intenso impegno politico, a decolonizzare l’immaginario degli africani, a cercare di spezzare quel loro guardarsi attraverso gli occhi dei colonizzatori. Per guardarsi con i loro occhi, da dentro la loro cultura. È un passaggio obbligato questo se, da sottomesso, vuoi incamminarti verso l’emancipazione e l’autodeterminazione. Cambiò il nome del suo Paese da Haute-Volta, nella lingua dei colonizzatori francesi, in Burkina Faso, che significa ‘la terra degli uomini integri’ nella lingua locale; modificò la bandiera nazionale e l’inno. In una intervista del 1985 aveva dichiarato: «Dobbiamo avere il coraggio di inventare il futuro». Ora, davanti al suo murales, mi risuonano i discorsi di Latyr di quando ci eravamo conosciuti. Il suo lucido e fermo rifiuto del modello di aiuto che lo Stato italiano mette in atto da decenni nei confronti dei migranti: «Non mi piace questo aiuto, questo ‘aiuto’ non aiuta. L’aiuto è tale, come diceva Thomas Sankara, se non ho più bisogno di aiuto. I lavoratori migranti rimangono per anni ed anni in una condizione di bisogno, allora vuol dire che qualcosa non funziona, che qualcuno sfrutta la nostra sofferenza». E il suo orgoglio e la sua grande determinazione nella sfida che ha ingaggiato, difficile e faticosa, da straniero in un Paese straniero. La sfida di inventare un altro percorso, di immaginare un’alternativa che sgretoli il repertorio degli stereotipi e dei luoghi comuni del nostro immaginario collettivo su migrazione, accoglienza, assistenza.
Il sogno-progetto di cui mi ha tanto parlato Latyr è un luogo di accoglienza e inclusione per lavoratori migranti, gestito dai migranti per i migranti stessi, che dia loro dignità, li riconosca come persone, offra loro le condizioni minime di partenza per sottrarsi alle grinfie dello sfruttamento e dell’illegalità e intraprendere un percorso di autonomia, di lavoro regolare, di una soluzione abitativa integrata nel tessuto sociale, presso cui porre una residenza, per vivere insomma alla luce del sole, nella legalità, e non come un invisibile. Negli anni lui ed altri suoi compagni africani hanno lottato per creare questo luogo ed io ora sono qui a vederlo.
Latyr, Mbaye, insieme con Pape Sambe, Abdourahman Baldeh, Assunta La Donna – che continuano ancora oggi ad impegnarsi attivamente per Casa Sankara –, Ange Traore, Omar Nalla, Lamine Gueye, Mamour Paye, Ndeye Mour El Hadji Niang, si sono fatti parte attiva nel prendere in mano gli spazi abbandonati dell’azienda agricola regionale Fortore, risistemarli, renderli ospitali. All’inizio lo hanno fatto come gruppo informale che si appoggiava ad associazioni sanseveresi e poi si sono costituiti loro stessi formalmente in associazione nel 2016, con il nome di Ghetto-Out Casa Sankara. Il presidente è Latyr. Come associazione hanno partecipano ai bandi con cui la Regione Puglia ha affidato la gestione delle strutture e dell’area dell’azienda Fortore per garantire ospitalità a lavoratori migranti, hanno stipulato convenzioni e sottoscritto precisi regolamenti di funzionamento.
«Molte realtà che ospitano migranti sono gestite solo finché ci sono contributi, poi vengono abbandonate. Accogliere e supportare i migranti per noi è una lotta, non è un business – mi spiega Latyr. Sono d’accordo che chi lavora garantendo servizi, laboratori, formazione, sportelli rivolti ai migranti che vivono nei ghetti debba essere remunerato, ma le tante risorse che vengono spese andrebbero orientate soprattutto verso la risoluzione del problema. Mentre invece il problema rimane, dura da decenni, in una cosiddetta ‘emergenza’ che non ha mai fine. Allora non è un’emergenza! Per intervenire nei ghetti sono stati investiti tanti di quei soldi che si sarebbero potuti costruire dei palazzi interi. A Casa Sankara siamo impegnati tutti i giorni dell’anno, a prescindere da fondi. Siamo qui e andiamo avanti anche a zero euro. Abbiamo un canale di dialogo e un interlocutore importante in tutto questo nella Regione Puglia. Ma ci sforziamo anche tanto per cercare di funzionare al di là dei bandi regionali, creando sinergie, partenariati, inventando progetti. Ci interessa dare continuità e prospettive a questo posto, renderlo ogni giorno migliore e autosufficiente».
Ma come è accaduto che dei migranti, per di più senza permesso di soggiorno, si facessero parte attiva in una battaglia di questo tipo, qui in Capitanata, la terra del tristemente famoso ‘Gran ghetto di Rignano’, riuscendo negli anni a realizzare concretamente un centro che ospita oggi alcune centinaia di lavoratori migranti?
È il 2009: Mbaye e Latyr da alcuni anni fanno i venditori ambulanti, non hanno documenti. Quell’anno conoscono un avvocato italiano di San Severo: dice loro e ad altri africani immigrati che può aiutarli e curare per loro conto le pratiche di una sanatoria per ottenere il permesso di soggiorno. Per il suo lavoro e per tutti i versamenti che avrebbe dovuto fare chiede a ciascuno di loro la cifra di 3.500 euro. Ottiene in anticipo tutti quei soldi. «Abbiamo aspettato fino al 2011 – ricorda Mbaye – senza mai una risposta, un’indicazione da parte sua. Alla fine siamo andati in prefettura e lì abbiamo scoperto che non era mai arrivata alcuna nostra documentazione, alcun versamento, non esistevamo proprio. Qualcuno all’epoca ci consigliò di rivolgerci all’Associazione Libera che avrebbe potuto aiutarci. Attraverso quel primo contatto abbiamo conosciuto e stretto rapporti con la Flai-CGIL e con alcune realtà dell’associazionismo sociale molto attive e impegnate da anni a San Severo nella lotta al caporalato, alla criminalità e in progetti di volontariato sociale a favore dei lavoratori migranti. Una di queste, un giorno, ci coinvolse nell’organizzazione di un’attività di animazione per sensibilizzare i migranti contro lo sfruttamento, noi dovevamo trovare dei musicisti africani di djambé. In quell’occasione abbiamo scoperto la realtà del ghetto, abbiamo visto qualcosa di terribile, che non avevamo mai visto prima, nemmeno in Africa». Lui e Latyr collaborano con delle associazioni di volontariato di San Severo ed entrano nel cosiddetto Gran ghetto, sorto a qualche chilometro dalla stazione ferroviaria di Rignano Garganico, un ammasso di baracche di lamiera e plastica e diverse migliaia di immigrati.
Dopo molti mesi di attività, durante un tavolo tecnico di rendicontazione presso la prefettura con tutte le associazioni che avevano operato nel ghetto di Rignano, a cui partecipano anche Latyr e Mbaye, l’allora prefetto di Foggia Maria Luisa Latella chiede proprio a loro, in quanto africani, di conoscere il loro punto di vista. Mbaye non se lo fa chiedere due volte, si alza in piedi e comincia: «Quei ragazzi del ghetto che tutti noi abbiamo aiutato in questi mesi in realtà non hanno bisogno di riso, o di latte, non hanno bisogno di materassi né di coperte. Hanno bisogno di un tetto: lì ci sono ripari fatti di buste, di lamiere e di cartoni, è un luogo invivibile, nessuno di noi qui presenti porterebbe il proprio figlio a dormire lì nemmeno per una sola notte. È vero, le associazioni sono lì presenti dalle undici della mattina fino alle sette di sera, ma poi vanno via, vanno a dormire in un letto, mentre quelle persone rimangono lì nel ghetto. Il ghetto deve essere sgomberato! Allora il prefetto ha voluto il mio numero di telefono e due giorni dopo mi ha chiamato e mi ha chiesto se ce la sentivamo di iniziare questa lotta che non era per nulla facile, ma noi abbiamo detto sì. E la prima cosa che ha fatto il prefetto è stata quella di farci entrare qui, nell’azienda Fortore, per farne un’alternativa al ghetto».
Da allora sono passati otto anni, anni di battaglie, difficoltà, progetti e soprattutto tanto, tanto lavoro. Già dal 2012 cominciano con un’azione attiva per tirare fuori i migranti da quell’incubo, ma da subito si scontrano con tante difficoltà e soprattutto debbono constatare con amarezza che sono proprio i migranti che vivono lì a non volerlo lasciare. «Non è facile perché tutta la vita lì è gestita interamente dal caporale: appena arrivi in Italia non hai alcuna possibilità di poter prendere una casa e allora il caporale ti dà un posto dove dormire, nel ghetto ovviamente, e ti dice: ‘costa 150 euro al mese, te lo paghiamo noi’; ti fa anche mangiare, ti trova un lavoro alle sue condizioni, ossia sottopagato, e poi una volta che cominci a lavorare ti chiede soldi per ogni singola cosa di cui usufruisci nel ghetto: il trasporto sul luogo di lavoro, il cibo, il ricovero in cui dormi, un po’ d’acqua per lavarti alla meno peggio. Non ti rimane nulla di quel poco che hai guadagnato, e tu devi ancora mandare i soldi a casa, alla tua famiglia, che ha riversato su di te tante aspettative. Allora il caporale ti presta i soldi da mandare in Africa, soldi che gli dovrai restituire. In questo modo hai sempre debiti con il caporale e dunque non puoi più uscire fuori dal ghetto». Mbaye mi racconta che di notte andavano lì al ghetto per documentare come funzionasse veramente, fotografavano le condizioni di vita, «gli spacciatori che giravano lì, la prostituzione, insomma tutte le situazioni di illegalità. Ci infiltravamo nel ghetto per contattare direttamente i ragazzi che stavano lì per dar loro coraggio e convincerli a denunciare. Allora il ghetto di Rignano era enorme, negli anni seguenti per fortuna non è più ritornato ad essere così grande, sebbene rimanga sempre uno dei più grandi ghetti d’Italia. In quegli anni [il riferimento è al periodo tra il 2012 e il 2017] ogni estate il ghetto di Rignano arrivava a contenere fino a 5.000 migranti; era una vera e propria bomba, la vergogna dell’Italia. Arrivavano giornalisti da tutta Europa (Svizzera, Germania, Francia, Inghilterra…) solo ed esclusivamente per parlare di quella vergogna».
Ai margini dei siti di produzione agricola, sulla pelle dei braccianti stranieri, esiste un ‘sistema-ghetto’, che vede la convergenza e la saldatura tra fenomeni di marginalità ed esclusione a cui sono esposti gli stranieri che arrivano nel nostro Paese, prodotti dalle nostre regole su immigrazione, accoglienza e cittadinanza, da una parte, e i fenomeni di illegalità, sfruttamento e caporalato dall’altra, che innervano il comparto agricolo coinvolgendo i diversi attori della filiera. Le istituzioni e le organizzazioni sociali e di volontariato intervengono nei ghetti portando servizi, alfabetizzazione, educazione, ma il sistema ghetto è una realtà molto complessa ed intricata, porta con sé numerose contraddizioni, zone grigie, c’è troppa compromissione. «Nessuno può entrare nel ghetto – mi spiega Latyr – senza avere l’ok dei caporali: per fare lì una riunione, un evento, per parlare coi migranti devi per forza avere il loro permesso. Chiunque dica che sta lottando contro il caporalato e va a fare i comizi dentro al ghetto a favore dei lavoratori non vuole veramente cambiare le cose perché non potrà mai parlare liberamente contro i caporali senza venire immediatamente cacciato via. Se rimane lì e opera lì la sua posizione non è credibile. Ha altri interessi: c’è chi vuole diventare un dirigente politico, chi un dirigente sindacale, chi vuole diventare famoso, chi vuole fare la star. C’è chi vuole mantenere i migranti dentro quelle baracche perché ha bisogno di quella sofferenza, di quella povertà, per giustificare la sua presenza, le sue azioni, ma sono battaglie e azioni che non cambieranno mai la realtà dei ghetti, si reggono a vicenda». Latyr e gli altri dell’Associazione Ghetto-Out sono convinti che non si possa scendere a patti col ghetto: «Lo diciamo da anni, ma nessuno ci vuole ascoltare: se dobbiamo lottare contro lo sfruttamento, contro il caporalato, non ha senso andare nel ghetto a portare acqua, cibo, servizi, perché così facendo purtroppo si va a rafforzare il potere dei caporali. Io proprio non capisco come si possa pensare di prodigarsi per rendere il ghetto più vivibile, come le istituzioni possano spendere tempo, risorse ed energie a far questo. Il ghetto non potrà mai diventare qualcosa di diverso da un ghetto! Per via di come funziona, per via di chi lo gestisce! Lo Stato nel ghetto non ha alcun potere, lì governano i caporali. Anche quando dicono che i migranti non vogliono andar via dal ghetto, che vogliono rimanere lì per cercare di migliorarlo, è falso. Nessuno vuole vivere nel ghetto a parte il caporale. Il ghetto deve essere soltanto smantellato. E le persone che ci sono lì devono essere strappate via dalle loro mani e portate lontano. Questo è per me lottare contro il caporalato». E orientare tutte le energie verso soluzioni alternative. Soluzioni sane, trasparenti, che non siano né di emergenza né a tempo indefinito, ma un passaggio legale per immettere i lavoratori migranti in un circuito virtuoso lavorativo e sociale.Casa Sankara, San Severo (foto di A. Manfreda)
Casa Sankara ha cercato sin da subito di rappresentare questo ed oggi è un modello. È riduttivo pensare che sia semplicemente un centro di ospitalità e accoglienza. È un’idea ben precisa di autonomia, di dignità, di riscatto. È una scommessa di autosufficienza, è un rifiuto dell’assistenzialismo, tanto delle istituzioni verso Casa Sankara, quanto di Casa Sankara verso i suoi ospiti: «Ogni migrante accolto qui – mi dice Mbaye – viene accompagnato da noi in un percorso che prevede la ricerca di una casa, la ricerca di un lavoro legale e contrattualizzato correttamente, la consulenza legale per regolarizzare la sua posizione. Qui un migrante trova le condizioni favorevoli per poter uscire dall’illegalità e dallo sfruttamento e cominciare un percorso di dignità. Dare un posto-letto e dei pasti pronti ad un ospite senza instaurare una qualche forma di scambio, di reciprocità, secondo noi non funziona. È un messaggio sbagliato. La permanenza qui dura al massimo due anni, perché questa non deve essere la soluzione definitiva: questo è un luogo di transizione».
Latyr mi accompagna per mostrarmi tutta la struttura e mi racconta: ogni elemento di questo luogo è un’idea, un progetto avviato, o in procinto di partire. Dal piazzale d’arrivo, dove ci sono i più antichi moduli abitativi impiantati in quell’area, ci siamo spostati sul retro, Latyr va avanti ed io lo seguo. «La vedi? – mi dice indicandomi una casetta tutta di legno, con il tetto a spiovente – è una moschea. L’hanno realizzata i ragazzi musulmani di Casa Sankara. È stata una loro iniziativa, presa in autonomia e in auto-organizzazione. Hanno raccolto tra loro i soldi, mettendo tre euro ciascuno, hanno comprato i materiali e hanno costruito la moschea, con le loro stesse mani». Proprio mentre noi siamo lì un ragazzo sta cantando il richiamo di tutti i fratelli per la seconda preghiera: è appena fuori la porta d’ingresso della moschea, ci dà le spalle, la testa leggermente alzata verso l’altro, la mano destra appoggiata sulla guancia, recita ad alta voce in arabo con un andamento cantilenante.
E non è l’unico esempio di auto-organizzazione da parte dei ragazzi ospiti. A Casa Sankara i caporali non entrano con i loro furgoni per fornire il trasporto ai campi di lavoro. Così molti dei ragazzi ospiti si sono uniti in gruppi di quattro per comprare un’auto usata con cui andare insieme a lavorare, mentre l’Associazione Ghetto-Out ha avviato degli accordi con una scuola guida locale per poter dotare di patente italiana chi ne è sprovvisto.
Il caporalato in Puglia non è nato con i braccianti stranieri. È parte integrante di un comparto agricolo pugliese che da decenni e decenni si serve di figure intermedie che connettono il proprietario terriero (o l’imprenditore agricolo) con il bracciante e mediano l’ingaggio, secondo le condizioni più sfavorevoli possibile per quest’ultimo. I braccianti pugliesi sono stati da sempre un esercito di invisibili, da vessare e sfruttare, facendo leva sul loro stato di bisogno, stretti tra il farsi spremere fino all’ultima goccia di sudore e la prospettiva di guadagnare qualcosa, seppur minima, per vivere. Proprio il foggiano ha visto tanti scontri, spesso cruenti, tra braccianti e squadristi degli agrari, sin dagli inizi del Novecento.
Di quella terra è stato il sindacalista Giuseppe Di Vittorio, figlio di braccianti, rivoluzionario e combattente per i diritti. Parliamo di sfruttamento di bianchi verso bianchi, di cittadini che si assoggettano pur di lavorare, spesso si tratta di famiglie intere, buttate nei campi da sole a sole, uomini, donne e anche bambini. Prima era il latifondismo la bestia nera, oggi è la grande distribuzione globalizzata. E i braccianti ‘autoctoni’ cedono via via il posto agli immigrati, con la differenza che questi vengono ‘concentrati’ in accampamenti di fortuna, luoghi indegni, e sottoposti a pratiche di sfruttamento che si incattiviscono sempre di più, come se l’essere stranieri facesse sentire i loro sfruttatori maggiormente legittimati ad esserlo. Il caporale è solo un anello di un’intera filiera dello sfruttamento, in cui ci sono i datori di lavoro e le logiche del mercato globale che strozzano tutto il sistema imponendo condizioni e politiche dei prezzi insostenibili, materialmente ed eticamente. «Davanti alla fame, davanti al bisogno, il migrante pensa solo a lavorare per avere qualcosa, per affrontare la condizione che sta vivendo. Ha bisogno di mangiare ora, di dormire ora. E il caporale sa tutto questo. Anche perché molto spesso i caporali sono stati a loro volta sfruttati e sanno come funziona. Sicuramente il caporale per il migrante diventa un punto di riferimento, trova in lui una risposta ai suoi problemi» mi dice Latyr.
Torniamo nuovamente verso il piazzale d’ingresso e poi imbocchiamo una strada sterrata che si inoltra attraversando i campi di pertinenza dell’area. In fondo in fondo si intravedono i nuovi moduli abitativi che nel luglio del 2019 la Regione Puglia ha portato ed installato lì, facendo così aumentare il numero di posti totali disponibili per Casa Sankara, che ora sono circa 400. I campi sono molto grandi e si estendono su entrambi i lati della strada sterrata. La vista che c’è qui mi dà un grande senso di libertà: una pianura senza costruzioni, dove l’occhio corre senza ostacoli, tra il bruno e l’oro, arriva lontano, molto lontano, fino alla linea dell’orizzonte disegnata dal profilo dei monti del Gargano. Ha un colore particolare questa terra, diverso da quello che sono abituata a vedere in Salento, qui è di un bruno molto scuro; questa di Casa Sankara è pulita, è stata arata da poco. Ci fermiamo: «Tutta questa terra qui attorno – mi dice Latyr – verrà lavorata dai ragazzi di Casa Sankara, si tratta di ben 16 ettari. Siamo riusciti a costruire un partenariato pubblico e privato per un progetto di agricoltura etica e sostenibile che ci permetterà di mettere a frutto queste terre, assicurare lavoro ai nostri ragazzi e dare concretezza all’idea di autosufficienza di Casa Sankara. La Regione Puglia ci ha concesso di poterle lavorare e tre aziende agricole, una di Lesina, una di Cerignola e una di Bari, ci affiancheranno per fare produzione agricola con un nostro marchio. Cominceremo i primi di giugno piantando i pomodori che poi raccoglieremo e trasformeremo in passata». Poi lui riprende a camminare ma io noto un cartello di legno che è stato piantato proprio all’inizio dei campi, mi avvicino, c’è una scritta, sia in caratteri occidentali-latini sia in caratteri arabi. Chiamo Latyr che torna indietro e mi raggiunge. Leggo ad alta voce: CAMPO KHELCOM SAN SEVERO, che cosa significa? «Khelcom è un’espressione di lingua wolof composta da due parole: khel, che vuol dire intelligenza e com, che vuol dire prosperità. Significa che devi usare la tua intelligenza per ottenere qualcosa, per avere un risultato, dei frutti, la prosperità. Khel fa riferimento ad una intelligenza che sa applicarsi e lavorare, come gesto profondo di contatto con te stesso e il mondo, come se fosse una preghiera. Questa espressione è contenuta nel pensiero filosofico di Serigne Saliou Mbacke ed è anche il nome di una comunità rurale del Senegal che conduce circa 45.000 ettari di campi». Serigne Saliou Mbacke è l’ultimo figlio di Serigne Touba, l’importante leader religioso del Senegal, fondatore del mouridismo, una confraternita musulmana, che lui ha improntato sul grande valore attribuito al lavoro, come atto di preghiera e di amore, una figura di grande spiritualità e di grande impegno politico per la liberazione del Senegal dai colonizzatori francesi in modo non violento. «In Senegal – continua Latyr – Serigne Saliou Mbacke ha creato delle comunità agricole, dove bambini, ragazzi e giovani lavorano la terra e hanno l’opportunità di studiare presso scuole coraniche. Quando finiscono il percorso formativo, sono liberi di andar via per fare la loro vita». Latyr, murid egli stesso, ha una fede intensa e autentica, le sue parole sono piene di amore e ammirazione: «lui è stato un marabout, un maestro, impegnato in un progetto di società e di persone, nel dar loro i mezzi per affrontare la vita da giusti, che vuol dire lavorare e produrre in modo giusto, con rispetto, della terra, degli altri, perché il produrre non deve danneggiare niente e nessuno. Khelcom è tutto questo. E noi facciamo nostro questo messaggio: il cartello sta a significare che il nostro progetto di agricoltura etica, così come pure tutta la nostra comunità di Casa Sankara, si ispira a questi principi di giustizia, di rispetto, di impegno attivo e di lavoro per realizzarsi nella vita e ottenere risultati».Casa Sankara, San Severo (foto di A. Manfreda)
C’è un fare intenso qui, vitale, ho la sensazione che non si fermi mai, ma soprattutto c’è una grande anima. Anche se a viverci sono dei ragazzi poco più che ventenni, sradicati dalle loro case, dalle loro famiglie, dal loro Paese, che hanno assunto su di sé il peso di dover trovare lavoro in un Paese straniero e di dover guadagnare non solo per vivere, ma soprattutto per mandare i soldi a casa; nonostante tutto questo, l’anima che è stata data a questo luogo infonde un senso di pace.
«Siamo in quattro persone, nell’associazione, ad occuparci dell’amministrazione, della progettazione, delle pratiche di accoglienza e registrazione dei nuovi arrivi, dei documenti necessari, dei rapporti con le istituzioni: prefettura, forze dell’ordine, Comune, Regione. Abbiamo dei compiti di responsabilità rispetto ai ragazzi ospiti, ci occupiamo di loro, veniamo incontro alle loro necessità. Allo stesso tempo – mi spiega Mbaye – essi stessi sono coinvolti attivamente insieme a noi nel funzionamento quotidiano di Casa Sankara, nella sua conduzione, nella manutenzione dei suoi spazi. Una volta al mese teniamo degli incontri con tutti loro per confrontarci, raccogliere esigenze e per sensibilizzarli e far comprendere loro il senso di questa comunità, per sollecitarli ad essere attivi e partecipi, a fare un percorso di autonomizzazione piena. Tanti ragazzi che sono passati da Casa Sankara oggi abitano a San Severo, pagano un affitto, hanno un contratto di lavoro, il datore di lavoro versa loro i contributi. Ecco, noi vogliamo questo! Così noi vogliamo vivere in Italia, che per noi è una seconda madre!». Non posso fare a meno di appuntare dentro di me questa sua espressione, ‘seconda madre’, che meraviglia, questa traduzione letterale rivela (potenza della lingua) il senso e il segno che ha per loro e la loro cultura ciò che noi italiani chiamiamo invece ‘patria’. «Vogliamo partecipare allo sviluppo di questo Paese!» continua Mbaye.
Con questo spirito Latyr, Mbaye e gli altri, mettono in cantiere tante idee per lo sviluppo della loro comunità. Come è per il progetto di agricoltura etica e sostenibile che quelli di Casa Sankara vogliono orientare non solo alla coltivazione del pomodoro, coltura regina qui in Capitanata assieme al grano, ma anche alle colture africane e senegalesi: «Abbiamo già coltivato la canapa e continueremo a farlo e poi vogliamo coltivare alcuni prodotti agricoli africani come il miglio, da cui potremo ricavare quattro differenti prodotti ossia il sankhal, il cous cous, l’arau e la farina; poi l’okra, una pianta che in Africa chiamiamo anche gombo, e il peperoncino africano, tutti da destinare – mi spiega Mbaye – al mercato italiano che attualmente li importa, attraverso pakistani e cinesi, vendendoli al consumatore finale a prezzi molto alti. Noi, realizzandoli qui, potremo proporli sul mercato a prezzi più competitivi. Vogliamo produrre con un nostro marchio che al momento non posso ancora rivelarti, è top secret».
Siamo arrivati in prossimità dell’area dove sono stati installati i nuovi moduli abitativi, entriamo e Latyr mi racconta quello che ha immaginato per ogni angolo di quest’area. «Qui vogliamo piantare dei fiori e poi lì sullo sfondo vogliamo far realizzare dei murales con i ritratti di persone che si sono impegnate per un mondo più giusto, che hanno segnato le lotte per i diritti: immagino lì il ritratto di Giuseppe Di Vittorio e accanto quello di Paola Clemente, bracciante di San Giorgio Ionico vittima del caporalato. Sai ho preparato una lista di nomi che vogliamo onorare. In questo spazio grande ci sarà la mensa, è quasi pronta, e in quest’altro modulo più piccolo c’è il nostro ufficio. E lì ci sono le stanze dei ragazzi ospiti».
Ci spostiamo un po’ e ci avviciniamo ad una pietra su cui c’è riprodotto il ritratto di un uomo: è un monumento alla memoria di Stefano Fumarulo, morto nel 2017 a 38 anni, un omaggio alla sua figura e al suo impegno, il segno del grande affetto e della grande riconoscenza che Latyr, Mbaye e tutta Casa Sankara avranno sempre per lui. Quello con Stefano Fumarulo è stato infatti uno degli incontri più importanti per loro. È stato Mbaye a raccontarmelo: «Credo che fosse nel 2015… partecipammo ad un incontro a Cerignola contro la mafia ed io in quella sede presi la parola per raccontare la nostra situazione. Alla fine dell’incontro sono stato chiamato in disparte da un uomo, che non avevo mai visto prima: era Stefano Fumarulo. Mi disse che era un dirigente regionale e che si occupava di migrazione, lotta al caporalato e di antimafia sociale. Ci siamo scambiati i contatti e lui è venuto qui a conoscere la nostra realtà. Da quel momento Stefano Fumarulo è stato uno di quelli che ha sempre creduto in noi e nel nostro progetto. Grazie a Fumarulo abbiamo conosciuto Michele Emiliano, il presidente della Regione Puglia, che all’epoca era assessore alla legalità a San Severo. All’inizio è stato molto difficile sopravvivere e far funzionare questa struttura, non avevamo alcuna forza economica, non avevamo niente, avevamo solo il nostro sogno e abbiamo trovato un altro sognatore come noi, Stefano Fumarulo, che credeva in noi, ci spingeva a continuare, si mobilitava spesso per sensibilizzare il tessuto sociale nella raccolta di fondi e aiuti per farci andare avanti».
Quando il 3 marzo del 2017 il ghetto di Rignano viene finalmente sgomberato è un risultato clamoroso, tutti i media locali e nazionali ne parlano. Un ruolo fondamentale l’aveva avuto proprio Stefano Fumarulo, con il suo paziente e costante lavoro sul campo, di dialogo e composizione delle azioni di prefettura, enti locali, associazioni del territorio e sindacati verso l’obiettivo comune. In quell’occasione Casa Sankara accolse circa 300 ragazzi tirati via dal ghetto, ed altri ancora in un’altra struttura, l’Arena, messa a disposizione dal Comune di San Severo.
Sulla sua lapide commemorativa qui a Casa Sankara leggo una frase. È sua? chiedo a Latyr. «Sì, lui diceva sempre questo: Dovete essere protagonisti. Create associazioni e cooperative. Prendete il vostro avvenire in mano e abbiate il coraggio di sognare. Questo è l’unico modo per combattere il caporalato. In noi, sin dal primo momento, ha colto questo spirito attivo e combattivo. È stato sempre al nostro fianco, se oggi siamo quello che siamo lo dobbiamo anche a lui e noi onoreremo sempre la sua memoria. Per questo abbiamo fortemente voluto intitolare anche a lui la nostra struttura che dal 2018 si chiama Casa Sankara – Centro Stefano Fumarulo. Lo abbiamo inaugurato simbolicamente nel giorno della Festa della Repubblica, il 2 giugno, che quell’anno è stata festeggiata dal presidente della Regione Puglia proprio qui da noi, insieme all’ambasciatore del Senegal in Italia».
Di fatto, negli anni, il ghetto di Rignano si è riformato ed altri ce ne sono, più o meno grandi, in Capitanata, ancora oggi. Lasciare esistere il ghetto non è solo fallire, come Paese, sul piano sanitario, lavorativo e dei diritti umani. Significa pure fallire sul piano culturale e civile come società italiana, perché accettiamo quella soluzione che è segregazionista e razzista: come e quando quei lavoratori potrebbero costruirsi amicizie, relazioni, momenti di socialità e occasioni di sviluppo, stando lì nel ghetto? «Certo! – mi conferma Latyr – chi ti verrebbe mai a trovare lì? Il ghetto fa schifo!».
Il segregazionismo non è solo una condizione fisica. Il ghetto è anche sociale, relazionale e culturale, che è invisibile ma altrettanto terribile ed è costruito dalle nostre parole, dalle nostre pratiche quotidiane, ogniqualvolta etichettano a priori, confinano ed escludono l’altro. Le tante narrazioni che da molti anni popolano giornali, TV e mezzi di comunicazione ci consegnano un’immagine dei lavoratori agricoli migranti come esseri bisognosi, a cui magari erogare beni e servizi primari, ma mai collocati dentro il tessuto sociale ‘ordinario’ come suoi possibili nuovi membri. Ce li raccontano come ‘presenze’ abbinate ai campi in cui lavorano, un tutt’uno con essi, elementi del paesaggio rurale agricolo. Sospesi in una condizione di non appartenenza, lontani dai centri abitati, lontani dalla quotidianità degli ‘autoctoni’. Casa Sankara sta scrivendo una narrazione diversa.
Latyr mi racconta che all’inizio i migranti che arrivavano lì a chiedere ospitalità non credevano che il responsabile del centro fosse lui, un africano come loro, si chiedevano come mai i referenti della struttura non fossero dei bianchi. «Anche gli italiani che vengono in struttura si aspettano di trovare un gestore bianco. Il nostro punto di forza è che questa struttura vede il pieno protagonismo dei migranti stessi perché noi sappiamo ciò di cui abbiamo bisogno». È vero, è il loro punto di forza: non sono gli stranieri ‘da includere’, ma soggetti propositivi impegnati a ‘autoincludersi’, da protagonisti, desiderosi di costruire con le loro mani il futuro.
Casa Sankara è fatta di relazioni di cura e di valorizzazione, di appartenenza, di impegno e responsabilità reciproca tra gli ospiti e verso la struttura, i suoi spazi, i progetti che porta avanti. Muove da una ben precisa idea di persona, di relazioni umane e di società. Per questo non è solo un modello di accoglienza e di inclusione rispetto alla migrazione. Ciò che vedo in atto qui, unico nel suo genere, è un interessante ‘esperimento di comunità’. Una comunità che si autoprogetta, che è aperta ed inclusiva, dinamica. Alla fine: chi avrà aiutato chi?
È quel ‘khelcom’, spirituale e immanente insieme, principio fondativo del loro agire, che trovo prezioso e generativo. Presente, sottotraccia, in tutti i progetti che Latyr mi racconta. «Vogliamo recuperare i residui della canapa che coltiviamo qui per farne dei mattoni con cui costruiremo una biblioteca. La realizzeremo in autocostruzione, ci daranno una mano degli amici architetti che seguiranno i lavori e faranno anche la formazione ai ragazzi ospiti di Casa Sankara sulle tecniche di autocostruzione». Una biblioteca? Ma è bellissimo. E dove la costruirete? «Vieni ti faccio vedere – lo seguo – abbiamo pensato di utilizzare quest’area, vicino ai moduli abitativi. Mentre su quest’altro pezzo di terreno, qui a fianco, abbiamo immaginato di realizzare un campo di calcio, perché questo posto deve essere bello, vivibile». Ottimo, ma dimmi ancora della biblioteca, come la immagini, che tipo di libri conterrà? «Ci saranno tanti libri diversi, libri africani, libri italiani. La biblioteca porterà il nome di Nicola Chiarappa, un sanseverese, emigrante in Germania. Anche lui da emigrante ha vissuto nei ghetti. Ha scritto dei libri su questo. Dopo è stato docente all’Università di Perugia». Come lo hai conosciuto? «Alcuni anni fa presentammo uno dei suoi libri, che mi aveva molto colpito, in cui raccontava le condizioni degli emigranti italiani in Germania e sembrava che stesse parlando dei ragazzi africani qui in Capitanata. Ho scoperto quel libro attraverso un amico comune, Alfonso Russi. Sai, nessuno a San Severo aveva mai parlato di Nicola Chiarappa, gli aveva mai dedicato un’iniziativa prima che lo facessimo noi. Abbiamo organizzato questo evento nel cortile della Casa di riposo di San Severo e ha partecipato tantissima gente. Ricordo un sacco di persone in piedi perché non c’era più posto. E ricordo anche il loro stupore per quell’iniziativa, si chiedevano come mai quegli stranieri sono venuti a farci conoscere un nostro figlio? La vedova di Chiarappa, che è tedesca, ci inviò altri libri del marito per ringraziarci di aver dedicato una serata a lui e ai suoi scritti. Quando realizzeremo la nostra biblioteca la intitoleremo a lui, a Nicola Chiarappa». Latyr e gli altri hanno intenzione di farne un presidio di proposte culturali, eventi, incontri, pensati non solo per i ragazzi migranti ospiti ma aperti a tutti.
Lasciamo l’area dei nuovi moduli abitativi, ci incamminiamo per tornare indietro, verso il piazzale d’ingresso, ci avviciniamo ad uno dei prefabbricati ‘storici’ di Casa Sankara, è tutto aperto, quasi vuoto, con scope e stracci qua e là, lo stanno pulendo e sistemando perché tra pochi giorni lì allestiranno un laboratorio di sartoria. «Sarà un’occasione di formazione e di produzione – mi spiega Latyr –. Pensiamo innanzitutto di formare i ragazzi che sono interessati, affinché apprendano a cucire. Ma ci sarà anche la produzione di capi, vestiti e borse in tessuto. Attorno alla sartoria creeremo delle iniziative per promuoverla e vendere le produzioni: ogni mese vorremmo organizzare un mercatino qui a Casa Sankara, aperto al pubblico, in cui non solo vendere la nostra produzione, ma ospitare anche altri artigiani dei territori qui intorno che potrebbero venire ad esporre e vendere i loro manufatti. Così il mercatino potrebbe essere più interessante e potrebbe rappresentare un momento prezioso di scambio tra la nostra comunità e il territorio. Vogliamo che la sartoria permetta a chi ci lavora di guadagnare dalla vendita di ciò che produce e che dunque possa rappresentare un’opportunità di lavoro. Nelle prossime settimane il laboratorio sarà finalmente pronto: ci sono degli amici austriaci, facenti parte di una fondazione che conoscono e seguono da alcuni anni la nostra realtà, che stanno raccogliendo delle macchine da cucire usate, da donarci per allestire la sartoria. Apriremo le iscrizioni sia per i ragazzi ospiti qui, che hanno un interesse ad impegnarsi in questo tipo di attività, sia per gli esterni. In questo modo la sartoria potrà rappresentare un luogo di lavoro e di socializzazione allo stesso tempo. Vorrei anche attivare un laboratorio di batik, che è una tecnica di disegno e decorazione su tessuto, potrebbe integrarsi molto bene con la sartoria. Lo curerei io personalmente: sai a Dakar lo facevo, avevo un laboratorio di Batik che funzionava anche molto bene, lavoravano per me e con me tanti ragazzi, c’erano molte commesse. Qualche anno fa, per un breve periodo, ne ho già tenuto uno qui a Casa Sankara».
È ora di pranzo e Latyr e Mbaye mi invitano a mangiare lì con loro: in quello spazio che sarà la sartoria recuperiamo un tavolo e delle sedie, mettiamo dei piatti e delle stoviglie di plastica. Un loro connazionale ha preparato della carne di pecora con una salsa di cipolle, ce la porta lì poco dopo, insieme a due bottiglie, una di un bel giallo squillante e l’altra di un rosso-mogano. Iniziamo a mangiare la carne: è buonissima, morbida, la salsa di cipolle (che ha dentro anche tanto altro di profumato che ignoro) le aggiunge ancora più gusto. Mi versano da bere, chiedo di cominciare dalla bevanda gialla: è succo di zenzero fatto a mano da un’altra loro amica senegalese, è veramente buono, molto dissetante e ha un gusto e un profumo singolari che non ho mai provato prima. Finisco tutto il bicchiere e passo a versarmi la bevanda rosso-mogano: è succo di karkadé, anch’esso buonissimo, particolare, molto dolce, sa di tanti fiori messi insieme, ma anche in questo caso non riesco a paragonarlo a sapori già noti, è a sé.
Usciamo fuori dal prefabbricato, accanto Latyr mi mostra un forno che hanno costruito tutti insieme, con materiale di recupero, sotto la guida di un architetto, amico di Casa Sankara. «È pronto e vogliamo farlo entrare in funzione a breve per fare il pane ed anche le pizze. Uno dei ragazzi di Casa Sankara potrebbe svolgere proprio questo lavoro, realizzando innanzitutto il pane che serve a tutta la nostra comunità quotidianamente, in modo da non doverlo più comprare come facciamo ora. Vorremmo che questo forno funzionasse non solo per gli ospiti di Casa Sankara, ma anche per gli esterni. Le persone di San Severo e degli altri paesi potrebbero venire qui a trascorrere del tempo, consumare una pizza, bere qualcosa, sedersi sotto questi alberi, fruire di questo spazio pieno di verde. E creare così un contatto concreto e reale tra noi e l’esterno».
Lo scambio dentro/fuori, questa è la chiave! dico a Latyr. La permeabilità e la connessione tra la comunità di Casa Sankara e la comunità di San Severo e le altre dei territori limitrofi, questo è un obiettivo importante che vi state dando con questi progetti e su questo dovete insistere. «Sì, questa è una cosa da coltivare: rendere Casa Sankara frequentata. Sono convinto che dobbiamo sforzarci di creare delle occasioni affinché la gente abbia un interesse, una motivazione, a venire qui».
Immagine di copertina: Il murale che raffigura Thomas Sankara, Casa Sankara, San Severo (foto di A. Manfreda)
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