Avevo un cane, si chiamava Basco, era un bastardone nero con i calzini bianchi. Lo avevo trovato una sera di gennaio, faceva freddo e lui ha cominciato a venirmi dietro senza motivo. Ho saputo poi dai miei compaesani che Basco era abbandonato, da qualche giorno girava per il paese, qualcuno gli dava da mangiare. Nonostante la mole, l’aspetto da lupo, il manto nero, non dava fastidio a nessuno. Così l’ho preso con me. E mi ha fatto compagnia per più di dodici anni. Come tutti i padroni di cani, anche io parlavo col mio, cioè mi riferivo a lui come fosse una persona e lui sembrava capirmi e assecondarmi. Sembrava. La nostra convivenza avveniva in realtà secondo regole di domesticazione antiche, ma l’impressione, per me, era quella di godere della compagnia di un amico. Un pomeriggio di primavera, però, il mio simpatico bastardone nero sentì la presenza, in una forra più in basso di dove ci trovavamo, di un gregge. In un attimo scomparve. Lo chiamai. Ma lui aveva altro da fare: dall’alto lo vidi correre a perdifiato verso il gregge, lo penetrò e lo divise in due tronconi, le pecore, terrorizzate, cercavano di stare unite, i cani pastore cercavano di radunarle ma già Basco tornava alla carica e divise ancora una volta il gregge. Stavolta alcune pecore si dispersero come schegge, fuggivano da tutte le parti nel disperato tentativo di sfuggire al lupo. Basco ne puntò una, la raggiunse e, con una manovra che mai mi sarei aspettato di vedere, la fece ruzzolare falciandola da dietro con le zampe, come fanno i calciatori, insomma, poi le fu sopra. La pecora si dibatteva talmente tanto che Basco non riuscì a trovare subito la giugulare, lei con uno scatto disperato riuscì a liberarsi e l’inseguimento riprese. Il mio cane, il mio cagnone adorato che io viziavo di ogni vizio fino a farlo dormire a letto con me, raggiunse di nuovo la preda. Stavolta, senza smettere di correre, la azzannò a una coscia e la sbatté ancora a terra. Io intanto lo chiamavo a squarciagola e correvo verso il pascolo. Quando mi vide, ormai vicino, Basco mollò la presa e mi venne incontro festoso, come se avesse fatto il suo dovere e ora venisse a riscuotere il premio dal capo branco. Probabilmente ero questo per lui, un capo branco. Io uomo, lui cane. Forse per lui la differenza era chiara, più chiara di quanto non appaia all’umanità di questi tempi.

Qualche decina di chilometri più a ovest, in Maremma, la scena che ho raccontato si è ripetuta, e si ripete migliaia di volte ormai, da anni. Ad aprile, in una drammatica riunione tenutasi a Manciano, il cui sindaco si è schierato apertamente dalla loro parte, i pastori, molti dei quali giovani, hanno denunciato la situazione insostenibile che si è creata con l’incremento incontrollato della popolazione di lupi. Molte aziende hanno chiuso i battenti, le stalle sono sempre più vuote in un distretto, che conta undici comuni della provincia di Grosseto e due della provincia di Viterbo, la cui economia è interamente basata sull’agricoltura e la pastorizia. Centottanta posti di lavoro solo nel settore caseario e migliaia di pecore uccise all'anno. Numeri che fanno paura, e che sono, a mio giudizio, (anche) il risultato di un rapporto stravolto, sovvertito con il mondo animale. La tenerezza che ispirano le nostre bestioline domestiche è comprensibile e giusta, non posso e non voglio negarlo visto che parlavo col mio cane come fosse un amico, ma dovrebbe fermarsi un attimo prima di confondere i piani, quello dei sentimenti e quello del nostro posto nel mondo. I pastori sono all’esasperazione, hanno denunciato la loro solitudine, le promesse mai mantenute, hanno detto che cominceranno a sparare, che non possono più aspettare, per loro è questione di vita e di morte. Ovviamente le associazioni ambientaliste sono insorte, convinte come sono che la convivenza tra il lupo e l’uomo sia possibile. E forse hanno ragione. Ma ancora una volta, così come è stato per i cinghiali e poi per i caprioli, mi viene in mente che il tentativo di ripopolare l’ambiente di animali selvatici non tenga conto dell’uomo, come se la nostra specie non appartenesse allo stesso ciclo. Come se la nostra specie, o almeno, una parte di essa, fosse la vera nemica della vita sulla Terra. La politica unilaterale degli ambientalisti, cavalcata con entusiasmo da enti locali, media di tutte le grandezze e dalla maggioranza, ormai inurbata, del nostro popolo, si impone come motu proprio, è vincente nella corsa all’indietro del Paese che sembra aspirare a un nuovo medioevo, chi vive di agricoltura, di allevamento, di boschi cedui, deve subire le decisioni prese a cuor leggero e con incredibile superficialità da chi non conosce il nostro lavoro, né si sforza di capirne le ragioni e la realtà. L’impressione è che l’attività agricola e di allevamento disturbi i loro weekend di meritato riposo dopo aver passato tutta la settimana dietro a una scrivania a pensare a come difendere il lupo e a come erano belli i caprioli che hanno visto sabato scorso in quel campo orrendamente coltivato vicino alla villa presa in affitto.  Ricordo che, qualche anno fa, ci fu una protesta formale sostenuta dai maggiori quotidiani nazionali, in cui un gruppo di intellettuali si lamentava perché gli agricoltori della Val d’Orcia aravano troppo. A loro dico: fate pace con voi stessi, non si possono volere i lupi e anche il pecorino.