Il Chiasmo

Marta Gerosa

Marta Gerosa, nata a Milano, ha conseguito la laurea magistrale in Psychology, Neuroscience and Human Sciences presso l’Università degli Studi di Pavia. È inoltre allieva della classe di Scienze Biomediche presso la Scuola Universitaria Superiore IUSS di Pavia e del Collegio Universitario Santa Caterina da Siena. Appassionata di neuroscienze cognitive, nella tesi magistrale ha approfondito le basi multisensoriali della capacità di riconoscimento di sé tramite la voce. I suoi principali interessi di ricerca riguardano la rappresentazione del corpo e dello spazio (e i loro relativi disturbi neuropsicologici), l’interazione corpo-mente e l’integrazione multisensoriale.

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Orologi convergenti: ritmi circadiani tra piante e uomo

Guardando una pianta sul ciglio della strada e soffermandoci poi su noi stessi, potremmo pensare di trovarci a paragonare due esseri viventi molto differenti tra loro. Certamente una pianta dovrà affrontare sfide e compiere scelte quotidiane ben diverse da quelle di un umano per garantirsi di sopravvivere. Tuttavia, la scienza sta mettendo in luce come uomini e piante siano accomunati da strategie molto simili per adattarsi alla vita su questo pianeta. A dire il vero, molti di questi meccanismi adattativi, convergenti nel loro funzionamento, ci rendono somiglianti non solo alle piante, ma alla maggior parte degli organismi viventi a diversi livelli di complessità, compresi batteri, funghi e insetti.

 

Fin dalle origini, infatti, le diverse forme di vita presenti sul pianeta Terra si sono dovute confrontare con la presenza di fluttuazioni cicliche nelle condizioni ambientali circostanti, come il succedersi del giorno e della notte, delle stagioni e delle maree. Concentriamoci per un attimo sul caso più evidente, ovvero l’alternanza di giorno e notte, dovuta alla rotazione della Terra attorno al proprio asse nell’arco di ventiquattro ore. Essa si accompagna ad una serie di variazioni ritmiche nei parametri di luce e temperatura, costituendo una vera e propria sfida ambientale per ogni organismo vivente. Senza un sistema capace di “tenere il tempo”, volto ad anticipare la periodicità di tali cambiamenti e ottimizzare di conseguenza la propria fisiologia ed il proprio comportamento, un organismo si troverebbe perciò sfavorito in quanto a sopravvivenza. In risposta a questa esigenza comune, un’immensa varietà di specie viventi, dai batteri alle piante, dagli insetti ai mammiferi, ha così evoluto un sistema di oscillatori biologici interni, il cosiddetto “orologio circadiano”, dal latino “circa diem”, ovvero “circa un giorno” o “attorno al giorno”. La regolazione della fotosintesi nelle foglie e l’apertura dei fiori nelle piante durante il corso della giornata, così come la regolazione dei processi digestivi e delle fasi di sonno-veglia nei mammiferi, sono solo alcuni dei più evidenti esempi dell’azione degli orologi circadiani nel mondo vegetale ed animale.

 

Dunque, che cosa sono e come funzionano gli “orologi circadiani”? In generale, un orologio circadiano è un meccanismo interno agli organismi, capace di produrre una stima abbastanza precisa dello scorrere del tempo, al fine di sincronizzare i processi fisiologici e i comportamenti con le variazioni cicliche nella luce ambientale. Ad esempio, grazie al funzionamento dell’orologio circadiano, gli animali notturni possono programmare la propria attività predatoria nelle ore di buio, quando una migliore sensibilità sensoriale si accompagna ad una minore competizione per il cibo. Indipendentemente dall’appartenenza dei vari organismi alle specie diurne o notturne, i ritmi circadiani promuovono una serie di processi ciclici in tempi ben precisi nell’arco delle ventiquattro ore. Le risposte scandite dall’orologio circadiano possono perdurare anche in totale autosufficienza in condizioni di cosiddetta “corsa libera”, ovvero con parametri di buio e temperatura costante. Tuttavia, per ottenere una maggiore efficienza, l’orologio circadiano ha bisogno di sincronizzarsi con il periodo di rotazione terrestre, basandosi su specifici segnali ambientali detti Zeitgeber, dal termine tedesco “segnatempo”, come i cicli di luce e buio.

 

Sebbene sia stato evidenziato come la genetica alla base degli orologi circadiani in diversi organismi sia differente o presenti soltanto una minima conservazione, al contrario il loro sistema di funzionamento, e quindi il meccanismo per dettare il tempo, è incredibilmente simile, costituendo così uno strabiliante caso di convergenza tra le più disparate specie viventi sul pianeta Terra. In un modello semplificato di funzionamento dell’orologio circadiano si possono infatti trovare tre elementi distinti. In primo luogo, un elemento di input, capace di percepire i segnali che sincronizzano l'orologio endogeno con l'ambiente esterno. In secondo luogo, un "oscillatore" centrale, la cui attività e quantità "oscilla", ovvero cambia nell'arco della giornata, in risposta all'elemento di input. Infine, un elemento di output, che leghi i cambiamenti dell'oscillatore a diversi processi biologici, come il ritmo sonno-veglia nell'uomo o l'apertura e chiusura dei fiori nelle piante. Grazie a questo meccanismo condiviso, l’orologio circadiano può scandire endogenamente una serie di ritmi fisiologici e comportamentali che, pur perdurando anche in assenza di evidenti Zeitgeber, sono comunque adattabili ad una sincronizzazione ottimale con stimoli provenienti dall’ambiente esterno. A questo punto, possiamo comprendere quanto le convergenze nel funzionamento degli orologi circadiani in esseri viventi anche molto diversi fra loro abbia affascinato, e continui ancora oggi ad interrogare e stupire, gli scienziati di tutto il mondo.

 

L’intuizione che diversi organismi viventi siano in grado di adattare la propria fisiologia e il proprio comportamento alla ritmica alternanza delle fasi del giorno è infatti frutto di una tradizione scientifica secolare. Già nel 1729, l’astronomo francese Jean Jacques d'Ortous de Mairan (1668-1771) condusse una serie di osservazioni scientifiche sulla Mimosa pudica, uno straordinario esempio di pianta le cui foglie si chiudono di notte e si aprono durante il giorno. Affascinato da questo comportamento, Mairan collocò una pianta di mimosa in condizioni di buio costante e, sorprendentemente, riscontrò che per diversi giorni le foglie continuavano ad aprirsi e chiudersi ritmicamente nel momento appropriato della giornata. Queste osservazioni suggerirono la presenza di un meccanismo di natura endogena, interno alla pianta, capace di guidare il movimento ritmico giornaliero delle foglie. Oggi sappiamo che tale meccanismo corrisponde all'orologio circadiano, per cui le osservazioni dell'astronomo Mairan nelle piante hanno costituito un imprescindibile punto di partenza per la ricerca in questo settore.

 

Tuttavia, è solo con la seconda metà del Novecento che si è assistito ad un reale progresso nel campo della cronobiologia, la disciplina dedicata allo studio dei ritmi biologici e, in particolare, delle basi genetiche, molecolari e fisiologiche dell’orologio circadiano nelle varie specie viventi. L’importanza di tale disciplina è stata infine sancita nel 2017, con l’attribuzione del premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia al trio di genetisti Jeff Hall, Michael Rosbash e Michael Young, “per le loro scoperte sui meccanismi molecolari che controllano i ritmi circadiani”, effettuate nel sistema modello Drosophila melanogaster, il comune moscerino della frutta.

 

Cosa rende lo studio della cronobiologia così rilevante, al punto da meritare il Nobel? Guardando al mondo delle piante, un concreto esempio dell’importanza dei ritmi circadiani è stato evidenziato già nel 2005 da uno studio pubblicato da Antony Dodd e collaboratori sulla prestigiosa rivista Science. Lavorando con la pianta modello Arabidopsis thaliana, gli scienziati hanno dimostrato che piante con un orologio circadiano perfettamente allineato con l’ambiente circostante sono più produttive: crescono maggiormente accumulando più biomassa, hanno un contenuto maggiore di clorofilla, il pigmento necessario per la fotosintesi, fissano più carbonio e sono più competitive, sopravvivendo meglio rispetto a piante con un orologio interno non sincronizzato con l'ambiente. Questi studi sono stati effettuati analizzando in parallelo piante selvatiche e piante le cui basi genetiche dell'orologio circadiano sono alterate, tali per cui l'orologio risulta essere settato per un ciclo giorno-notte superiore o inferiore alle 24 ore. Mentre le piante selvatiche mostrano una maggior produttività se tenute in condizioni di 12 ore di luce e 12 di oscurità e crescono meno se esposte a giornate di lunghezza alterata, al contrario piante ad esempio con un ritmo circadiano allungato si trovano svantaggiate nella classica giornata di 24 ore e si sviluppano maggiormente in cicli di 14 ore di giorno e 14 di notte. Tale lavoro condotto sulle piante ha dunque portato in luce l'importanza della risonanza circadiana, ovvero la corrispondenza tra l'orologio interno e i cicli giorno-notte esterni, suggerendo inoltre il vantaggio che questa possa conferire anche in altri esseri viventi, incluso l'uomo.

 

Parallelamente, anche negli esseri umani l’orologio circadiano ricopre un ruolo cruciale in molti aspetti ritmici della nostra fisiologia, i più evidenti dei quali sono l’alternanza veglia-sonno, la regolazione della temperatura corporea ed il rilascio di ormoni. Questo è possibile grazie alla presenza di un orologio circadiano centrale, collocato nel nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo - un’area profonda del cervello adibita alla regolazione delle funzioni vegetative - che agisce in parallelo a numerosi orologi circadiani “periferici”, disposti in specifici organi e tessuti. Grazie a questa dinamica concertazione di orologi circadiani multipli, precisamente allineati fra loro, il nostro organismo è in grado di mantenere uno stato di salute ottimale, come evidenziato da Joseph Bass e Mitchell A. Lazar, in una revisione della letteratura pubblicata nel 2016 su Science. In laboratorio, è infatti possibile simulare gli effetti combinati di una prolungata deprivazione di sonno e di un’interruzione dei ritmi circadiani, adattando le persone a giornate di 28 ore. Il disallineamento così indotto nei ritmi circadiani si è rivelato associato a gravi conseguenze metaboliche, come un aumento di glucosio nel sangue ed un ridotto autocontrollo nell'assunzione di cibo, incrementando il conseguente rischio di diabete ed obesità. Simili conclusioni sono state raggiunte da studi epidemiologici su popolazioni soggette a desincronizzazione cronica dei ritmi circadiani, tra cui piloti di aereo e lavoratori a turni, specialmente notturni. Tali professioni sono infatti associate ad un aumentato rischio cardiovascolare (ad esempio, ipertensione arteriosa, infarto ed ictus) e neoplastico, specialmente riferibile al tumore alla mammella. Infine, la disregolazione cronica dell’orologio circadiano ha importanti ricadute sul funzionamento cognitivo ed emotivo, aggravando problemi di concentrazione e memoria ed aumentando l’incidenza di disturbi depressivi e d’ansia.

 

Finora abbiamo considerato come gli orologi circadiani siano un affascinante esempio di convergenza fra organismi anche molto distanti fra loro e come il loro corretto funzionamento, sia nelle piante sia nell'uomo, risulti fondamentale per garantire non solo la sopravvivenza, ma anche maggior produttività e condizioni di salute ottimali. Di conseguenza, molte sono le prospettive future della cronobiologia, con affascinanti e ambiziosi obiettivi. Nel campo vegetale, sta divenendo di grande interesse scientifico la pratica della “cronocoltura”, che incorporerebbe la biologia degli orologi circadiani nell'agricoltura, ad esempio programmando gli interventi agricoli nel momento della giornata in cui questi siano più efficaci, oppure, grazie all'ingegneria genetica, alterando l'orologio circadiano delle colture per renderle più adatte a crescere a specifiche latitudini e in condizioni meno ottimali, potenziando la produttività. In parallelo, nel campo della medicina di precisione, sta emergendo la pratica della “cronofarmacologia”, con l'obiettivo di applicare le conoscenze sui ritmi circadiani alla diagnosi e al trattamento di numerose malattie. In futuro, i tempi di somministrazione di alcuni farmaci, come quelli chemioterapici o per l’ipertensione, potrebbero essere regolati nel rispetto delle fasi dell’orologio biologico del paziente, per migliorare l'efficacia del trattamento e minimizzare eventuali effetti indesiderati.

 

Dunque, la prossima volta che il nostro sguardo si soffermerà su quella pianta a lato della strada potremo realizzare che noi umani non siamo poi così diversi da essa. Anzi, alcune delle strategie che abbiamo adottato per vivere convergono sorprendentemente. Le lancette del nostro orologio biologico risuonano all’unisono con quelle delle piante e di molti altri organismi viventi: sul pianeta Terra, in fondo, è tutta una questione di ritmi e sincronie.

 

 

Per saperne di più:

Per approfondire i meccanismi di funzionamento degli orologi circadiani e le loro possibili alterazioni, con un particolare focus sulla fisiologia umana, si consiglia la lettura del volume Gufi o allodole? Cosa sono e come funzionano gli orologi circadiani di R. Costa e S. Montagnese, edito Il Mulino (2020). Una altrettanto valida panoramica sulle caratteristiche degli orologi biologici circadiani in diversi organismi modello, a cura di R. Costa, è consultabile nella versione online dell’Enciclopedia della Scienza e della Tecnica (2007) Treccani©, alla voce “Orologi biologici circadiani”.

 

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Voci senza volto

Pensa all’ultima telefonata che hai ricevuto. Forse hai risposto in maniera frettolosa, senza prestare attenzione al numero in entrata. Tuttavia, ti saranno bastate poche parole, persino poche sillabe, per decidere se la voce dall’altro capo della cornetta fosse a te conosciuta, associandovi poi un’identità precisa, un nome ed un volto. La capacità di stabilire chi stia parlando, basandosi soltanto sul canale uditivo, è una delle abilità cognitive più complesse di cui noi esseri umani siamo dotati. In effetti, gran parte delle nostre giornate è spesa ad ascoltare le voci di altre persone, molto più che qualsiasi altra categoria di suoni – naturali o artificiali – presenti nell’ambiente. Per questo motivo, il nostro sistema uditivo si è progressivamente specializzato nell’elaborare le vocalizzazioni di altri individui, conferendo loro uno statuto speciale rispetto ad altri stimoli sonori.

Ogniqualvolta ascoltiamo un’altra persona parlare – specialmente se non abbiamo accesso al canale visivo, come durante una telefonata o una registrazione audio – il nostro cervello non è unicamente impegnato nel comprendere cosa ci stia dicendo in termini di contenuto verbale. Notevoli risorse cerebrali vengono destinate, infatti, ad estrarre dalla voce indizi aggiuntivi riguardo al nostro interlocutore. Grazie alla grande varietà di informazioni paralinguistiche che la voce umana è in grado di racchiudere nella sua struttura acustica, ad esempio, potremmo intuire quale emozione stia provando questa persona, quale sia approssimativamente la sua età e struttura corporea, e, infine, quale sia la sua identità – nel caso in cui sia a noi nota. 

In questa prospettiva, il neuroscienziato Pascal Belin, docente all’Università di Aix-Marseille e uno dei massimi esperti riguardo la percezione delle voci, ha più volte definito la voce umana come una auditory face, ovvero una "faccia uditiva" che ci aiuta a navigare nel complesso mondo delle interazioni sociali, fornendoci informazioni rilevanti sulla persona con cui ci stiamo relazionando. 

Come fa dunque il nostro cervello a riconoscere l’identità di chi sta parlando, specialmente in assenza di informazioni da altre modalità sensoriali? Il primo passaggio è stabilire che un segnale uditivo sia la voce di un altro individuo e non, ad esempio, il verso di un animale o il rumore della pioggia. Questa classificazione avviene grazie ad alcune popolazioni di neuroni altamente specializzati che si attivano solo alla presenza delle caratteristiche acustiche della voce umana, distinguendola così dagli altri suoni ambientali. Tali neuroni costituiscono le cosiddette "aree temporali della voce" (Temporal Voice Areas in inglese), collocate nel giro e solco temporale superiore di entrambi gli emisferi cerebrali. Il lobo temporale, che si estende lungo la parte laterale inferiore della corteccia cerebrale, è, infatti, in una posizione strategica per ricevere i segnali uditivi dalle orecchie, ricoprendo un ruolo cruciale nell’elaborazione di varie categorie di suoni, tra cui le voci umane.

Dopo questa prima fase, i circuiti neurali per la percezione delle voci umane si differenziano in base alla tipologia di informazione che deve essere estratta. In particolare, circuiti parzialmente indipendenti si occupano di elaborare il contenuto linguistico o emotivo delle voci, oppure di estrapolare le informazioni legate all’identità delle voci. Cosa avviene concretamente all’interno di quest’ultimo circuito? L’ipotesi più accreditata è che il segnale vocale in entrata sia confrontato con una "voce prototipo" in memoria, la quale corrisponde ad un’approssimazione media di tutte le voci, maschili o femminili, incontrate nel corso della vita. Calcolando, poi, quanto le caratteristiche acustiche del segnale vocale si discostino da quelle del prototipo, è possibile stabilire se esso coincida con un’identità precedentemente nota o meno. In caso affermativo, si potrà procedere nell’associare la voce familiare ad altre informazioni disponibili riguardo l’interlocutore, come il nome, il volto e la professione. In caso negativo, invece, l’esposizione ripetuta alla voce sconosciuta consentirà di sviluppare un modello di riferimento per quella identità, che verrà conservato in memoria per future interazioni. 

Nonostante la complessità di questi processi neurali, le varie fasi del riconoscimento delle voci si succedono in tempi molto ridotti. Mediante la tecnica della elettroencefalografia, che consente di registrare l’attività elettrica cerebrale con grande precisione temporale, è stato possibile scoprire come ci bastino circa 200-250 millisecondi per determinare se una voce sia familiare o meno, mentre servirebbero attorno ai 290-370 millisecondi per riconoscere l’identità precisa di una voce. È grazie all’estrema rapidità di questi meccanismi cerebrali che possiamo determinare dopo poche sillabe che la persona dall’altro capo della telefonata è un nostro amico e non, ad esempio, il vicino di casa o un perfetto sconosciuto. 

A quanto descritto finora, l’identificazione di persone familiari a partire dalla voce sembrerebbe essere una capacità universalmente condivisa, attuata in modo rapido ed efficiente dal nostro sistema nervoso. Tuttavia, in alcune rare circostanze, tale abilità può risultare compromessa: si tratta del caso della fonoagnosia o "voice blindness" (letteralmente "cecità alle voci"), un disturbo selettivo dell’elaborazione delle voci umane in modalità uditiva, il quale può essere presente in forma congenita, cioè fin dalla nascita, oppure manifestarsi in età adulta a seguito di danno cerebrale, come nel caso di un ictus o di una malattia neurodegenerativa. I pazienti che soffrono di fonoagnosia non sono perciò in grado di riconoscere l’identità di persone note – siano esse parenti, amici o personaggi famosi – a partire dalla loro voce e/o di determinare se due stimoli vocali, presentati in sequenza, appartengano alla stessa persona o a persone differenti. Nei casi più gravi, i pazienti fonoagnosici arrivano a non riconoscere la voce dei propri figli o del proprio partner, oppure non riescono a distinguere tra le voci di persone differenti durante una conversazione. Eppure, in altre circostanze, questi pazienti dimostrano di sentirci benissimo: il loro udito è nella norma, così come la loro capacità di identificare altri suoni ambientali o musicali. 

Il primo caso documentato di un paziente con fonoagnosia acquisita, ovvero derivante da un danno cerebrale in età adulta, fu riportato nel 1981 da un gruppo di ricerca guidato dal neurochirurgo Par G. Assal. Essi descrissero il profilo del paziente RB, un direttore amministrativo di 45 anni che, a seguito di una malattia cerebrovascolare, mostrava consistenti difficoltà nel riconoscere voci precedentemente familiari e nel discriminare tra vocalizzazioni appartenenti alla stessa persona o meno. Al contrario, la capacità di RB nell’identificare le stesse persone dai volti era intatta. Questa evidenza suggerì come il riconoscimento di persone familiari nelle due modalità – uditiva e visiva – sia basato su meccanismi cerebrali almeno in parte indipendenti, che possono risultare compromessi l’uno separatamente dall’altro. Considerato che all’origine del disturbo di RB vi era un’estesa lesione bilaterale nella regione temporale anteriore, per la prima volta Assal e colleghi ipotizzarono un ruolo chiave del lobo temporale nell’elaborazione delle identità vocali. 

Nonostante questo precedente caso, il termine "fonoagnosia" (phonagnosia in originale, dall’unione di φωνή e ἀγνωσία, rispettivamente "voce" e "assenza di conoscenza") fu ufficialmente coniato solo l’anno successivo, il 1982, da Diana Van Lancker e Gerald J. Canter, ricercatori presso la Northwestern University (USA). In uno studio pubblicato sulla rivista Brain and Cognition, gli autori dimostrarono come i disturbi del riconoscimento di voci e volti familiari, rispettivamente la fonoagnosia e la prosopagnosia (da πρόσωπον, "faccia", e ἀγνωσία, vedi sopra), occorressero con maggiore probabilità nei pazienti che avevano subito una lesione cerebrale localizzata nell’emisfero destro, rispetto a quello sinistro. In particolare, il 44.4% degli individui con danno cerebrale destro esibiva serie difficoltà nell’identificare correttamente le voci di personaggi famosi, contro solo il 4.8% del gruppo con danno cerebrale sinistro. Durante il corso degli anni ’80, Diana Van Lancker e colleghi continuarono ad accumulare evidenze di questa associazione fra fonoagnosia ed emisfero destro, documentando numerosi casi di pazienti fonoagnosici con lesioni collocate soprattutto nel lobo parietale e temporale destro. 

Tuttavia, solo in anni più recenti la comunità scientifica ha riscontrato come i disturbi del riconoscimento delle voci possono essere presenti anche fin dalla nascita, in assenza di un danno cerebrale manifesto. In questo caso si parla di fonoagnosia congenita, ovvero di un disturbo del neurosviluppo che, durante tutto il corso della vita, rende difficoltoso riconoscere o distinguere altri individui a partire dalla voce. Secondo un’indagine di Shilowich & Biederman (2016), la sua prevalenza nella popolazione generale potrebbe raggiungere il 3.2%. 

La fonoagnosia congenita è stata documentata per la prima volta nel 2009 da Lúcia Garrido e colleghi dell'University College of London (UK). Essi descrissero il caso di KH, una donna di 60 anni che riportava fin dall’infanzia estreme difficoltà nel riconoscere le voci, anche quelle più familiari, come la propria figlia. Questo disturbo rappresentava per KH una fonte di grande disagio nelle interazioni sociali, al punto che quest’ultima evitava di rispondere al telefono, a meno che non si trattasse di chiamate ad orari prestabiliti con amici e parenti. Tramite un’estesa serie di test, Garrido e colleghi dimostrarono come KH fosse realmente impossibilitata nell’identificare le voci di personaggi famosi, così come nel riconoscere nuove identità vocali dopo una breve fase di apprendimento. Al contrario, la donna non esibiva alcuna difficoltà nelle equivalenti prove di riconoscimento dei volti in modalità visiva. Inoltre, KH non pareva soffrire di un generale disturbo uditivo, in quanto era in grado sia di riconoscere altre tipologie di suoni musicali e naturali (es. versi di animale, applausi), sia di estrapolare dalle voci informazioni riguardo lo stato affettivo e l’età dell’interlocutore. Di conseguenza, il deficit di KH si confermò essere genuinamente legato al riconoscimento delle identità vocali, avvalorando così l’esistenza di una forma di fonoagnosia congenita, dovuta ad un alterato sviluppo dei circuiti neurali che supportano tale capacità. 

In conclusione, nonostante la fonoagnosia sia un disturbo ancora poco conosciuto, soprattutto se paragonato al suo analogo visivo (la prosopagnosia), il suo studio è di cruciale importanza. Infatti, indagare cosa avviene nel cervello umano quando la capacità di riconoscimento di voci familiari è danneggiata ci consente di chiarire i processi neurali implicati in questa capacità in condizioni di funzionamento normale. La prossima volta che risponderai al telefono, dunque, prova ad assaporare l’istante in cui un semplice "ciao" dall’altra parte della cornetta non ti rimane estraneo, ma riesce a colorarsi di un’identità, di un nome ed un volto. Per una persona fonoagnosica, questo scenario non è poi tanto scontato. 

 

Per saperne di più:

Per un’introduzione generale alle agnosie, ovvero i disturbi del riconoscimento nelle modalità visiva, uditiva e tattile, si consiglia la lettura del capitolo a cura di Bartolomeo, P., & Migliaccio, R. (2011). I disturbi del riconoscimento: le agnosie. In G. Vallar, & C. Papagno (Edd.), Manuale di Neuropsicologia (pagg. 229-248). Bologna: Il Mulino. 

Per approfondire aspetti specifici sulla capacità di percezione delle voci e sui casi di fonoagnosia, è possibile fare riferimento ai seguenti articoli scientifici: 

Belin, P., Bestelmeyer, P. E., Latinus, M., & Watson, R. (2011). Understanding voice perception. British Journal of Psychology102(4), 711-725. https://doi.org/10.1111/j.2044-8295.2011.02041.x

Garrido, L., Eisner, F., McGettigan, C., Stewart, L., Sauter, D., Hanley, J. R., ... & Duchaine, B. (2009). Developmental phonagnosia: a selective deficit of vocal identity recognition. Neuropsychologia47(1), 123-131. https://doi.org/10.1016/j.neuropsychologia.2008.08.003

Maguinness, C., Roswandowitz, C., & von Kriegstein, K. (2018). Understanding the mechanisms of familiar voice-identity recognition in the human brain. Neuropsychologia116, 179-193. https://doi.org/10.1016/j.neuropsychologia.2018.03.039

Roswandowitz, C., Maguinness, C., & von Kriegstein, K. (2018). Deficits in Voice-Identity Processing Acquired and Developmental Phonagnosia. In P. Belin, & S. Fruehholz (Eds.), Oxford Handbook of Voice Perception. Oxford: Oxford University Press. https://doi.org/10.1093/oxfordhb/9780198743187.013.39

Van Lancker, D. R., & Canter, G. J. (1982). Impairment of voice and face recognition in patients with hemispheric damage. Brain and cognition1(2), 185-195. https://doi.org/10.1016/0278-2626(82)90016-1

 

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