Il Chiasmo

Biagio Mazzella

Redattore (novembre 2021 - in corso)

Biagio Mazzella, cresciuto tra Procida e Napoli, è allievo del Collegio Superiore dell’università Alma Mater Studiorum di Bologna ed è iscritto al corso magistrale in Scienze Filosofiche. Ha conseguito la laurea triennale in Filosofia presso lo stesso ateneo con una tesi in bioetica dedicata al pensiero di Donna Haraway e alle sue possibili intersezioni con la teoria queer nelle sue correnti antisociali (Edelman) e utopiche (Muñoz). Ha frequentato il modulo Scienze del Master in Studi e Politiche di Genere dell’Università degli Studi Roma Tre, con cui attualmente collabora. Si interessa di femminismo, teoria queer, postumanesimo critico e storia delle sessualità.

Pubblicazioni
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Perfect places. Conversazione con Vincenzo Latronico

 

Antonio Caronia definiva quella tecnologica «l'unica rivoluzione riuscita del Ventesimo secolo», constatazione che a suo dire avrebbe dovuto spingere a usare con più pudore la parola "rivoluzione". Più spudorato di quanto si augurasse il teorico fantascientifico ma non per questo su una dissimile lunghezza d'onda, Vincenzo Latronico sembra intrattenere con questo termine una lunga storia di disamore. Questo campeggia infatti nel titolo del suo esordio Ginnastica e rivoluzione – testo che Latronico, quando nei nostri primi scambi di battute al telefono gli comunico con entusiasmo di aver recuperato i suoi libri meno recenti, si preoccupa con apprensione di assicurarsi che io non abbia letto («Dimmi che non hai letto anche il primo, del primo non parlo: non lo ricordo! Non lo leggo da 14 anni») – oltre che nel suo tanto agile quanto centrato saggio La rivoluzione è in pausa, edito in digitale lo scorso aprile per la collana dei Quanti Einaudi.

Tra questi due estremi bibliografici, oltre a 14 anni di scrittura, riscrittura (più propriamente detta traduzione) e non scrittura, risalta anche un prepotente e delicato ritorno alla narrazione dopo un lungo periodo di latitanza editoriale e di diserzione clandestina dalla letteratura italiana. In questo «romanzo non romanzato» che è Le perfezioni (Bompiani, 2022), per appropriarci di una definizione che Théodore de Banville adottava per L'educazione sentimentale di Flaubert, Latronico tenta di restituire un'immagine il più possibile a fuoco di quel «presente continuo» in cui secondo Douglas Rushkoff siamo immersi (o evaporati) a tempo indeterminato.

Se Georges Perec, di cui Latronico riesce a essere discepolo senza essere epigono, scriveva ne Le cose di come Jérôme e Sylvie sapessero che «a trent’anni si ha il dovere di essere arrivati oppure non si è niente», Anna e Tom, protagonisti de Le perfezioni, hanno invece ben presente, così come una buona fetta della loro generazione, che non è sufficiente essere e mostrarsi arrivati (a prescindere da dove si fosse diretti) per dirsi certi di non essere niente. Condurre una vita che rasenta le perfezioni implica un'accettazione rassegnata e al tempo stesso rassicurante del suo andamento asintotico, così come scriverne implica scivolare  lungo questa curva a velocità via via più ridotta in cerca di una risposta a una delle domande retoriche che si poneva Lorde in quell'album del futuro che è stato Melodrama: «What the fuck are perfect places anyway?».

 

Biagio Mazzella: In una vecchia presentazione de La cospirazione delle colombe, ripensando al tuo primo romanzo lo definivi un libro “vittima dell’illusione per cui più sei complicato e più sembri intelligente”. Le perfezioni sembra effettivamente un romanzo molto intelligente e del resto, come insegna il libro stesso, le immagini sono sempre più potenti della realtà a cui si propongono di restare fedeli. Partendo dalla genesi del testo, ho trovato che la scelta di Perec e Le cose come punto di partenza e riferimento costante si confacesse molto al tuo stile di scrittura. Mi interesserebbe quindi sapere in che modo fosse arrivato l'incontro con un simile interlocutore, anche in relazione al tuo piuttosto lungo periodo di hiatus dalla scrittura.

Vincenzo Latronico: In effetti lo iato nella scrittura e l’uscirsene con questo modello sono due cose legate. Dopo aver scritto La mentalità dell’alveare, che come temperatura stilistica, come idee e come visione è esattamente dov’era La cospirazione delle colombe, ho avuto una sorta di grande disinnamoramento per la scrittura narrativa. Mi sembrava stanca; non quella degli altri, però la mia. Mi sembrava poco interessante mettermi a creare tutto quel vasto macchinario in cui tu devi descrivere una stanza, i tappeti nella stanza, gli odori che ci sono, la voce delle persone… mi sembrava troppa fatica per poi andare a comunicare qualche cosa, non lo trovavo un metodo efficace. 

In realtà io ho sempre scritto, ma ho passato moltissimi anni cercando una sorta di Sacro Graal del romanzo-saggio: volevo trovare un modo di raccontare una storia di finzione (perché è questo che io faccio e che voglio continuare a fare), ma quasi come se fosse un saggio. Non so bene cosa stessi cercando, ho fatto un sacco di esperimenti, tutti più o meno fallimentari, dopo i quali mi scoraggiavo, non scrivevo più per un anno e poi ricominciavo.

E allo stesso tempo però sapevo una cosa: volevo raccontare una storia che avesse molto a che fare con la tecnologia digitale e come sono cambiate le nostre vite con l’introduzione di queste tecnologie. Secondo me non è un caso che le due cose andavano di pari passo perché mi sembra che l’armamentario del romanzo tradizionale si presti abbastanza poco a raccontare gli scambi su Whatsapp o le chat su Grindr, queste robe qua passano un po’ tra le maglie della narrazione balzachiana. Mi sembrava quindi che le due cose potessero andare insieme: ci ho provato tanto e non ce l’ho veramente fatta finché a un certo punto ho trovato il libro di Perec che ho letto tardi, la prima volta nel 2017 e l’ho poi ripreso in mano nel 2019 quando ho deciso di cominciare a lavorare a questo libro. Ma già la prima volta che ho letto Le cose mi sono trovato a prendere appunti, a dire: “questo è esattamente come nella mia vita e nella vita delle persone che conosco”.

Riprendendo poi quegli appunti mi sono reso conto di un’altra cosa: Perec riesce a oltrepassare completamente il problema del romanzo-saggio. Il suo chiaramente non è né un romanzo né un saggio. È molto difficile dire che cos’è: stilisticamente sembra saggistico, però è chiaramente un’opera di finzione. In realtà racconta una storia, anche se la racconta obliquamente, di nascosto quasi. Non te la fa davvero vedere, però ti rendi conto che succede. Ci ho quindi trovato quella che mi sembrava essere una via d’uscita da questa impasse.

 

BM: In seguito alla clamorosa ricezione del suo romanzo Perec si trovò a precisare: «Coloro che hanno immaginato che condannassi la società dei consumi non hanno capito nulla del mio libro». La generazione dei millennial dal tuo romanzo ne esce abbastanza sbeffeggiata, eppure è evidente che non si tratta di semplice biasimo: ciò che sembri muovere consapevolmente è piuttosto una critica interna. Più che una condanna è forse l’analisi di una sconfitta?

VL: L’espressione “critica interna” mi piace molto, perché è esattamente questa l’idea. Voglio fare una premessa: secondo me Perec ha mentito. Nel suo libro si legge una distanza molto profonda dai personaggi di cui parla e un atteggiamento effettivamente giudicante in certi punti. Ed è evidente: Perec aveva studiato con Barthes, quell’atteggiamento giudicante veniva da lì ed era quello il modo in cui si parlava del consumismo all’epoca, basti pensare a La società dei consumi, che è uscito proprio in quel periodo. Volendo Perec aveva un atteggiamento etnografico, ma la sua non era un’osservazione partecipata. E in fondo lui aveva una diagnosi: queste persone sono condannate a essere infelici perché sono vittime del capitalismo consumista. Nel mio caso nessuno, a parte Walter Siti in un messaggio privato, l’ha vista veramente come una condanna, ed è perché in realtà non lo è.

Innanzitutto, io mi rivedo completamente nell’orizzonte emotivo e intellettuale di questi personaggi, e in secondo luogo in fondo quello che cerco di dire, se di diagnosi si vuole parlare, non è: “loro sono felici o infelici per questa ragione”, ma è: “all’interno del loro orizzonte di idee, che è anche il mio, è impossibile capire se quella felicità è quella vera”. Se vuoi è un po’ una questione trascendentale: non ci sono le condizioni di possibilità per definire la felicità se non nel modo in cui è definita da dentro, e quindi loro alla fine sono felici e noi dobbiamo in qualche modo prendere per buona questa dichiarazione. Resta questo senso di insoddisfazione che proviamo tutti noi quando vediamo le foto che abbiamo pubblicato sul nostro profilo di dating o le foto del mare di due anni fa e ci rendiamo conto che la realtà è molto meno seducente di quella che noi stessi proiettiamo. E questa minima sensazione di inautenticità ci fa sentire male, però non possiamo farci la tara, è lì. Da questo punto di vista mi sembra che la differenza rispetto al racconto di Perec è che io racconto da dentro: metà delle cose che nomino sono successe a me.

 

BM: Ne Le perfezioni si ricalca l’uso di un diverso tempo verbale per capitolo in maniera simile a quanto fa Perec, con ulteriori livelli di lettura resi possibili dall'italiano (come il lavorare da remoto o il gioco di parole con il titolo stesso). Rispetto agli escamotage verbali utilizzati ne Le cose però nel tuo romanzo manca il condizionale. È stata una scelta consapevole?

VL: Lì ad esempio secondo me nell’uso del condizionale si vede un distaccamento di Perec dai suoi personaggi. In realtà ho sperimentato un po’ con il condizionale ma alla fine mi sembrava che ci fosse un giudizio implicito nella scelta di questa forma verbale che non volevo dare.

 

BM: E d’altra parte, ritornando alla questione dello sguardo interno ed esterno, all’epoca di Perec i personaggi erano psicosociologi e indagavano realtà diverse dalla loro, mentre nel capitalismo della sorveglianza quest'esigenza non c'è più e la professione stessa non ha più senso di esistere. Una descrizione dei millennial data da uno che non vi fa parte ma che vi sta a stretto contatto, anche semplicemente per motivi sentimentali, la faceva Bret Easton Ellis in Bianco: riferendosi al suo compagno più giovane, la definiva una generazione più di esteti che di artisti, caratterizzata più da una smania di collezionare che dal desiderio di un creare attivamente. Questa descrizione si può rifare anche all'uso personale che tu fai dei social, più da spettatore o consumatore che da attore o produttore? 

VL: Questa è stata una mia scelta molto precisa: prima ero molto attivo su Facebook, poi quando è apparsa inevitabile la migrazione, almeno del mio settore e della mia generazione, su Instagram ho voluto cogliere quell’occasione per dire “Mi cancello” e ho cancellato tutti i miei post. Io poi sono veramente portato alla dipendenza e quindi mi rendevo conto che questo era un treno che potevo prendere per salvare varie ore delle mie giornate, che comunque adesso passo su Twitter.

In realtà il nostro mondo – dico “nostro” in senso generazionale ma non solo – è determinato dai social anche se non li usiamo. Sono sicuro che se tu adesso scendi di casa e vai in tre bar, quei tre bar avranno molto probabilmente un’estetica determinata da cose che succedono su Instagram; se apriamo i giornali vediamo le dimissioni di Boris Johnson, che è salito al governo sulla promessa della Brexit, una cosa che senza un certo tipo di propaganda possibile soltanto sui social non sarebbe successa. Noi viviamo in un orizzonte comunque determinato da questa dimensione a prescindere che ne facciamo parte o meno. Ed è questo che mi interessava, forse di più di quanto ti accade individualmente quando sei molto preso da una lite su Twitter, perché secondo me questo è qualcosa che in qualche modo definisce un’epoca, mentre l’uso di un certo social o di un altro definisce magari una persona. Se avessi voluto fare un romanzo se vuoi più tradizionale, con dei personaggi definiti individualmente, di sicuro avrei parlato del loro uso dei social, ma in questo caso no.

 

BM: E infatti penso che non solo in questo romanzo ma nella tua intera produzione c’è un uso dell’individualità molto particolare. Le perfezioni è un romanzo alla terza persona plurale, dimensione che avevi già sperimentato seppur in maniera meno rarefatta con La mentalità dell’alveare, ne La cospirazione delle colombe c’era un io che era più narratore che personaggio, che si infiltrava nella narrazione senza mai esserne il vero protagonista, e anche il primo romanzo era alla prima persona plurale più che singolare poiché esplorava le sfide dell’avere vent’anni e del cercare una propria identità nella collettività. È una scelta che ha a che fare anche con un risvolto politico? 

VL: Sai che mi fa veramente ridere questa cosa perché io non avevo messo a fuoco di aver scritto un romanzo in terza persona plurale, questa è la prima volta che me ne rendo conto. È interessante, questo collegamento io non l’avevo fatto però sì, lo ha in una certa misura. E questo penso sia qualcosa che in effetti è presente in tutti i miei romanzi, anche nel mefitico primo, nonostante l’evoluzione. È una cosa politico-letteraria: io sono abbastanza diffidente nei confronti del romanzo classico, del romanzo come canonizzato soprattutto ultimamente da un certo tipo di corsi di scrittura creativa, perché penso che sia una forma che, come tutte le forme, si porta una sua ideologia implicita ed è più adatta a raccontare alcune storie e meno adatta a raccontarne altre.

C’è tutta una tesi, che in parte è una teoria del complotto e in parte no, secondo cui la prima scuola di scrittura creativa, l’Iowa Writers' Workshop, e il suo successo sono in realtà frutto di alcuni fondi dati dalla CIA per promuovere il romanzo individualista hemingwayano contro il romanzo collettivista dospassosiano. Come teoria mi sembra un po’ esagerata, però, che sia vero o no che c’erano dietro la CIA e questo progetto esplicito, secondo me è una cosa che è successa.

Ad esempio tutte le storie che hanno un orizzonte collettivo sono veramente molto difficili da raccontare. Se noi dobbiamo immaginare come raccontare una manifestazione popolare di massa come quella raccontata da Dos Passos in seguito al caso di Sacco e Vanzetti noi possiamo immaginare di raccontarla soltanto attraverso la prospettiva di una persona che vi partecipa. Questo tipo di romanzo manca del lessico per farlo e questa è una cosa che mi ha sempre molto infastidito perché io sin dall’inizio ho cominciato a scrivere volendo anche scrivere di battaglie politiche di cui facevo parte. È per questo che sia nel primo romanzo che nel secondo io faccio un po’ di confusione con l’identità del narratore e la sua affidabilità, nel secondo romanzo addirittura in teoria ci metto una contraddizione perché c’è un narratore che è sia dentro che fuori, una cosa che non potrebbe essere possibile. E La mentalità dell’alveare in fondo già mostra, almeno a mio parere, una tendenza verso il romanzo-saggio: è nata come un esempio che io facevo in una lettera a un mio amico per dire che il Movimento 5 Stelle era pericoloso ed è diventata un romanzo. Quindi sì, diciamo che io trovo abbastanza limitante questo tipo di racconto in cui si ha solo l’orizzonte del singolo individuo.

 

BM: Proprio di questo sentimento quasi di resistenza alla scrittura creativa ne parlavi in una presentazione con Veronica Raimo, in cui si metteva a tema la sottodeterminazione di personaggi come quelli de Le perfezioni, di cui ad esempio non conosciamo neanche la provenienza precisa. È un aspetto che trovo interessante se raffrontato con quanto scrivi nel tuo volume dei Quanti Einaudi La rivoluzione è in pausa, in cui parli della gentrificazione come un fenomeno di «appiattimento verso l’alto e perdita di unicità», vale a dire «esattamente ciò che è successo a ogni aspetto della nostra vita quando è stata fagocitata da internet». Questa perdita di unicità può quindi essere tanto deleteria sul fronte politico quanto potenzialmente rivoluzionaria su quello letterario?

VL: Esatto. È collegato al fatto che se noi siamo cresciuti con quest’idea romantica – nel senso di legata al romanticismo – della letteratura romanzesca come modo di trovare l’universale nel particolare, e quindi tu racconti la storia di una ereditiera inglese o di uno studente russo e in quella specificità trovi qualcosa di generalizzabile, adesso questa cosa è un po’ cambiata perché per come si è orientato il sistema letterario mi sembra che ormai la soggettività universale è soprattutto quella americana. Se tu racconti una storia ambientata a New York è una storia che parla di un essere umano, se racconti una storia ambientata a Napoli è una storia che parla di Napoli. Questo io l’ho vissuto in modo molto forte a Berlino perché qui ormai da più di un decennio faccio parte di questa comunità internazionale composta da persone che vengono da tutto il mondo, eppure a raccontarla sono state quasi unicamente quelle americane.

Un caso secondo me emblematico è quello di un romanzo molto buono come Spatriati di Mario Desiati, che è però la storia di un italiano a Berlino, non è la storia che parla di un’esperienza generalizzabile. Io ho cercato di trovare per questi miei personaggi una soggettività che fosse transnazionale e definita unicamente dal non essere americani (né tedeschi, perché ovviamente sono arrivati qua da fuori). Ci tenevo profondamente a questo perché volevo rompere questa opposizione binaria tra universale e locale in cui secondo me ci stiamo un po’ forzatamente collocando.

 

BM: A proposito di quanto hai appena detto, penso anche al tuo intervento all’European Lab sul grande romanzo europeo, o meglio sull’assenza di quest’ultimo. Visto che hai introdotto l'argomento Berlino, penso che per me è stato strano leggere La cospirazione delle colombe adesso e rendermi conto solo in un secondo momento che la sua parte finale fosse in prolessi rispetto alla data di pubblicazione originaria. È anche la parte in cui prospettavi un tuo rientro da Berlino, che il narratore lasciava in maniera non facile per tornare a Milano e «indossa[re] in fretta in panni dell'espatriato di ritorno». Alla fine a Berlino, a differenza di quell'alter ego che proiettavi, ci sei rimasto. Com’è cambiato il tuo rapporto con la città nel corso del tempo?

VL: Devo fare una premessa: in realtà l’allungarsi de La cospirazione delle colombe nel futuro è un accidente, io avrei voluto scriverlo che finisse al presente, quindi che finisse quando è uscito nel 2011. Il problema è che se lo avessi fatto i miei personaggi sarebbero stati negli Stati Uniti l’11 settembre e non avrei potuto ignorare questa cosa: ho quindi dovuto dislocare la storia nel futuro semplicemente per evitare questa sovrapposizione.

Detto questo, non so se il mio rapporto con Berlino è cambiato.  Dire “non sono molto felice di essere qua” è un’esagerazione, mettiamola diversamente: io avverto qui la stessa insoddisfazione che aleggia in tutto il romanzo, con la differenza che la mia idea era di tornare in Italia per ritrovare una sorta di autenticità che mi sembrava che qui non ci fosse. Sono tornato e non c’era più neanche lì, vuoi perché certi fenomeni di gentrificazione ed estetizzazione della vita quotidiana che a Berlino sono stati sperimentati si sono poi estesi a quasi tutte le grandi città dell’occidente, vuoi perché in realtà questa mancanza di autenticità era dovuta soltanto al fatto che io ero invecchiato e che mi mancava questo senso di sorpresa e meraviglia. Quindi in realtà io ho provato a tornare in Italia ma poi in ultima analisi son tornato qua e con il cuore un po’ spezzato a volte penso che ci resterò, perché la mia compagna è qui, la mia vita è qui. Sono venuto in Germania anche dopo l’esperienza veramente dolorosa e fallimentare della lotta per il quartiere Isola, in seguito alla quale quasi tutti quanti noi del gruppo di Isola Art Center ci siamo allontanati da Milano, chi per un po’ chi per sempre, perché è stato veramente abbastanza traumatico per tutte e tutti.

 

 

 

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L'arte randagia del fallimento. Conversazione con Marco Amerighi

 

Il filosofo francese Tristan Garcia ha osservato come quella di una vita intensa, con tutte le elettriche aspettative e gli ideali vitalisti che essa porta con sé, sia l'ossessione che contraddistingue l'uomo della civiltà moderna. Nulla di più lontano dai desideri e dalle prospettive del giovane Pietro Benati, protagonista di Randagi (Bollati Boringhieri, 2021) di Marco Amerighi. Avanzandone la candidatura per il Premio Strega, la scrittrice Silvia Ballestra lo ha descritto come «una storia in grado di cogliere l’essenza di un tempo e dei giovani che, impotenti e spaesati, lo hanno abitato». Muovendosi lungo la deriva di questo spaesamento, i randagi di Amerighi cercano di intravedere possibili vie di fuga da un mondo che non mantiene le promesse che fa, trovando forme di resistenza affettiva in rapporti e momenti di tenerezza radicale. Randagi è un libro intenso quasi suo malgrado così come lo è la vita del suo protagonista, una storia di apprendistato e fallimento in cui si (dis)impara sempre più dal secondo che dal primo. 

 

Dopo Bacà e Desiati, Marco Amerighi è il terzo ospite della nostra rubrica L’ora dello Strega, una serie di conversazioni settimanali incentrate sui dodici libri candidati alla LXXVI edizione del premio.

 

Biagio Mazzella: Prima domanda di rito: immagino sia un periodo un po’ intenso dopo l'annuncio della dozzina, come ti vivi la situazione?

Marco Amerighi: La situazione la vivo con la stessa ansia con cui vivo la vita di tutti i giorni. Mi sento come se mi fossi sparato troppi caffè, già dal momento in cui metto il piede giù dal letto percepisco una certa effervescenza. Sono però anche molto concentrato sul viverla serenamente, divertendomi e prendendomi quello che viene da questo strano carrozzone, ecco.

 

BM: Il tuo romanzo si apre con la maledizione dei Benati e mi ha fatto sorridere che, in una delle prime presentazioni, Sandro Veronesi l’abbia introdotto facendo riferimento a un’altra maledizione, ovvero quella del secondo libro, da cui a suo dire tu sei riuscito a scampare confermando le aspettative del tuo esordio Le nostre ore contate. Tu stesso hai raccontato di come non ci si senta scrittori dopo il primo libro perché ci si chiede se si hanno altre storie da raccontare: anche tu hai quindi sentito il timore di cadere in questa maledizione, e come hai fatto a uscirne trovandone un’altra che è stato poi l’innesco per questo secondo romanzo?

MA: Ho cercato la risposta nella letteratura e ho dato la mia risposta dentro la letteratura, con le pagine del mio libro. Quando si scrive il primo libro c’è la sensazione che ci si voglia liberare di qualcosa. Uso non a caso questo verbo perché “liberarsi”, “essere liberi” e la parola “libro” sono quanto di più vicino possa esistere: c’è quella vocale di mezzo e basta. Il primo libro serve per liberarsi, per dire “Ho alzato la voce. Io sono qui, sono questa cosa qua”, però è ancora molto poco: nonostante tutti i primi libri spesso accompagnano per tanto tempo chi li scrive, di fatto poi lasciano molto indecisi su come procedere. Io mi sono chiesto se fossi uno scrittore o se avessi tra le mie frecce soltanto quel libro lì.

Ho cercato una risposta dove la vado a cercare sempre, cioè nei libri. Sono tornato a studiare e a leggere una serie di testi apicali che sono la bussola del mio stare al mondo, come i grandi scrittori di primo Novecento toscano. Penso a Federigo Tozzi, ma anche a Romano Bilenchi, oppure nel momento della seconda guerra mondiale un autore monster per me come Vasco Pratolini, per certi versi anche il primo Cassola e Malaparte: sono tutti autori che si interrogano per esempio sul rapporto con la tradizione e con i genitori, spesso tormentato (quasi sempre con il padre), e in un certo senso hanno raccontato anche loro una forma di randagi.

La maledizione di cui parli è una maledizione che hanno tutti gli scrittori, è fondamentalmente quella di dover essere all’altezza delle proprie aspettative. La scrittura è un’opera di traduzione da un pensiero che, per quanto confuso, sta silenziosamente nella nostra testa e deve manifestarsi con un altro linguaggio, attraverso la parola. Qualunque scrittura è quindi destinata al fallimento, è impossibile arrivare a rendere quel pensiero iniziale che ci aveva portato a dire “Voglio scrivere questo libro”. Nonostante io sentissi su di me la maledizione al fallimento è come se avessi sentito che quegli autori c’erano passati e avevano tracciato una via: io potevo riprendere quella strada e aggiornarla per forme, per tematiche, per contenuti, però con un po’ meno paura e un po’ più di spirito di compagnia. Come se loro fossero lì e mi dicessero “Dài, adesso vai e fallo a modo tuo”. Anche se si scrive da soli poi soli non si è mai, ci sono tutta una serie di riferimenti e di autori che stanno là e ti indicano la strada.

  

BM: Hai detto che la scrittura è una pratica destinata quasi intrinsecamente al fallimento rispetto a quelle che sono le aspettative di chi scrive, e mi viene da riconoscere che il rapporto tra vocazione e fallimento è uno dei temi che ti stanno più cari. Entrambi i protagonisti dei tuoi due romanzi sentono un’urgenza di trovare una vocazione e una realizzazione, anche a prescindere dalle loro capacità. Questa fiducia è anche sottolineata dall’esergo di Randagi, in cui James H. Chase parla di un «innato talento» che bisogna solo scoprire per ottenere «fama e fortuna». Da dove nasce questo sentire?

MA: Nasce forse dall’incapacità di avere una vocazione e quindi dal desiderio di averla. Tutti noi aspiriamo a essere bravi in qualcosa e abbiamo dentro di noi quel pensiero che ci fa dire “Se io scoprirò quello in cui sono veramente bravo allora la mia vita sarà tutta felicità e successo”. Si tratta per altro di una serie di argomentazioni frutto della globalizzazione: come se la felicità e il successo fossero lo scopo della nostra vita, cosa che tenderei a rivedere in toto. Io mi sento spesso di fronte a questo bivio: da un lato si ha fretta di scoprire in che cosa si è bravi e dall’altro c’è una sorta di vettore contrario che ti fa dire “Rallenta, non ti buttare in questo altrove così rischioso, stimolante ma anche pericoloso, perché può essere foriero di fallimento, di delusione, di dolore”. È un bivio tra due strade, una rischiosa e una invece accomodante, e c’è quindi il rischio di restare bloccarti in un’impasse. Quei due protagonisti, Sauro nel primo libro e Pietro Benati in Randagi, si trovano proprio a questo bivio e un carattere come Pietro è incapace di scegliere perché ha una paura terribile per il mondo.

È un tema effettivamente che mi sta molto a cuore, questo continuo doversi spingere verso un’idea di successo e di felicità che debba accontentare sia noi e i nostri talenti, ma che sia anche una felicità che possa essere vista dagli altri. Dobbiamo farci vedere come quelle persone che hanno trovato questo benedetto posto nel mondo di cui si parla in maniera molto retorica ma che, tradotto in maniera spicciola, è fare bene qualcosa. Fare bene qualcosa affinché gli altri si accorgano che siamo bravi, perché se potessimo farlo soltanto per noi stessi saremmo degli asceti: sarebbe bellissimo, sarebbe l’unica cosa giusta della vita, ma nel mondo in cui viviamo non è così.

 

BM: Un altro vettore che lega i due romanzi è il movimento tra l’assenza e la ricomparsa. Se nel primo romanzo Sauro chiamava suo padre «Re dell’assenza» e questo poteva fare di lui un eventuale «principe dell’assenza», in Randagi abbiamo una vera e propria monarchia della scomparsa, in quanto vi è questo continuo sparire e riapparire. Questo tema della sparizione e del disvelamento si ricollega forse con il discorso che hai appena fatto?

MA: In una vita improntata all’apparire e al mostrare quanto siamo bravi in qualcosa, quando non si riesce a tener fede a questo tipo di modello quale altra soluzione possiamo trovare se non quella di fuggire e toglierci di dosso il peso di questa responsabilità che certe volte diventa veramente insostenibile?

A me piace molto scrivere certi tipi di libri che operano per strati come se fossero dei terrari così da costruire una sorta di simbologia sotterranea: puoi pensare che quella maledizione sia soltanto uno strumento narrativo, puoi però accorgerti pian piano che quei personaggi che scompaiono poi riappaiono con una sorta di correlativo oggettivo. Tutti riappaiono con qualcosa in meno: il nonno Furio è stato colpito da una granata e ha un problema all’omero, il padre Berto torna senza un mignolo e non sappiamo perché, il fratello Tommaso è anche lui, per quanto non lo si possa immaginare inizialmente, destinato a un tipo di sparizione. A scavare ancora poi ci sono tanti altri livelli di simbologia su questo aspetto della sparizione, penso ad esempio a quell’e-mail che a un certo punto del romanzo Tommaso scrive al fratello, un’e-mail molto intima nella quale forse per la prima volta i fratelli si dicono davvero ciò che provano. In quel caso alla tastiera su cui scrive Tommaso manca una lettera, e quindi nonostante i due fratelli siano così vicini intimamente, in realtà di nuovo il loro rapporto è segnato da una scomparsa, un correlativo oggettivo se vuoi molto piccolo ma che rende difficile la comunicazione tra i fratelli e anche la nostra lettura.

 

BM: Invece una delle differenze che saltano all’occhio tra i due libri è lo scarto di complessità: se nel primo vi era una singola voce (seppur presa in due momenti diversi della propria vita) Randagi è un romanzo sicuramente più polifonico. Per conservare la tua metafora del terrario, si tratta di un giardino dai sentieri molto spesso interrotti: ci sono delle false piste che caratterizzano tipi di esperienza, come può essere quella dell’Erasmus, in cui ci si ritrova a conoscere gente senza effettivamente sapere in che direzione quel rapporto andrà.

MA: Mi fa molto piacere questa considerazione perché riflette un’idea di fondo: io non volevo scrivere un libro che fosse, come certi romanzi di formazione, esemplificativo soltanto dei momenti fondamentali della vita di un personaggio, come se questi fossero dei gradoni che il personaggio sale o scende, a seconda della gravità o della leggerezza della parabola, all’interno di un processo di crescita. Quello che volevo, e che riflette l’idea dei randagi stessi, era aprire delle finestre su un certo punto della vita di queste persone, e questo comportava anche un rischio: quello di trovarsi difronte non soltanto la scena madre, che pure c’è perché è un romanzo molto denso e con molta trama, ma anche dei passi in cui di fatto non accade niente. Penso a quanto capita nella seconda parte quando Pietro è a Madrid ed è in biblioteca dove trascorre le sue giornate a studiare in compagnia di una persona che gli fa da guida: in quei momenti crediamo che potrebbe accadere qualcosa ma qualcosa poi non accade, o meglio a un certo punto il sentiero si interrompe e si lascia al lettore l’idea o anche il desiderio di colmare queste lacune. Cosa sarà dell’altra persona? Non lo sappiamo. Non di tutti i personaggi abbiamo una conclusione.

Di fatto questo è un romanzo di incontri e alcuni incontri ci segnano in maniera fondamentale anche quando non riusciamo a capirlo lì per lì, così come i randagi si incontrano soltanto in un momento della loro vita nella quale forse non sono ancora pronti per stare insieme, o almeno non in maniera definitiva, e si allontanano.

 

BM: Un’altra differenza è quella temporale: se nel primo libro vedevamo Sauro tornare a casa a distanza di vent’anni, Randagi si ferma molto prima, sembra vi sia una deliberata scelta di muoversi molto nello spazio per poi fermarsi in un determinato momento nel tempo e osservare una cesura ben specifica. Quando hai saputo dove fermarti?

MA: Il romanzo si conclude con Pietro che ha ventotto anni, a quell’età non può aver risolto tutto e non volevo che risolvesse tutto. L’avrei sentito come un tradimento. Per quanto si tratti di un romanzo di finzione, sarebbe un’idea di letteratura secondo me sbagliata. Quello che volevo fare era stare con i miei personaggi e accompagnarli per un certo periodo, vivendo anche dei momenti nei quali ci si chiede “Perché mi hai portato qui se di fatto non succede qualcosa di mostruosamente importante?”. Il tempo in questo romanzo è allungato, ridotto, stiracchiato. Ci sono tutti i modi possibili di indagine sul tempo, che è una di quelle categorie, nella scrittura e in generale nella vita, che difficilmente è spiegabile e rappresentabile. Tanto vale quindi affidarsi al tempo affettivo della memoria, che si dilata quando i momenti sono particolarmente importanti e ci segnano fondamentalmente: guarda caso nel romanzo lo spazio più grande a livello di numero di pagine è occupato dalla parte centrale, che racconta soltanto nove mesi. È come se il libro fosse nato come un sasso scagliato nello stagno, come se si fosse formato a cerchi concentrici allargandosi da un nucleo centrale, ovvero i tre personaggi che risiedono in copertina.

La mia volontà era quella di fermarmi in un momento nel quale potesse iniziare un altro libro: è come se questo romanzo fosse la cronaca dei tentativi fallimentari di un personaggio di diventare libero, di diventare uomo e di diventare una persona che ha chiaro il mondo. Pietro ci riesce soltanto alla fine, l’ultima pagina è il momento in cui si toglie di dosso tutti i pesi che ha e da qui è come se iniziasse un altro libro che naturalmente non c’è. Una volta portati i personaggi su quella soglia il mio compito era finito, poi se ne apre un altro ma questo è più materiale per il lettore: rientra in quell’idea di letteratura di cui parlavo prima, una letteratura in cui il lettore è molto attivo, si pone domande, magari si infastidisce per un tempo troppo dilatato in alcuni momenti però ha anche la possibilità di colmare quello che manca.

 

 

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Homo novus. Conversazione con Fabio Bacà

 

David Foster Wallace non augurava a nessuno scrittore di esordire prima dei quarant’anni: per capire cosa intendesse non mi viene in mente esempio migliore, nel panorama letterario italiano, di quello di Fabio Bacà. Non a caso Diego De Silva, nel presentare Nova (Adelphi, 2021) al Premio Strega, lo ha definito «l’ex esordiente più anomalo che conosca». Dopo il clamoroso Benevolenza cosmica (Adelphi, 2019) Bacà rilancia le aspettative sorprendendo i suoi lettori con un romanzo che non fa che confermare la sua anomalia: in Nova racconta le ambiguità e le impasse dell'uomo occidentale alla continua ricerca di una quadra tra i suoi lati più vigliacchi e quelli più ferini, e riesce a conservare il suo fine sguardo da entomologo sociale senza perdere lo smalto e la disincantata ironia che ormai contraddistinguono la sua prosa.

 

Con lui abbiamo il piacere di inaugurare L’ora dello Strega, una serie di interviste settimanali sui dodici libri candidati alla LXXVI edizione del premio: ogni sabato le risposte di un autore o un'autrice ci accompagneranno verso la proclamazione della cinquina il prossimo 8 giugno, in vista della serata finale del 7 luglio.

 

 

Biagio Mazzella: Innanzitutto, come stai? Immagino che dal momento dell'annuncio della dozzina dei candidati sia iniziato un periodo un po’ frenetico. Se nel caso del tuo primo romanzo avevi dovuto rispondere a tutte le continue domande sull’esordio con Adelphi (cosa che non succedeva dal 1993 con La variante Lüneburg di Paolo Maurensig), adesso temo ti toccherà ricevere quelle sul ritorno di Adelphi allo Strega dopo la sua ultima partecipazione oltre trent’anni fa, nel 1989, con Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso. Come vivi il contesto dei premi letterari?

Fabio Bacà: Sì, ed è un periodo che va a peggiorare [ride]. Tra le varie (graditissime) richieste di interviste o di interventi, adesso incomincerà il tour vero e proprio: ho circa una ventina di giorni di pausa dopodiché avrò un fine aprile e un maggio (speriamo anche giugno) piuttosto pieni.

Sarebbe sciocco da parte mia negare che l’esordio con Adelphi non abbia inciso: il mio è un merito malinconico, ovvero quello di essere stato l’ultimo autore scelto da Roberto Calasso, un lascito che ovviamente è doppiamente ponderoso. Adesso vi si aggiunge addirittura tornare allo Strega con tutto il precipitato di aspettative che questo comporta. Nel mio caso essere vicino ai cinquant’anni rende il tutto più distaccato: sto vivendo questi momenti con grande gioia ma anche con più senso della misura. Lo Strega è un gioco, scrivere romanzi resta per me un’attività da dilettante, lo faccio perché mi piace, ho un altro lavoro e cerco di viverla così.

 

BM: Diego De Silva, nel proporre Nova, ha insistito sul suo essere «un libro diverso» rispetto a Benevolenza cosmica, di cui era stato sottolineato molto il tono ironico, irriverente e brillante. Tu hai detto di aver iniziato a scrivere Nova prima ancora della pubblicazione di Benevolenza cosmica: la tua non è stata dunque una virata conseguente alla ricezione del primo romanzo, ma faceva già parte dei tuoi piani sin dall'inizio. Volevo però chiederti se quella di romanziere comico fosse stata un’etichetta che, a lungo andare, avesse cominciato a darti fastidio.

FB: C’è stata una sorta di commistione tra coincidenze e volontà. Benevolenza cosmica non è il mio primo romanzo: il primo era un romanzo piuttosto lungo, strutturato, mezzo sperimentale, scritto tra il 2010 e il 2014 e rifiutato un po’ in giro, e aveva un tono più simile a Nova che a Benevolenza cosmica. È stato nello scrivere Benevolenza cosmica che mi sono distaccato da quello che credo sia il mio tipico approccio, per quanto io mantenga spesso in alcune occasioni un po’ di leggerezza e persino un tocco ironico in certi dialoghi e situazioni. Come romanziere mi sento più vicino allo stile e all’approccio di Nova che a quello di Benevolenza cosmica, che è stato addirittura in alcuni casi definito un romanzo comico. Ti confesso che ciò che io ho sempre voluto è essere considerato uno scrittore poliedrico: la coincidenza è che aver scritto Nova mi ha consentito di dare una sterzata abbastanza decisa, che sicuramente c’è stata, anche se secondo me non così netta come una curva a gomito, nel momento in cui cominciavano ad arrivare un po’ troppi elogi alla mia capacità di far sorridere dai quali non volevo farmi ingabbiare. Come però hai giustamente notato basandoti sul fatto che è stato pianificato almeno un anno prima, ovviamente questa cosa è del tutto casuale. Se gli elogi si fossero limitati a dire “è un buon libro” senza sottolineare questa capacità di essere ironico e divertente, magari non mi sarebbe venuto quel timore di essere incasellato, che per un certo periodo ho avuto. Per qualche mese mi son detto: “Ma io non sono così”; ho però pensato: “Se e quando uscirà il prossimo romanzo magari se ne renderanno conto”.

 

BM: Per descrivere ciò che avevi in mente nel momento in cui hai iniziato a scrivere Nova, hai utilizzato due riferimenti letterari e filmici: hai detto che cercavi di creare qualcosa a metà tra Fight Club di Chuck Palahniuk e Teorema di Pasolini. Si tratta effettivamente di un’immagine calzante che riesce a descrivere molte delle atmosfere del romanzo. Come sei riuscito a trovare un equilibrio tra due riferimenti così forti e a loro modo così diversi?

FB: Come dice Stephen King nel suo On Writing, quando ti intervistano cerchi di dire qualcosa che sia un po’ più significativo delle solite banalità. Ho letto Teorema quando avevo quindici anni e non credo di averci capito granché: Pasolini in certi passaggi può essere particolarmente ermetico sia nei suoi significati sia nei suoi significanti. Di Teorema mi piaceva l’idea di questa persona che arriva in questa famiglia per perturbarla: Nova è anche una storia di famiglia. Se hai trovato questa mia postilla sull’incrocio tra Fight Club e Teorema sappi che l’ho detta più che altro per impressionare il lettore: se qualcuno che si intende di libri legge una cosa del genere si chiederà “Ma come diavolo farà Fabio Bacà a presumere di mischiare Pasolini con Chuck Palahniuk?”. In realtà ciò a cui facevo riferimento di Teorema era solo lo spunto iniziale e prodromico, per il resto non c’è niente di più lontano dai temi e dalla prosa pasoliniana di quello che scrivo io, è un autore formidabile ma non è tra i miei favoriti.

 

BM: Una questione costante che riemerge nel corso di tutto il romanzo è il nodo tra violenza e potere, e il ruolo che questi possono giocare nella vita personale del protagonista, in particolare di un neurochirurgo borghese di quarantatré anni, bianco, di una provincia come può essere quella di Lucca. Nel libro il lettore esplora i risvolti di questa microfisica del potere poco alla volta e a velocità via via sempre più accelerata; si tratta invece di un tema presente sin dai primi spunti di scrittura?

FB: È il rovello che mi porto dietro da decenni, da quando sono adolescente: il significato, lo scopo, la natura e la funzione sociale della violenza, che esiste da millenni. Non c’è storia dell’uomo o vicenda umana che sia separata dalla violenza, e questo mi pone moltissimi interrogativi. La civilizzazione ci ha portato a vette altissime sotto ogni punto di vista (filosofico, artistico, scientifico) ma non riusciamo a emanciparci da un istinto così brutale e dall’utilità, tra l’altro, abbastanza dubbia; allo stesso tempo ci sono però, come dice il mio stesso protagonista, delle cose che non si possono risolvere se non con la violenza. Credo sia uno dei tanti motivi per cui non riusciamo a farne a meno: ci sono delle situazioni dalle quali la violenza non può prescindere, e lo dico da persona estremamente ragionevole, un pacifista, assolutamente contro la guerra, un animalista. Il rapporto tra uomo e violenza secondo me è così ambiguo che non poteva non essere oggetto di un romanzo come il mio, che non è un romanzo filosofico ma cerca comunque di andare un po’ oltre. Un romanzo di genere in cui, come negli home invasion, c’è un tizio che viene molestato e reagisce violentemente: volevo parlare proprio della profonda ambiguità della violenza e credo che soprattutto nel finale questa mia incapacità di dare una risposta e di trovare il significato di tutto questo si capisca chiaramente.

 

BM: Hai definito in più occasioni il tuo “un romanzo di genere”. A parlare di generi letterari almeno in Italia si rischia sempre di cadere nel facile snobismo per cui vi sarebbero da un lato i romanzi “di genere” e dall’altro i romanzi della “vera” letteratura, d’altra parte però non mi sono sorpreso che tu utilizzassi questo termine considerato che uno dei tuoi scrittori preferiti è l’Umberto Eco de Il nome della rosa, in cui vediamo un uso del genere assolutamente magistrale. Qual è il tuo rapporto con questa definizione?

FB: Molte persone che mi chiedono: “Che genere di libri scrivi?”. La prima differenziazione è “romanzi”, ma alla seconda domanda “Che tipo di romanzi?” io alzo le spalle. Mi viene in mente la risposta che dà Richard Tull, il romanziere protagonista di quel libro magistrale che è L’informazione di Martin Amis. Quando gli viene posta questa domanda risponde: “Romanzi di consapevolezza moderna”. Quando mi chiedono “Di cosa parlano i tuoi romanzi?” mi viene quindi da rispondere “Di consapevolezza moderna”, che è una risposta che ovviamente non significa nulla.

Io sono molto legato alla letteratura di genere perché sono cresciuto a pane e Stephen King. Charles Dickens fa letteratura di genere? Non lo so però sicuramente leggere le avventure di David Copperfield o dei suoi tanti altri protagonisti è piuttosto appassionante. Ci sono degli stilemi e dei canoni ben precisi della letteratura di genere, io non sono un narratore di genere ma mi ritengo autorizzato, libero e assolutamente pronto ad attingerne quando necessario. Nei miei romanzi c’è sempre la necessità primaria di divertire il lettore inducendolo a voler sapere che cosa succede ai protagonisti man mano che si va avanti, è questo ciò che in generale mi muove a scrivere.

 

 

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Può parlare lə spatriètə? Conversazione con Mario Desiati

 

«Sono pochi gli scrittori italiani contemporanei che abbiano saputo imprimere al proprio itinerario letterario una coerenza così implacabile», è così che Alessandro Piperno ha definito Mario Desiati nel proporre Spatriati (Einaudi, 2021) al Premio Strega, riconoscendogli il merito e la capacità di aver saputo «restare fedele al suo mondo con un’ostinazione sorprendente». Desiati condivide questa ostinazione con i protagonisti del suo ultimo romanzo. Restare fedeli a se stessi è infatti anche l'intenzione di Claudia e Francesco, che scoprono precocemente come per riuscirvi sia necessario più di un tradimento: uno verso la propria famiglia, uno verso la propria terra e le proprie radici, con le pesanti consuetudini e le aspettative incrollabili che esse trattengono con sè, e infine uno verso quell'immagine di sé nella quale non ci si è mai riconosciuti. Spatriètə sono coloro che tentano di mettere in pratica quanto ha affermato la filosofa Rosi Braidotti parlando dei suoi soggetti nomadi, coloro i quali sanno bene che «ciò che conta è disobbedire con gioia e tradire con gentilezza e decisione».

 

Mario Desiati è il secondo ospite della nostra rubrica L’ora dello Strega, una serie di interviste settimanali incentrate sui dodici libri candidati alla LXXVI edizione del premio.

 

 

Biagio Mazzella: Innanzitutto, come stai? Sono passate alcune settimane dall’annuncio della dozzina della LXXXVI edizione del Premio Strega da parte del Comitato direttivo: nel 2011 arrivasti in cinquina con Ternitti, che effetto ti fa tornare allo Strega dopo 11 anni?

Mario Desiati: È stata una bella esperienza, sono nate delle amicizie perché per alcune settimane si gira l’Italia insieme. Magari sarà anche così in questa edizione.

 

BM: Spatriati ha avuto una lunga gestazione: ci lavori dall’ottobre 2015, coincidente con il periodo in cui hai iniziato a vivere a Berlino, ed è uscito (ormai quasi un anno fa) a distanza di cinque anni dal tuo precedente romanzo (Candore, sempre edito per i "Supercoralli" Einaudi). Raccontando l’esperienza delle varie stesure hai detto che si è trattato di un lavoro a togliere, non dissimile a quanto fanno gli scultori con la pietra. Che tipo di difficoltà hai incontrato nel trovare la voce giusta (sia nella scelta della persona narrante che nella ricerca dell’equilibrio tra le figure dei due coprotagonisti) per dar compimento a quel processo che Carlo Levi definiva di cristallizzazione?

MD: Mi stupisce positivamente la citazione che fai di Levi. È in un libro poco conosciuto che si chiama La doppia notte dei Tigli. C’è un’introduzione scritta da lui stesso dove parla di questo processo che trasforma un dettaglio visivo nella storia che racconta. Trovare la voce credo sia gran parte del lavoro che deve fare uno scrittore prima di cominciare a scrivere una storia. Risponde alla domanda Chi e Come raccontare ciò che sto raccontando. Non è solo questione di prima o seconda o terza persona, ma anche di toni, ritmo, sfumature. 

 

BM: Il libro si presenta in primo luogo come un romanzo sulla provincia, ma tu stesso, parlandone in un’intervista, hai aggiunto subito che “in realtà gran parte dell’Italia è provincia”: a tuo avviso questo aspetto è una condanna o una benedizione (per chi parte e per chi resta)? Il sociologo barese Franco Cassano ha scritto che «Andare lenti è essere provincia senza disperare, al riparo dalla storia vanitosa, dentro alla meschinità e ai sogni, fuori dalla scena principale e più vicini a tutti i segreti». Come si fa a essere provincia senza disperare?

MD: Non è facile risponderti, forse è una questione di punti di vista. La provincia sembra metterti in condizione di raccontare da un punto esterno. Ma non è proprio così. La forza di quel passo di Cassano che citi è che lui scrisse un saggio come Il Pensiero Meridiano proprio per esaltare quello che i meridionali pensavano fossero punti deboli. La lentezza, lo stare ai margini. E invece possono diventare un’occasione, quanto meno di vedere la realtà in un modo nuovo. 

 

BM: La compagna del protagonista di Candore, subito prima di lasciarlo, gli rinfacciava: «Non sei peggio di tanti altri, potevi avere un posto fisso. Potevi essere un uomo», rimprovero a cui Martino Bux rispondeva: «Forse non è la mia ambizione». Nel rifiuto di tale ambizione come l’unica ritenuta accettabile, nonché nella scoperta della precarietà come possibile via di fuga dagli schemi e dalle aspettative patriarcali, era possibile già intravedere alcuni nodi che sarebbero stati ulteriormente esplorati in Spatriati. La patria, del resto, è letteralmente la terra dei padri, da cui entrambi i protagonisti iniziano a prendere le distanze attraverso sperimentazioni e sovversioni di genere (penso alla prima volta che Francesco si prova una tunica addosso) fino alle più eterodosse esperienze di Berlino. In che modo e occasione hai sentito l’esigenza di decostruire i canoni della mascolinità tradizionale?

MD: Ci faccio i conti da quando sono ragazzo. Il patriarcato è un sistema di valori di cui il maschilismo è la conseguenza. Siamo cresciuti in un sistema così. Ci lavoro da alcuni anni e provo ad analizzarlo e raccontarlo. Il patriarcato è una gabbia, e prima se ne esce, prima si diventa più liberi. Spatriarsi è anche Spatriarcarsi.

 

BM: “Spatriati” non sono i semplici expat o i fuorisede. Spatriètə (termine neutro in dialetto che resta uguale sia al maschile sia al femminile, tanto al singolare quanto al plurale) può essere interpretato come interrotto, fuori posto, illegittimo: non ho potuto che leggervi una possibile traduzione di queer (termine la cui stessa possibilità di traduzione è tanto discussa negli ultimi anni dentro e fuori l’accademia, spesso ricorrendo non a caso a regionalismi). Il teorico cubano-statunitense José Esteban Muñoz ha scritto in Cruising Utopia che il queer è un «orizzonte carico di potenzialità. Non siamo mai stat* queer, ma il queer esiste per noi come un ideale che può essere ricavato goccia per goccia dal passato e usato per immaginare un futuro. Il queer è qualcosa che ci fa sentire che questo mondo non è abbastanza, che, di fatto, qualcosa manca», allo stesso modo con cui (mi viene da pensare) la spatriatezza che caratterizza i personaggi del tuo romanzo è ascrivibile più a un processo a cui essi vanno incontro piuttosto che a un’essenza predefinita. Cosa ne pensi?

MD: È molto interessante la tua citazione. Cercherò il libro da cui è tratta. Il queer ha mille sfumature e sicuramente copre largamente il concetto di spatriatezza, quando si tratta di Claudia e Francesco per il loro orientamento sessuale e la loro identità di genere che non sono volutamente definite. Personalmente vivo questo processo di sviluppo e apertura su tutti i fronti, non solo l’orientamento sessuale, ma anche politica, religione, famiglia, fanno parte della ridefinizione all’interno del proprio cammino personale. L’identità è un viaggio che non finisce mai, perché esperienze di tutti i tipi cambiano il nostro modo di vedere e di essere. 

 

 

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Fare e disfare il sé. Conversazione con Veronica Raimo

 

Nell’Avvertenza di Troppi paradisi Walter Siti si poneva il paradossale quesito «se l’autobiografia sia ancora possibile, al tempo della fine dell’esperienza e dell’individualità come spot». Con Niente di vero (Einaudi, 2022) Veronica Raimo si chiede se l’autobiografia sia mai stata possibile fin dall'inizio.

Nel suo precedente romanzo Miden (Mondadori, 2018), un personaggio più che secondario (il padre di colei che bussava alla porta di casa dei protagonisti nella primissima pagina) scriveva che «le persone tendono a sublimare gli eventi spiacevoli della propria vita inserendoli in un disegno più ampio. Come se si dovesse sempre imparare dai propri sbagli. Spesso si convincono che tutto quanto sia stato in qualche modo “funzionale”. La trovo una retorica per deboli di spirito». A questa retorica, così come a molte altre della stessa risma, non intendono sottostare né Veronica autrice né tantomeno Veronica (Vero, Verika, Oca) protagonista: restando entrambe profondamente ancorate a una disfunzionalità ondivaga e antieroica, autrice e personaggia sembrano voler mostrare insieme che (tana libera tutti) dai propri sbagli e dalle proprie nevrosi irrisolte spesso non c'è proprio niente da dover imparare, ma forse vi è solo qualcosa (neanche necessariamente tanto) da raccontare. In un libro «dove non c’è Niente di vero ma tutto è sorprendentemente autentico», come ne ha scritto Domenico Procacci nel candidarlo al Premio Strega, quello di Raimo si rivela essere (per usare le parole di un’autrice a lei cara come Ursula K. Le Guin, di cui abbiamo avuto occasione di parlare nel corso dell'intervista) «uno strano realismo per una strana realtà».

 

Veronica Raimo è la quarta ospite della rubrica L’ora dello Strega, una serie di conversazioni settimanali incentrate sui dodici libri candidati alla LXXVI edizione del premio.

 

 

Biagio Mazzella: La prima domanda che sto ponendo a tutti i candidati allo Strega che sto intervistando riguarda come si sentano in questo periodo così frenetico, tu come te la vivi?

Veronica Raimo: Male. Sono molto affezionata alla mia pigrizia in maniera proprio identitaria, mi manca molto non fare niente.

 

BM: Niente di vero è un libro che può prestarsi a diverse definizioni, tu stessa hai detto che nello scrivere ti capita spesso di ragionare per opposizione rispetto a ciò che non vuoi fare: conserverei quindi la negatività del titolo e ti chiederei cosa non è Niente di vero e cosa non volevi che fosse.

VR: Per me non è un memoir per evitare anche di immettermi in una polemica (che per quanto mi riguarda non ha molto senso parlando di letteratura) su cosa poi sia effettivamente vero o non vero nell’autobiografia di una persona, di uno scrittore o una scrittrice. Volevo il più possibile togliermi da determinati codici e da determinate aspettative. Preferisco parlarne come di un romanzo anche per il modo in cui ci ho lavorato, cercando di rendere i personaggi effettivamente dei personaggi romanzeschi, per quanto ci sia poi una voce narrante che fa anche degli interventi "meta" rispetto al processo stesso di scrittura e che ovviamente spezza quella finzione romanzesca. Ormai tutto può essere autofiction e quindi potrei considerarlo un libro di autofiction, però proprio perché tutto può esserlo forse vuol dire che non serve neanche più così tanto.

 

BM: Restando su questa considerazione che tutto può essere autofiction, c’era un passaggio in Miden in cui si faceva riferimento a delle sessioni terapeutiche tenute dai membri della comunità: «In dei momenti particolarmente confusi della loro vita, si spingevano le persone a raccontare la propria storia come se fosse la trama di un film. Poi si creavano delle scene con degli attori. […] In quel caso il meccanismo era lo straniamento, rivedersi personificati in qualcun altro». So che l’idea di letteratura come terapia è molto distante dalla tua concezione, però un simile effetto di straniamento è stato effettivamente parte del processo di scrittura che ti ha portato a trovare la voce del romanzo, proprio in seguito a delle esperienze teatrali, giusto?

VR: Sì, nell’aver scritto dei monologhi comici per delle attrici che sono parte di un collettivo chiamato U.G.O.: scrivere per un corpo e per una voce altrui è come se mi avesse dato la possibilità di raccontare qualcosa di più vicino alla mia vita attraverso quella distanza e quello schermo, cosa che effettivamente non avevo mai scritto nella fiction vera e propria. Questa poi è una ragione che mi sono data a posteriori del perché abbia scritto un libro in cui la protagonista si chiama come me e parla comunque della mia famiglia. Mi sono resa conto che questo dispositivo mi ha aiutata negli anni effettivamente a elaborare delle cose del mio vissuto, quando non ero direttamente io chiamata in causa e vedendolo quindi restituito da qualcun altro.

 

BM: Nello stesso passaggio citato prima, la protagonista femminile sembra invece perseguire un intento quasi opposto a ciò che fai tu in Niente di vero, la compagna infatti racconta: «Nel mio caso non avevo bisogno di questa distanza da me stessa per “capire”. Piuttosto avevo bisogno che accadessero degli eventi. Che io li facessi accadere. Che tutti i movimenti dall’arrivo della ragazza dentro casa avessero una loro trama robusta, persino avvincente». Nel suo caso il risultato era però quello di ritrovarsi «doppiamente sconfitta. Da un punto di vista etico, e da un punto di vista estetico». Volevo quindi chiederti quali fossero state le sfide sia etiche che estetiche nella realizzazione di Niente di vero, poiché effettivamente nel romanzo vi è una certa ambivalenza che può chiamare in causa entrambi i campi.

VR: Mentre lo scrivevo avevo una grande questione che era: “A chi dovrebbe interessare questa storia?”. Era una storia alla fine abbastanza ordinaria, una vita come tante: non c’erano grandi traumi, la protagonista non viveva in un contesto particolarmente disagiato, non c’era l’impatto della Storia con la s maiuscola. Perché a un certo punto bisogna raccontare la propria storia se in fondo è una storia qualunque con le sue nevrosi, i problemi familiari, i rapporti d'amicizia ecc.? Ovviamente era una domanda non tanto rivolta al pubblico quanto rivolta a me stessa: “Eticamente che sto facendo?”. E però in realtà è stato uno dei libri che ho scritto forse con più piacere e con più facilità, quindi dopo un po’ ho smesso di preoccuparmi di questa cosa e ho continuato a scrivere, mi faceva star bene.

La domanda etica però rimaneva ed è rimasta fino alla fine, quando a un certo punto avevo questo materiale e non sapevo bene che cos’era, tanto che ho sentito molto più che in altri casi il bisogno di consigli e di confronti con altre persone. Magari c’era di mezzo anche la pandemia e dopo talmente tanto isolamento che avevo bisogno di sentire i pareri degli altri: è un libro che ho fatto leggere a molti amici e amiche, scrittori e scrittrici, e tutti quanti mi hanno molto incoraggiato. Quella del punto totale sul perché scrivere questa storia era quindi una preoccupazione che potevo lasciarmi alle spalle, e lo stesso poi è avvenuto quando l’ho fatto leggere anche agli editori.

Per quanto riguarda il punto di vista estetico, il problema era della struttura e di come tenere insieme questi aneddoti disorganizzati e frammentari, finché anche lì mi sono convinta che la voce che avevo trovato probabilmente reggeva a prescindere da una struttura e che forse a me proprio l’idea stessa di dover strutturare un racconto, che sia una parabola di vita o una storia in generale, è una cosa che mi lascia molto insoddisfatta. Quando sento un arco narrativo molto omogeneo e in un certo senso anche rassicurante, un arco narrativo che parte da un punto e va in un altro punto, sono sempre molto frustrata: a me piacciono le cose che si interrompono, si arrovellano, si mettono in crisi da sole. Quindi è quello che alla fine ho fatto, forse perché non avrei saputo fare niente di diverso e perché è proprio il mio modo di ragionare ma anche di vivere. Appena sento un odore di parabola o di arco narrativo mi annoio da morire.

 

BM: A questo proposito avevo trovato molto interessante un discorso emerso durante una presentazione che tu hai tenuto con Vincenzo Latronico sul suo ultimo romanzo Le perfezioni, faccio in particolare riferimento al passaggio sulla sottodeterminazione e sovradeterminazione in un contesto di quella che lui chiamava resistenza alla scrittura creativa. Ne erano venute fuori delle considerazioni molto stimolanti che si applicano bene anche a Niente di vero.

VR: La mia è una verità personale e quindi parziale, ovviamente ci sono altri scrittori e altre scrittrici che si trovano più a loro agio proprio in delle strutture molto più organizzate e con una conclusione, con uno sviluppo più organico; però per me non è così. E non lo dico per prevenire poi le obiezioni di chi leggendo il romanzo possa sentirsi frustrato da un tipo di scrittura del genere, anche perché per l'appunto queste obiezioni ci sono sempre: quando mi leggo i commenti negativi sul libro (tanto uno legge solo quelli, di quelli positivi non gliene frega nulla) c’è sempre questa cosa di non capire che cosa voleva dire l’autrice, di non capire il messaggio. Va bene così: non c’è nessun messaggio, sono terrorizzata dall’idea che la letteratura debba trasmettere un messaggio. Quando questo accade è una cosa che a me provoca molte resistenze, nella letteratura come in qualsiasi forma creativa.

 

 

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Disastrologia di un discorso amoroso. Conversazione con Daniela Ranieri

 

Se per René Girard l'incrociarsi delle linee di fuga del desiderio, esemplificato dal personaggio di Don Chisciotte, dava origine a un assetto triangolare, con Stradario aggiornato di tutti i miei baci (Ponte alle Grazie, 2021) Daniela Ranieri, riprendendo la prossemica di un Don Giovanni declinato al femminile, progetta uno spazio più reticolare, a tratti rizomatico, su cui le macchine desideranti possono sfrecciare, scontrarsi, invertire rotta o deragliare.

Percorrere lo Stradario, candidato da Loredana Lipperini al Premio Strega e da questa definito «un libro che prescinde dalla forma [...] un inganno (non è un memoir) sincero come può esserlo la letteratura», è come bere con una cannuccia il cervello di chi l'ha disegnato, per utilizzare un'immagine che l'io narrante usa per descrivere il proprio rapporto con l'amore: un romanzo-raccordo (più che un romanzo-fiume), trafficato e di non immediata viabilità, che non intende essere scorrevole per non correre il rischio di defluire con troppa facilità.

 

Daniela Ranieri è la decima ospite della nostra rubrica L'ora dello Strega, una serie di conversazioni settimanali incentrate sui dodici libri candidati alla LXXVI edizione del Premio. 

 

 

Biagio Mazzella: A costo di andare immediatamente fuori traccia rispetto al nome della nostra rubrica, non posso non congratularmi con lei per la recentissima nomina di Stradario aggiornato di tutti i miei baci nella cinquina del Premio Campiello (arrivata, tra l’altro, a un anno esatto di distanza dalla data di pubblicazione del romanzo). Che effetto le fa? Si sta abituando alla kermesse dei premi (penso a questi mesi di tournée per lo Strega) o condivide quanto afferma la protagonista del suo libro quando, per consolare uno scrittore istrionico e dall’ego di polistirolo, gli dice che «i premi letterari li danno solo a chi ritengono inferiore. Bravino, ma inferiore»?

Daniela Ranieri: Grazie molte per le congratulazioni. Non avevo notato la coincidenza numerologica, avrebbe aggiunto una quota di “armonia prestabilita”, ma forse anche di ansia, a una serie di fatti che stanno accadendo al mio libro. Ho seguito la cerimonia di proclamazione della cinquina del Campiello per puro caso: la prima reazione è stata di incredulità, dunque anche di una specie di pneumatico distacco. L’io narrante su questo tema è molto più disincantato; l’io scrivente ne è onorato e gratificato. La protagonista del mio libro ha spesso opinioni radicali ed estremamente pessimiste riguardo ai suoi simili. Per di più, è accecata dall’innamoramento per questo scrittore che non vince premi, pur meritandoli, e - come scrive Pavese - una donna innamorata è sempre stupida. Mi rendo conto che il suo giudizio tranchant corre il rischio di diventare una specie di paradosso del mentitore. Se vincessi uno dei due premi, sarei spacciata. Tuttavia, si creerebbe un cortocircuito davvero interessante, che mi piacerebbe molto sperimentare.

 

BM: La protagonista senza nome del suo romanzo osserva come «scrivere ha i suoi propri punti cardinali, svincolati dalla biografia, fuori dalla sua griglia». Quali sono quelli della sua scrittura, e come riesce a far sì che restino saldamente svincolati dal materiale biografico?

DR: La biografia intralcia il processo di creazione di un sé scritturale. Vale in questo caso, come in molte altre questioni, la lezione di Carlo Emilio Gadda: si tratta di cucire una stoffa interna, una fodera di fatti e impressioni biografiche, con la seconda stoffa, esterna, del mondo. Se necessario traslando tutti i fatti, i nomi, i caratteri, i luoghi geografici. Deve esserci uno spostamento della propria biografia, altrimenti si riferisce semplicemente l’accaduto, come si relaziona un fatto a un conoscente. Il materiale biografico è appunto solo materiale, è calce viva; perché diventi utilizzabile, deve essere “spento” con una trasformazione chimica: l’invenzione di sé attraverso il non sé.

 

BM: Il primo consiglio di scrittura che lei dà nella sua Lezione d’autore per Leggiamoci è di inventare, considerando il termine nel suo senso etimologico di “trovare” (da invenire) e sottolineando come “la verità scritturale è diversa dalla verità vera”. La protagonista del suo romanzo riconosce che in amore ha bisogno «non già di menzogna, bensì di un che di indeterminato, immaginativo, nascosto, insomma di non rivelato». E continua: «Nel massimamente vero esigo una quota di verità non ancora scoperta, che come tale può anche essere il suo contrario. Se come essere etico io reclamo la verità, come essere desiderante devo contemplare la non-verità». Questa non-verità, ricercata tanto dalla protagonista negli altri quanto da lei attraverso la scrittura, si avvicina di più a una menzogna romantica o a una verità romanzesca?

DR: Nel caso della scrittura si tratta di un tipo di invenzione che avvicina al vero, perché scrivendo si trova qualcosa che già c’era, ma non era rivelato. C’è una bella differenza tra verità e sincerità. Nello Stradario l’io narrante applica lo stesso processo generativo all’amore: forse troppa verità rivelata distrugge. Eticamente si ha bisogno di sincerità, ma eroticamente si è sempre in cerca di un angolo cieco, di qualcosa di non ancora palese. È come la vertigine: evito le altezze perché le altezze mi attraggono e mi atterriscono. Come persona sono illuminista; come amante sono superstiziosa e soggetta alla cieca e furiosa irrazionalità del mito. Non a caso il libro d’amore più bello mai scritto sono le Eroidi di Ovidio: lettere (scritte da lui, un uomo) di eroine tradite, illuse, ossessionate, abbandonate dai loro amanti, che non rispondono mai (se non in tre casi eccezionali) e che noi non vediamo se non dentro lo spazio oscuro, lo spessore cieco della pagina.

 

BM: Credo, inoltre, che la prima menzogna del romanzo si trovi al di fuori di esso, che sia paratestuale. Faccio riferimento al suo tweet in cui ne annunciava l’uscita, al cui Ps scrive “Non è scorrevole”.

DR: “Scorrevole” è una di quelle parole che, se applicate a un libro, hanno per me un senso deteriore. E invece viene usata per lo più positivamente. Un libro che scorre via non lascia niente, nessun detrito, scarto o memoria. Spero che il mio scorra con difficoltà, che trovi delle resistenze in chi legge, in modo da impigliarsi nella sua mente.

 

BM: Il terzo consiglio che dà a chi scrive è poi quello di essere avvincenti per sé stessi e buttare le parti che si trovano noiose. Considerata la mole del romanzo, una simile dichiarazione di metodo sembra tradire una franca soddisfazione per la sua riuscita finale: vi sono state effettivamente delle parti in eccesso scartate in fase di editing oppure lo Stradario avrebbe potuto continuare a espandersi con ulteriori vicoli, biforcazioni e incroci anche ben oltre le pagine attuali, come sembra suggerire quell’eccetera, eccetera che precede la parola FINE?

DR: Valgono entrambe le asserzioni. Ho tagliato in fase di editing l’equivalente di circa ulteriori 120 pagine. In effetti erano quelle che mi ero divertita a scrivere, ma non altrettanto a leggere. Allo stesso tempo, avrebbe potuto continuare a prendere biforcazioni e digressioni, in altre direzioni. Lo considero un libro non finito.

 

BM: Nella stessa lezione fa anche riferimento alla distinzione chiamata in causa da Claudio Magris per descrivere Thomas Mann, ovvero quella tra scrittori di mano e scrittori di cervello (ponendo Mann tra gli scrittori della prima categoria di coloro che, seguendo la penna, quasi non si rendono conto cosa stanno scrivendo): nella stesura di questo romanzo pensa di aver lavorato più di mano o di cervello?

DR: Lo dico a posteriori, perché mentre scrivo non ho alcuna idea di come stia procedendo: ci sono delle parti di mano, a leggere le quali l’occhio danza; alcune parti sono di cervello, lo sento dalla elaborazione che richiedono, c’è come una frenata, una mediazione appunto cerebrale. Magari si fosse capaci di scrivere libri solo di mano, come i Buddenbrook. Sono i libri che la sanno più lunga dei loro autori.

 

BM: Laddove A. (il possibile amore numero 1004 della protagonista, capace forse di mettere fine al suo movimento oscillatorio) «non vuole sentir parlare degli altri uomini, non gli interessa; per una questione di “igiene” del nostro rapporto, dice» lei non farebbe altro per ore: «e sempre per una questione igienica, cioè per disinfettare il presente da tutte le scorie del passato». Condivide con la sua voce narrante una simile esigenza igienica nel processo creativo? Ho notato che fa spesso riferimento al principio gaddiano di scrittura come mezzo per ripristinare la propria verità, a cui fa da controcanto la chiamata di Amleto a rimettere in sesto il mondo.

DR: Mi interessa molto, psicologicamente, il passaggio in cui lei identifica senza scarti la relazione d’amore col processo creativo. Eppure, sono due cose diverse. Magari simili, ma eterogenee. Se non altro perché nella relazione si è in due, mentre nel processo creativo si è legione, si è un “io” preso dai vari demoni che questo supposto io autonomo evoca e alimenta. Mentre sono del tutto d’accordo con l’analogia tra esigenza d’igiene e ripristino della verità attraverso la scrittura, la missione gaddiana per eccellenza. In lui, come in Amleto, c’è una esigenza di pulizia e di verità - raggiungibili attraverso la finzione - che è pari solo a quella di Nietzsche (che pure sulla verità era cauto, dato che l’essere umano non ne può sopportare più di tanta senza annientarsi).

 

BM: «Io conosco quell’oscura smania che spinge a mettere insieme una collezione e non consente di fermarsi oltre un certo numero. È una forma di dongiovannismo, di insoddisfazione condannativa, da cui però è tolto il finale tragico, l’epilogo della colpa. Abbiamo un solo dolore: che le nostre cose collezionate ci sopravvivranno e nessuno saprà prendersi cura di loro»: è un discorso che la protagonista fa a proposito del suo collezionismo di profumi e in cui si può facilmente sentire l’eco del modo in cui colleziona e classifica i propri amanti, laddove però per questi ultimi (purtroppo o per fortuna) non sussiste necessariamente l’inconveniente della sopravvivenza postuma (che sia per la capitalistica legge dell’obsolescenza programmata degli amori o per la mera tirannia biologica dei corpi).

“Catalogo” è una delle parole chiave scelte da lei per descrivere il suo romanzo, nell’episodio a esso dedicato del podcast Passeparbook. La componente del titolo su cui ho riflettuto di più anche a lettura finita è proprio quell’ “aggiornato”: sarei molto curioso di sapere in che modo questo catalogo sia stato aggiornato in corso di stesura. 

DR: È aggiornato perché Eros è figlio di Indigenza e di Espediente. Dalla madre prende la miseria, dal padre l’ingegnosità. È sempre all’opera, sempre alacre e mai soddisfatto. Dopo il numero 1004, che è A., proprio quasi a ridosso della fine (una fine con un “eccetera eccetera”), c’è la comparsa sebbene fulminea di un Dioniso, un dio che si chiama C. Un singulto di alfabeto che fa dubitare che la caccia sia finita.

 

BM: Un’altra parola chiave da lei indicata per quell’occasione è “Mappa”, termine che rimanda anche alla natura erratica del desiderio dell’io narrante del romanzo. Con Stradario aggiornato di tutti i miei baci e il suo modo di trattare il desiderio femminile crede di aver aperto uno spazio discorsivo che prima non c’era (guardando in prima istanza al contesto italiano, ma non solo), o era uno spazio semplicemente ignorato o tenuto fuori campo?

DR: Il tipo di desiderio che la protagonista sente incessantemente (fino alla comparsa di A.) non è “sensuale” nel senso in cui lo intende Kierkegaard nel suo saggio su Don Giovanni, un desiderio che induce all’infedeltà non solo delle donne conquistate, ma del tempo; invece il desiderio “psichico” si interroga sul futuro e sulla durata. “Vederla e amarla è una cosa sola, un momento e nello stesso momento tutto è finito, e questo si ripete all’infinito”. Questa è la mappa di Don Giovanni: un tempo di un istante che si brucia all’infinito. La protagonista del mio libro, in questo simile a Don Giovanni, non seduce, bensì desidera. Non mi risulta ci siano profili femminili del genere in letteratura.

 

BM: Elementi cardine attorno cui ruota il romanzo sono l’ironia, definita da lei «un’arte delle distanze», il sarcasmo, di cui la protagonista sottolinea l’etimologia (“lacerare le carni con i denti”), e la comicità, che lei da scrittrice apprezza (e rimette in scena) nei suoi aspetti più ossessivi. Quanto è stato importante riuscire ad alternare questi registri e dosarli per trovare il giusto tono della narrazione?

DR: L’ironia è il registro che amo di più nella vita e nella letteratura. Stimola l’intellezione, non distrugge i valori, come fa invece il cinismo, e non distrugge l’interlocutore, come fa invece il sarcasmo, ma lo usa – ne usa i punti deboli, la magniloquenza e la protervia - per produrre una verità. È uno strumento sovversivo, infatti è più potente quando è diretta contro chi è potente.

 

BM: Due universi simbolici a cui attinge spesso nel corso del romanzo sono quello testamentario cristiano-cattolico e quello mitologico classico, a cui mi sembra corrispondano anche le due ambientazioni con i loro rispettivi sistemi-mondo, ovvero Roma (presente fin dall’incipit, per me folgorante essendo anch’io nato, pur non essendo romano, «sulla barca-vongola di pietra tra le due anse che abbracciano l’Isola Tiberina») e la Sicilia (terra di numi, il cui più recente è nel romanzo nominato con la sola iniziale). È un quadrato semiotico troppo grossolano?

DR: Roma è pagana prima che cristiana, e adesso è preda di un paganesimo turistico che ne fa una merce in vendita sui banchi dei bengalesi. È una necropoli brulicante di corpi vivi, è preda di una burocrazia che invece di fluidificarla la intasa. La Sicilia nel libro non è solo una non-Roma, è una entità affermativa, naturale più che pagana, e araba più che cristiana. Quindi sì, c’è un certo quadrato semiotico, o forse è un chiasmo.

 

 

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Disastrologia di un discorso amoroso. Conversazione con Daniela Ranieri

 

Se per René Girard l'incrociarsi delle linee di fuga del desiderio, esemplificato dal personaggio di Don Chisciotte, dava origine a un assetto triangolare, con Stradario aggiornato di tutti i miei baci (Ponte alle Grazie, 2021) Daniela Ranieri, riprendendo la prossemica di un Don Giovanni declinato al femminile, progetta uno spazio più reticolare, a tratti rizomatico, su cui le macchine desideranti possono sfrecciare, scontrarsi, invertire rotta o deragliare.

Percorrere lo Stradario, candidato da Loredana Lipperini al Premio Strega e da questa definito «un libro che prescinde dalla forma [...] un inganno (non è un memoir) sincero come può esserlo la letteratura», è come bere con una cannuccia il cervello di chi l'ha disegnato, per utilizzare un'immagine che l'io narrante usa per descrivere il proprio rapporto con l'amore: un romanzo-raccordo (più che un romanzo-fiume), trafficato e di non immediata viabilità, che non intende essere scorrevole per non correre il rischio di defluire con troppa facilità.

 

Daniela Ranieri è la decima ospite della nostra rubrica L'ora dello Strega, una serie di conversazioni settimanali incentrate sui dodici libri candidati alla LXXVI edizione del Premio. 

 

 

Biagio Mazzella: A costo di andare immediatamente fuori traccia rispetto al nome della nostra rubrica, non posso non congratularmi con lei per la recentissima nomina di Stradario aggiornato di tutti i miei baci nella cinquina del Premio Campiello (arrivata, tra l’altro, a un anno esatto di distanza dalla data di pubblicazione del romanzo). Che effetto le fa? Si sta abituando alla kermesse dei premi (penso a questi mesi di tournée per lo Strega) o condivide quanto afferma la protagonista del suo libro quando, per consolare uno scrittore istrionico e dall’ego di polistirolo, gli dice che «i premi letterari li danno solo a chi ritengono inferiore. Bravino, ma inferiore»?

Daniela Ranieri: Grazie molte per le congratulazioni. Non avevo notato la coincidenza numerologica, avrebbe aggiunto una quota di “armonia prestabilita”, ma forse anche di ansia, a una serie di fatti che stanno accadendo al mio libro. Ho seguito la cerimonia di proclamazione della cinquina del Campiello per puro caso: la prima reazione è stata di incredulità, dunque anche di una specie di pneumatico distacco. L’io narrante su questo tema è molto più disincantato; l’io scrivente ne è onorato e gratificato. La protagonista del mio libro ha spesso opinioni radicali ed estremamente pessimiste riguardo ai suoi simili. Per di più, è accecata dall’innamoramento per questo scrittore che non vince premi, pur meritandoli, e - come scrive Pavese - una donna innamorata è sempre stupida. Mi rendo conto che il suo giudizio tranchant corre il rischio di diventare una specie di paradosso del mentitore. Se vincessi uno dei due premi, sarei spacciata. Tuttavia, si creerebbe un cortocircuito davvero interessante, che mi piacerebbe molto sperimentare.

 

BM: La protagonista senza nome del suo romanzo osserva come «scrivere ha i suoi propri punti cardinali, svincolati dalla biografia, fuori dalla sua griglia». Quali sono quelli della sua scrittura, e come riesce a far sì che restino saldamente svincolati dal materiale biografico?

DR: La biografia intralcia il processo di creazione di un sé scritturale. Vale in questo caso, come in molte altre questioni, la lezione di Carlo Emilio Gadda: si tratta di cucire una stoffa interna, una fodera di fatti e impressioni biografiche, con la seconda stoffa, esterna, del mondo. Se necessario traslando tutti i fatti, i nomi, i caratteri, i luoghi geografici. Deve esserci uno spostamento della propria biografia, altrimenti si riferisce semplicemente l’accaduto, come si relaziona un fatto a un conoscente. Il materiale biografico è appunto solo materiale, è calce viva; perché diventi utilizzabile, deve essere “spento” con una trasformazione chimica: l’invenzione di sé attraverso il non sé.

 

BM: Il primo consiglio di scrittura che lei dà nella sua Lezione d’autore per Leggiamoci è di inventare, considerando il termine nel suo senso etimologico di “trovare” (da invenire) e sottolineando come “la verità scritturale è diversa dalla verità vera”. La protagonista del suo romanzo riconosce che in amore ha bisogno «non già di menzogna, bensì di un che di indeterminato, immaginativo, nascosto, insomma di non rivelato». E continua: «Nel massimamente vero esigo una quota di verità non ancora scoperta, che come tale può anche essere il suo contrario. Se come essere etico io reclamo la verità, come essere desiderante devo contemplare la non-verità». Questa non-verità, ricercata tanto dalla protagonista negli altri quanto da lei attraverso la scrittura, si avvicina di più a una menzogna romantica o a una verità romanzesca?

DR: Nel caso della scrittura si tratta di un tipo di invenzione che avvicina al vero, perché scrivendo si trova qualcosa che già c’era, ma non era rivelato. C’è una bella differenza tra verità e sincerità. Nello Stradario l’io narrante applica lo stesso processo generativo all’amore: forse troppa verità rivelata distrugge. Eticamente si ha bisogno di sincerità, ma eroticamente si è sempre in cerca di un angolo cieco, di qualcosa di non ancora palese. È come la vertigine: evito le altezze perché le altezze mi attraggono e mi atterriscono. Come persona sono illuminista; come amante sono superstiziosa e soggetta alla cieca e furiosa irrazionalità del mito. Non a caso il libro d’amore più bello mai scritto sono le Eroidi di Ovidio: lettere (scritte da lui, un uomo) di eroine tradite, illuse, ossessionate, abbandonate dai loro amanti, che non rispondono mai (se non in tre casi eccezionali) e che noi non vediamo se non dentro lo spazio oscuro, lo spessore cieco della pagina.

 

BM: Credo, inoltre, che la prima menzogna del romanzo si trovi al di fuori di esso, che sia paratestuale. Faccio riferimento al suo tweet in cui ne annunciava l’uscita, al cui Ps scrive “Non è scorrevole”.

DR: “Scorrevole” è una di quelle parole che, se applicate a un libro, hanno per me un senso deteriore. E invece viene usata per lo più positivamente. Un libro che scorre via non lascia niente, nessun detrito, scarto o memoria. Spero che il mio scorra con difficoltà, che trovi delle resistenze in chi legge, in modo da impigliarsi nella sua mente.

 

BM: Il terzo consiglio che dà a chi scrive è poi quello di essere avvincenti per sé stessi e buttare le parti che si trovano noiose. Considerata la mole del romanzo, una simile dichiarazione di metodo sembra tradire una franca soddisfazione per la sua riuscita finale: vi sono state effettivamente delle parti in eccesso scartate in fase di editing oppure lo Stradario avrebbe potuto continuare a espandersi con ulteriori vicoli, biforcazioni e incroci anche ben oltre le pagine attuali, come sembra suggerire quell’eccetera, eccetera che precede la parola FINE?

DR: Valgono entrambe le asserzioni. Ho tagliato in fase di editing l’equivalente di circa ulteriori 120 pagine. In effetti erano quelle che mi ero divertita a scrivere, ma non altrettanto a leggere. Allo stesso tempo, avrebbe potuto continuare a prendere biforcazioni e digressioni, in altre direzioni. Lo considero un libro non finito.

 

BM: Nella stessa lezione fa anche riferimento alla distinzione chiamata in causa da Claudio Magris per descrivere Thomas Mann, ovvero quella tra scrittori di mano e scrittori di cervello (ponendo Mann tra gli scrittori della prima categoria di coloro che, seguendo la penna, quasi non si rendono conto cosa stanno scrivendo): nella stesura di questo romanzo pensa di aver lavorato più di mano o di cervello?

DR: Lo dico a posteriori, perché mentre scrivo non ho alcuna idea di come stia procedendo: ci sono delle parti di mano, a leggere le quali l’occhio danza; alcune parti sono di cervello, lo sento dalla elaborazione che richiedono, c’è come una frenata, una mediazione appunto cerebrale. Magari si fosse capaci di scrivere libri solo di mano, come i Buddenbrook. Sono i libri che la sanno più lunga dei loro autori.

 

BM: Laddove A. (il possibile amore numero 1004 della protagonista, capace forse di mettere fine al suo movimento oscillatorio) «non vuole sentir parlare degli altri uomini, non gli interessa; per una questione di “igiene” del nostro rapporto, dice» lei non farebbe altro per ore: «e sempre per una questione igienica, cioè per disinfettare il presente da tutte le scorie del passato». Condivide con la sua voce narrante una simile esigenza igienica nel processo creativo? Ho notato che fa spesso riferimento al principio gaddiano di scrittura come mezzo per ripristinare la propria verità, a cui fa da controcanto la chiamata di Amleto a rimettere in sesto il mondo.

DR: Mi interessa molto, psicologicamente, il passaggio in cui lei identifica senza scarti la relazione d’amore col processo creativo. Eppure, sono due cose diverse. Magari simili, ma eterogenee. Se non altro perché nella relazione si è in due, mentre nel processo creativo si è legione, si è un “io” preso dai vari demoni che questo supposto io autonomo evoca e alimenta. Mentre sono del tutto d’accordo con l’analogia tra esigenza d’igiene e ripristino della verità attraverso la scrittura, la missione gaddiana per eccellenza. In lui, come in Amleto, c’è una esigenza di pulizia e di verità - raggiungibili attraverso la finzione - che è pari solo a quella di Nietzsche (che pure sulla verità era cauto, dato che l’essere umano non ne può sopportare più di tanta senza annientarsi).

 

BM: «Io conosco quell’oscura smania che spinge a mettere insieme una collezione e non consente di fermarsi oltre un certo numero. È una forma di dongiovannismo, di insoddisfazione condannativa, da cui però è tolto il finale tragico, l’epilogo della colpa. Abbiamo un solo dolore: che le nostre cose collezionate ci sopravvivranno e nessuno saprà prendersi cura di loro»: è un discorso che la protagonista fa a proposito del suo collezionismo di profumi e in cui si può facilmente sentire l’eco del modo in cui colleziona e classifica i propri amanti, laddove però per questi ultimi (purtroppo o per fortuna) non sussiste necessariamente l’inconveniente della sopravvivenza postuma (che sia per la capitalistica legge dell’obsolescenza programmata degli amori o per la mera tirannia biologica dei corpi).

“Catalogo” è una delle parole chiave scelte da lei per descrivere il suo romanzo, nell’episodio a esso dedicato del podcast Passeparbook. La componente del titolo su cui ho riflettuto di più anche a lettura finita è proprio quell’ “aggiornato”: sarei molto curioso di sapere in che modo questo catalogo sia stato aggiornato in corso di stesura. 

DR: È aggiornato perché Eros è figlio di Indigenza e di Espediente. Dalla madre prende la miseria, dal padre l’ingegnosità. È sempre all’opera, sempre alacre e mai soddisfatto. Dopo il numero 1004, che è A., proprio quasi a ridosso della fine (una fine con un “eccetera eccetera”), c’è la comparsa sebbene fulminea di un Dioniso, un dio che si chiama C. Un singulto di alfabeto che fa dubitare che la caccia sia finita.

 

BM: Un’altra parola chiave da lei indicata per quell’occasione è “Mappa”, termine che rimanda anche alla natura erratica del desiderio dell’io narrante del romanzo. Con Stradario aggiornato di tutti i miei baci e il suo modo di trattare il desiderio femminile crede di aver aperto uno spazio discorsivo che prima non c’era (guardando in prima istanza al contesto italiano, ma non solo), o era uno spazio semplicemente ignorato o tenuto fuori campo?

DR: Il tipo di desiderio che la protagonista sente incessantemente (fino alla comparsa di A.) non è “sensuale” nel senso in cui lo intende Kierkegaard nel suo saggio su Don Giovanni, un desiderio che induce all’infedeltà non solo delle donne conquistate, ma del tempo; invece il desiderio “psichico” si interroga sul futuro e sulla durata. “Vederla e amarla è una cosa sola, un momento e nello stesso momento tutto è finito, e questo si ripete all’infinito”. Questa è la mappa di Don Giovanni: un tempo di un istante che si brucia all’infinito. La protagonista del mio libro, in questo simile a Don Giovanni, non seduce, bensì desidera. Non mi risulta ci siano profili femminili del genere in letteratura.

 

BM: Elementi cardine attorno cui ruota il romanzo sono l’ironia, definita da lei «un’arte delle distanze», il sarcasmo, di cui la protagonista sottolinea l’etimologia (“lacerare le carni con i denti”), e la comicità, che lei da scrittrice apprezza (e rimette in scena) nei suoi aspetti più ossessivi. Quanto è stato importante riuscire ad alternare questi registri e dosarli per trovare il giusto tono della narrazione?

DR: L’ironia è il registro che amo di più nella vita e nella letteratura. Stimola l’intellezione, non distrugge i valori, come fa invece il cinismo, e non distrugge l’interlocutore, come fa invece il sarcasmo, ma lo usa – ne usa i punti deboli, la magniloquenza e la protervia - per produrre una verità. È uno strumento sovversivo, infatti è più potente quando è diretta contro chi è potente.

 

BM: Due universi simbolici a cui attinge spesso nel corso del romanzo sono quello testamentario cristiano-cattolico e quello mitologico classico, a cui mi sembra corrispondano anche le due ambientazioni con i loro rispettivi sistemi-mondo, ovvero Roma (presente fin dall’incipit, per me folgorante essendo anch’io nato, pur non essendo romano, «sulla barca-vongola di pietra tra le due anse che abbracciano l’Isola Tiberina») e la Sicilia (terra di numi, il cui più recente è nel romanzo nominato con la sola iniziale). È un quadrato semiotico troppo grossolano?

DR: Roma è pagana prima che cristiana, e adesso è preda di un paganesimo turistico che ne fa una merce in vendita sui banchi dei bengalesi. È una necropoli brulicante di corpi vivi, è preda di una burocrazia che invece di fluidificarla la intasa. La Sicilia nel libro non è solo una non-Roma, è una entità affermativa, naturale più che pagana, e araba più che cristiana. Quindi sì, c’è un certo quadrato semiotico, o forse è un chiasmo.

 

 

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Lei che mi guarda, lei che mi racconta

 

«Io mi sono sentita inventata dai maschi, colonizzata dalla loro immaginazione»: è questa la formula con cui Elena Greco, scrittrice in procinto di diventare conosciuta anche oltralpe, esordisce tutte le sere durante le presentazioni della traduzione francese di un suo pamphlet dedicato alle rappresentazioni maschili delle donne nel corso della storia del pensiero. In maniera non dissimile Elena Ferrante, che di Lenù è ideatrice e mater incerta, nella sua prima di tre lectiones magistrales tenute a Bologna lo scorso novembre in onore della memoria di Umberto Eco, intitolata La pena e la penna, per bocca dell’attrice Manuela Mandracchia ha raccontato di un suo «inceppo residuale», un’impasse per la quale non è quasi mai riuscita a togliersi completamente la sensazione che a limitare la sua scrittura fosse proprio il suo cervello di donna, «come una lentezza congenita»: non bastava la difficoltà già intrinseca nella pratica della scrittura, ma a questa, scrive Ferrante, «si aggiungeva che ero femmina e perciò non sarei mai riuscita a fare libri come quelli dei grandi scrittori». Già in un’intervista del 2015, pubblicata successivamente insieme ad altre in una riedizione della collettanea La frantumaglia, era possibile leggere il manifestarsi di un sentimento simile: «Sono cresciuta nell’idea che se non mi fossi lasciata assorbire il più possibile dal mondo degli uomini di grandi capacità, se non avessi imparato dalla loro eccellenza culturale, se non avessi superato brillantemente tutti gli esami a cui quel mondo mi sottoponeva, sarebbe stato come non esistere».

 

La svolta grazie alla quale ha potuto conoscere una diversa modalità “di esistere” le è arrivata dall’incontro col pensiero femminista, esperienza così dirompente da essere descritta come capace di “rovesciarle la testa”. Si è così resa conto di dover invertire la tendenza: «dovevo partire da me e dalla relazione con le altre se volevo davvero dare forma a me stessa». Un simile insegnamento le viene offerto, tra le altre, dalla filosofa della differenza Adriana Cavarero nel suo imprescindibile Tu che mi guardi, tu che mi racconti, lettura a cui la scrittrice senza volto dice di essersi dedicata una prima volta con esiti dolorosi, salvo poi inserirlo tra la rosa di libri da cui avrebbe tratto maggiormente influenza, assieme al manifesto di Donna Haraway e a Menzogna e sortilegio di Elsa Morante.

 

Il testo di Cavarero, pubblicato da Feltrinelli nel 1997 e oggi pressoché introvabile (ogni occasione è buona per fare alla casa editrice un appello per una ristampa), evidenzia la paradossale situazione in cui versa il soggetto femminile: se da un lato le donne si sono storicamente ritrovate «estranee alla forma del soggetto e deportate nel luogo dell’oggetto», dall’altro è involontariamente toccata loro anche una grande fortuna, vale a dire «quella di sottrarsi, senza sforzo alcuno, all’enfasi del vecchio gioco in cui campeggia l’autorappresentazione. […] Il discorso sull’universale, con il suo amore per l’astratto e la sua logica definitoria, è da sempre una faccenda per soli uomini. La scissione fra universalità e unicità, fra filosofia e narrazione, segna sin dall’inizio una tragedia maschile».

 

Un simile scarto tra il soggetto maschile e femminile è reso evidente in quello che Cavarero definisce “paradosso di Ulisse”, nome con cui la filosofa identifica quella situazione in cui si riceve la propria storia dalla narrazione altrui: nel libro VIII dell’Odissea viene infatti riportato come l’eroe di Itaca, ospitato in incognito alla corte dei Feaci, si commuova per la prima volta nell’ascoltare il canto dell’aedo che, narrando gli accadimenti della guerra di Troia, racconta anche la storia delle sue imprese. Riprendendo quanto afferma Hannah Arendt in La vita della mente nell’analizzare lo stesso passaggio, Cavarero nota come il rapporto tra Ulisse e l’aedo sia perfettamente simmetrico: alla cecità dell’aedo, che richiama tanto quella tipicamente degli oracoli quanto di Omero stesso, si contrappone lo sguardo dello spettatore, sottolineando così lo scarto che intercorre tra azione e narrazione: a differenza dello spettatore, il narratore non è presente agli accadimenti che tratta e ha perciò su di essi, come lo storico, uno “sguardo retrospettivo”. Nella prospettiva di Cavarero il sé narrabile, aspetto costitutivo dell’unicità, non si configura dunque come il risultato di un’esperienza individuale e separata come il prodotto della propria memoria, ma esso consiste piuttosto nel «sapore familiare di ogni sé nella distensione temporale del suo consistere in una storia di vita che è questa e non altra». L’esistente si presenta così al tempo stesso esponibile e in virtù di ciò narrabile, necessariamente costituito nella relazione con l’altro.

 

Dalle lacrime dell’eroe omerico versate nell’ascoltare la cronaca delle sue epiche gesta, Cavarero prosegue col riportare quelle di una persona ben più ordinaria il cui desiderio di narrazione sembrerebbe quasi non trovare (in un quadro arendtiano) la stessa giustificazione di quello del primo. Questa seconda storia vede protagoniste due amiche di nome Emilia e Amalia ed è tratta da Non credere di avere diritti, volume collettivo pubblicato nel 1987 dalla Libreria delle donne di Milano. Negli anni settanta Emilia e Amalia frequentano a Milano i corsi delle 150 ore con l’obiettivo, condiviso con le altre donne tornate a scuola, di «pensare che il mio io esiste». Laddove Amalia dimostra di avere il dono di riuscire a esprimersi tanto bene oralmente quanto con la parola scritta, Emilia, pur cimentandosi più volte al giorno in tentativi con cui cerca alla bell’e meglio di raccontare all’amica la propria storia, non ottiene alcun risultato se non provocare noia nella controparte che è costretta ad ascoltarla. Questa differenza diventa infatti lampante ogni volta che le due si scambiano i rispettivi esercizi di scrittura; percependo il dolore provato dall’amica difronte alla propria incapacità, Amalia decide dunque di prendere l’iniziativa: «una volta le ho scritto la sua storia di vita vissuta, perché ormai la sapevo a memoria, e lei se la portava sempre in borsa e la rileggeva tutta commossa».

 

Se a una prima impressione questo caso può sembrare una riproposizione nella periferia milanese dell’episodio di Ulisse, a una più attenta analisi emerge una notevole differenza. Nel contesto omerico l’aedo e Ulisse sono rispettivamente degli estranei: il primo non sa di star cantando la storia del secondo alla sua presenza, né quest’ultimo gli ha mai riferito direttamente la propria vita. Con Amalia ed Emilia ci troviamo invece di fronte a due amiche, dove «la prima scrive la storia della seconda perché questa gliela racconta di continuo e disordinatamente, manifestandole il suo ostinato desiderio di narrazione», scrive Cavarero. Laddove Emilia da sola non sarebbe stata in grado di produrre la propria autobiografia, dall’incontro con Amalia «il chi di Emilia si manifesta qui con chiarezza nella percezione di un sé narrabile che desidera il racconto della propria storia di vita, ma è l’altra – l’amica che riconosce la radice ontologica di questo desiderio – la sola a poter realizzare tale narrazione».

 

Nel soddisfacimento di questo desiderio Cavarero ravvisa l’aprirsi di un inedito spazio di soggettivazione politica, laddove molte donne, come Emilia, non hanno mai fatto esperienza di uno spazio plurale e interattivo di esibizione che è il solo, in senso arendtiano, a meritare il nome di politica. Se una situazione di generale spoliticizzazione può da un lato sembrare trasversale a quell’altezza del XX secolo, nel caso dei soggetti femminili l’assenza di una scena dove esibire la propria unicità è storicamente accompagnata alla loro costitutiva estraneità alle rappresentazioni del soggetto che regna nell’ordine simbolico patriarcale, dove è il soggetto androcentrico a definire in vario modo cosa esse sono. Da questa collocazione ne deriverebbe, come già accennato in precedenza, anche un apprezzabile vantaggio: «le donne hanno assai meno probabilità di compiere quel formidabile errore che consiste nello scambiare lo statuto irripetibile dell’unicità con lo statuo astratto dell’uomo». È in questo senso che le lacrime di Emilia hanno un sapore radicalmente diverso da quelle di Ulisse, ed è proprio la relazione di amicizia e mutuo riconoscimento che intrattiene con Amalia a poter divenire paradigma di nuovi processi di soggettivazione:

 

Non dissolvo ambedue in una comune identità né metabolizzo il tuo racconto per costruire il senso del mio. Riconosco, al contrario, che la tua unicità si espone al mio sguardo e consiste in una storia irripetibile di cui desideri il racconto. Tale riconoscimento, dunque, non ha affatto una forma che possa definirsi dialettica, ossia non supera e salva il finito nel movimento circolare di una sintesi più alta. L’altro necessario è infatti qui un finito che rimane irrimediabilmente un altro in tutta l’insostituibilità, fragile e ingiudicabile, del suo esistere (Cavarero 1997, p. 120).

 

La tetralogia dell’Amica geniale nasce dall’idea di scrivere un racconto capace di mostrare «quanto è difficile cancellarsi, alla lettera, dalla faccia della terra», dove per Ferrante cancellazione implica «sottrarsi sistematicamente alle smanie del proprio ego, fino a farne un modo di vivere». L’autrice scandaglia un sentimento che a suo dire accomuna l’esperienza di tutte le donne e che «ha a che fare con l’essere ricacciata indietro, ma anche col cacciarsi indietro. […] Ogni volta che emerge una parte di te non coerente col femminile canonico, senti che quella parte causa disagio a te e agli altri, che ti conviene farla sparire in fretta». Sin dalle primissime pagine Lenù intraprende un’attività ordinatrice d’opposizione e resistenza a una simile tendenza, proponendosi «di impedire alla sua amica Lila di sparire. Come? Scrivendo».

 

Da qui si dipana una narrazione che copre oltre cinque decenni di amicizia femminile, dimensione storicamente «lasciata senza regole» e forse proprio in virtù di ciò «sintomaticamente un’amicizia che ha eminenti caratteri narrativi». Il modello di vicendevole supporto prospettatoci da Cavarero con Amalia ed Emilia è però, nel caso di Lenù e Lila, una possibilità irrealizzata a cui la prima potrà solo riflettere retrospettivamente:

 

Finivo a volte per immaginarmi che cosa sarebbe stata la mia vita e quella di Lila se avessimo fatto entrambe l’esame di ammissione alla scuola media e poi il liceo e poi tutti gli studi fino alla laurea, gomito a gomito, affiatate, una coppia perfetta che somma energie intellettuali, piaceri della comprensione e dell’immaginazione. Avremmo scritto insieme, avremmo firmato insieme, avremmo tratto potenza l’una dall’altra, ci saremmo battute spalla a spalla perché ciò che era nostro fosse inimitabilmente nostro. È un dispiacere la solitudine femminile delle teste, mi dicevo, è uno sciupio questo tagliarsi via l’una dall’altra, senza protocolli, senza tradizione (Ferrante 2013, p. 323).

Isabella Pinto nel suo Elena Ferrante: Poetiche e politiche della soggettività, prima monografia italiana dedicata all’opera della scrittrice senza volto, ha opportunamente notato come Ferrante sia riuscita a complessificare ulteriormente l’archetipo di amicizia di Cavarero, introducendo un’aritmia capace di intaccare la risoluzione femminista del “paradosso di Ulisse”: a differenza dell’episodio di Amalia ed Emilia dove la conservazione della reciproca differenza permette anche di salvaguardare l’unicità di entrambe, con Lila e Lenù la relazione è resa conflittuale poiché Ferrante mette in scena uno spazio in cui entrambe le figure femminili competono con l’obiettivo di porsi nella posizione di creatrice.

 

La differenza, sempre lungi dal risolversi in sintesi dialettica ma altrettanto lontana dall’acquietarsi in una pacifica simbiosi, diventa così motore di una tensione produttrice da cui l’intero racconto trae la propria linfa: «Se le due amiche avessero lo stesso passo, sarebbero l’una un doppio dell’altra, a turno si manifesterebbero come voce segreta, immagine nello specchio o altro. Ma non è così. Il passo si rompe fin dall’inizio, e a generare lo scarto non è solo Lila, ma anche Lenù». Essenziale a tal riguardo risulta il gioco delle persone di soggetto che accomuna la narrazione dell’Amica geniale a quella dei tre libri precedenti della scrittrice napoletana, congegno narrativo che avremo modo di mettere a tema nella seconda parte di questo articolo.

 

[leggi la seconda parte]

 

Per saperne di più

La tetralogia dell’Amica geniale è composta dai volumi L’amica geniale (2011), Storia del nuovo cognome (2012), Storia di chi fugge e di chi resta (2013) e Storia della bambina perduta (2014), tutti pubblicati per Edizioni e/o. Le dichiarazioni di Elena Ferrante sono tratte dalla sua raccolta di dialoghi e interviste La frantumaglia. Nuova edizione ampliata, Roma: Edizioni e/o (2016). La trascrizione delle Umberto Eco Lectures è stata pubblicata nel volume I margini e il dettato, Roma: Edizioni e/o (2021). 

Il testo di Adriana Cavarero, cardine nel pensiero femminista italiano e oltre, è Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano: Feltrinelli (1997), che a sua volta trae la storia dell’amicizia tra Amalia ed Emilia dal testo della Libreria delle donne di Milano: Non credere di avere dei diritti, Torino: Rosenberg e Sellier (1987). 

Per approfondire la poetica di Elena Ferrante in tutte le sue opere, si consiglia la monografia di Isabella Pinto Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività, Milano-Udine: Mimesis Edizioni (2020). 

 

 

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Lei che mi guarda, lei che mi racconta

 

 «Ah, Lenù, che ci succede a tutti quanti, siamo come i tubi quando l’acqua gela, che brutta cosa è la testa scontenta. Ti ricordi quello che facemmo con la mia foto da sposa? Voglio continuare per quella strada. Viene il giorno che mi riduco tutta a diagrammi, divento un nastro bucherellato e non mi ritrovi più»: è con questo presagio che nel terzo volume dell’Amica geniale (trasposto sul piccolo schermo nell’omonima serie televisiva, la cui terza stagione è tornata proprio la scorsa domenica con la messa in onda dei suoi primi due episodi) Lila sembra voler anticipare all’amica la fine della sua storia, una dichiarazione di intenti che parrebbe accomunarla alla stessa Elena Ferrante.

 

Isabella Pinto ha sottolineato come nella tetralogia l’identità sia «una questione di differenza e di metamorfosi, che può esprimersi nello spazio della relazione tra due bambine, parzialmente libero da regole predeterminate, poiché porzione di realtà impensata dalla cultura dominante: lo schema narrativo non è quello dell’identità intesa come intensificazione o immedesimazione, ma della differenza intesa come relazione». La dimensione conflittuale riesce a sconfinare dall’ambito meramente diegetico e straripare nella scrittura stessa con cui Lenù si confronta e affronta l’amica: emblematico è il momento in cui questa, pur avendo completato brillantemente i suoi studi ed essendosi affermatasi come scrittrice rispettata, riconosce a se stessa l’agrodolce verità: «ero voluta diventare qualcosa – ecco il punto – solo perché temevo che Lila diventasse chissà chi e io restassi indietro. Il mio diventare era diventare dentro la sua scia [in corsivo nel testo]. Dovevo ricominciare a diventare, ma per me, da adulta, fuori di lei». La caratteristica di fondo della scrittura di Lenù è infatti quella di essere immaginata e rappresentata come dipendente da quella di Lila, a cui abbiamo però accesso soltanto attraverso le modalità con cui la prima se ne serve. L’influenza è duplice ed è esercitata tanto su un piano immanente, grazie alla lettura di quelle poche ma deflagranti pagine scritte da Lila che Lenù ha avuto modo di leggere, quanto su quello ideale, dove la scrittura potenziale di Lila, quella che avrebbe potuto esercitare qualora avesse continuato gli studi al fianco dell’amica, diventa un orizzonte a cui tendere e da sfidare con la consapevolezza di uscirne sempre sconfitta. Commovente ed esemplare risulta a tal proposito il passaggio in cui Lenù ne rintraccia il temperamento e i contorni in quella di Carla Lonzi.

 

Il congegno semiotico che fa muovere le fila della narrazione è formalizzato a posteriori dalla stessa Ferrante: «Lenù è una scrittrice, il testo che leggiamo è il suo; la scrittura di Lenù nasce, come tante altre cose della sua esperienza, da una sorta di gara segreta con Lila; Lila stessa, infatti, ha da sempre una sua scrittura non mimata e forse non mimabile che agisce su Lenù come un pungolo; il testo che leggiamo quindi conserva sicuramente tracce di quel pungolo; la scrittura di Lila, insomma, è inscritta nella scrittura di Elena, che lei sia intervenuta o no direttamente sul testo» e di ciò dimostra di avere un certo grado di consapevolezza anche Lenù stessa:

 

Ma sto mettendo insieme solo ipotesi, avrei bisogno di confrontarmi con lei, ascoltare le sue rimostranze, spiegarmi. A tratti mi sento in colpa e la capisco. A tratti la detesto per questa sua scelta di tagliarmi via da sé così nettamente proprio adesso, in vecchiaia, quando avremmo bisogno di vicinanza e solidarietà […] C’entriamo sempre e soltanto noi due: lei vuole che io dia ciò che la sua natura e le circostanze le hanno impedito di dare, io che non riesco a dare ciò che lei pretende; lei che si arrabbia per la mia insufficienza e per ripicca vuole ridurmi a niente come ha fatto con se stessa, io che ho scritto mesi e mesi per darle una forma che non si smargini, e batterla, e calmarla, e così a mia volta calmarmi (Ferrante 2014, p. 444).

 

La scena del secondo libro in cui Lila fa a pezzi la propria foto in abito da sposa per poi ricomporne l’immagine non è che la reazione uguale e contraria a un simile sentimento, divenuta anche una rappresentazione plastica e poietica di un concetto molto caro a Ferrante, vale a dire quello di frantumaglia. Parola che riprende da un modo di dire utilizzato dalla madre, con frantumaglia Ferrante intende denominare «la parte di noi che sfugge alla riduzione in parole o ad altre forme e che nei momenti di crisi riduce a se stessa, dissolve, l’intero ordine dentro cui ci pareva di essere stabilmente inseriti. Ogni interiorità, al fondo, è un magma che urta contro l’autocontrollo, ed è quel magma che bisogna provare a raccontare, se vogliamo che la pagina abbia energia». Questo magma caratterizza ogni tipo di soggettività, ma è in quelle femminili che sembra esplodere con particolare tumulto:

 

Se fossimo fatti solo di due metà, la vita individuale sarebbe semplice, ma l’io è una folla, gli si agitano dentro una gran quantità di frammenti eterogenei. E specialmente l’io femminile, con la sua lunghissima storia di oppressione e repressione, tende, rivoltandosi, a frantumarsi e ricomporsi e ancora frantumarsi in modo sempre imprevisto. I racconti si nutrono di questa frantumaglia che cova sotto un’apparenza unitaria e che costituisce una sorta di disordine di partenza, di opacità da illuminare (Ferrante 2016, p. 312).

 

Riuscire a rendere giustizia dei frammenti di quest’io femminile è per sua stessa ammissione uno dei tratti sui quali Ferrante ha lavorato maggiormente nel corso della sua intera produzione, al fine di ottenerne una rappresentazione il cui lessico «nella struttura delle frasi, nell’oscillazione dei registri espressivi, mostrasse solidità di intenti, un sincero pensare e sentire, e contemporaneamente avesse pensieri, sentimenti e azioni riprovevoli». Un simile tentativo è stato ascritto a quella tradizione di Écriture féminine nei tratti delineati da filosofe come Luce Irigaray e Hélène Cixous. Per quanto Ferrante abbia riconosciuto che le pratiche e le culture femministe abbiano occupato un posto fondamentale nella sua formazione, è però sempre lei a specificare come «narrare non significa fare del mio racconto il tassello di una battaglia politico-culturale, foss’anche giusta. Temo la linearità delle militanze, in letteratura hanno un pessimo effetto. Io racconto punti di incoerenza». La semiologa Cristina Demaria nel ricostruirne la storia spiega come l’approccio dell’écriture féminine «affidandosi alla figura del corpo femminile, sia stato spesso tacciato di essenzialismo biologico, o comunque di rimanere ancorato a una visione dicotomica della differenza sessuale: come se il corpo che deve venire alla scrittura fosse il corpo di tutte le donne, in attesa solo di essere “parlato”». A partire dagli anni ottanta, grazie soprattutto all’impronta che l’opera di Foucault inizia a esercitare sulle teorie femministe, «riscrivere il corpo non significa più ricostruire e riscrivere il mondo (simbolico), come è stato per l’écriture, bensì elaborare un insieme di tattiche discorsive per riposizionare la soggettività».

 

È nelle strategie di quest’ultimo contesto che ci viene più naturale situare quei punti di incoerenza non lineari a cui fa riferimento la scrittrice napoletana quando scrive: «Preferisco pensarmi all’interno di una matassa ingarbugliata, le matasse ingarbugliate mi attraggono. Credo che sia necessario raccontare il garbuglio delle esistenze e delle generazioni. Cercare il bandolo è utile, ma la letteratura si fa col garbuglio». La frantumaglia di Ferrante è parente stretta della de-soggettivazione della filosofa postumanista Rosi Braidotti, processo che «comprende al contempo componenti affettive e cognitive. Come esperienza del limite essa indica le soglie di (in)sostenibilità, vale a dire che richiede la consapevolezza della fragilità e il riconoscimento della contingenza e in tal modo esorta il soggetto ad agire in base a questa consapevolezza».

 

Sulla scorta della lettura della filosofia spinoziana di Genevieve Lloyd, Braidotti tratteggia un sé composto da «una serie di “incastri di individui contenuti gli uni dentro gli altri”. Seguendo questo significato più ampio di individuo, un’interpretazione del sé individuale ripiegata su se stessa non solo è in errore, ma è anche un giudizio cognitivo ed etico distorto. L’individuo chiuso in sé non riesce a vedere l’interconnessione come parte integrante della sua natura, quindi non è in grado di capire adeguatamente se stesso/a». Sotto quest’ottica sarebbe da leggersi tanto il desiderio di sparizione di Lila con cui si apre e chiude la tetralogia quanto quello della sua autrice stessa di mostrarsi nascondendosi, rivendicando la positività insita nel gesto di sottrazione:

 

Sono sempre stata affascinata da chi – di fronte a un mondo così pieno di orrori da risultare insopportabile – constata che la condizione umana è immodificabile, che la natura è un congegno mostruoso, che l’umanità produce a ciclo continuo la disumanità anche quando è animata da buoni propositi, e quindi si tira indietro […]. Non parlo del suicidio. Parlo di non partecipazione, di sottrazione di sé. La frase: “io non ci sto”, quando arriva dal fondo dell’insopportabile, a me pare una frase densa, carica di senso, e tutta da raccontare (Ferrante 2016, pp. 328-329).

Particolarmente cara le è infatti una citazione di Keats per cui “il poeta non ha identità”, principio che nomina in più interviste e che interpreta come modo per intendere che «l’unica identità che conti è quella dell’organismo immateriale che respira nell’opera e che si sprigiona per il lettore, non certo quella che ti attribuisci a cose fatte quando dici: sono un’autrice, ho scritto questo libro». L’aspetto straordinario della parola scritta per Ferrante sta nella sua capacità di fare «costituzionalmente a meno della tua presenza e per molti aspetti anche delle intenzioni con cui l’hai usata» e per tale ragione «l’unico spazio in cui il lettore dovrebbe cercare e trovare l’autore è la sua scrittura». Avendo bisogno più di un lettore di quanto non ne abbia di uno scrittore, la narrazione e il desiderio che essa sprigiona manifestano ciò che sostiene Adriana Cavarero nel dire che «l’unità del sé […] ha nel racconto altrui il suo indispensabile incipit ma mai il suo finale godibile».

 

Cavarero aveva infatti già notato come «autobiografia e biografia, pur essendo generi diversi del racconto, sembrano non poter stare l’una senza l’altra nell’economia di un comune desiderio» ed è nuovamente Isabella Pinto a considerare come quello dell’autobiografia sia paradossalmente il genere che al tempo stesso più si allontana e più si avvicina alla poetica di Ferrante: «si allontana in quanto genere letterario che pretende di raccontare i veri fatti e la pura verità sulla vita extraletteraria di chi scrive; si avvicina perché l’autrice usa tutti i meccanismi e le tecniche proprie di questo genere letterario per costruire un’“immagine d’autore” in grado di svolgere le funzioni di veridizione e di valorizzazione attivate dal “patto autobiografico”». La “realfinzione” di Ferrante è così un tipo scrittura che «diffrange l’autorialità, a partire da un’operazione di taglio simbolico della soggettività» e che trova la sua genealogia nel continuum della “naturcultura” di Donna Haraway.

 

In conversazione con Nicola Lagioia, Elena Ferrante rende palpabile come il suo milieu di appartenenza le sia stato di fondamentale importanza nello sviluppo di una sua peculiare forma di vita: «Certi ambienti napoletani poveri erano affollati, sì, e chiassosi. Raccogliersi in sé, come si dice, era materialmente impossibile. Si imparava prestissimo ad avere la massima concentrazione nel massimo disturbo. L’idea che ogni io è, in gran parte, fatto di altri e dall’altro non era una conquista teorica, ma una realtà [corsivo mio]. Essere vivi significava urtare di continuo contro l’esistenza altrui ed esserne urtati, con esiti ora bonari, l’attimo dopo aggressivi, quindi di nuovo bonari». Dentro come fuori dal rione, alcune soggettività che abitano il margine riescono ad acquisire quell’eccentrico privilegio epistemico che consente loro di osservare autenticamente la propria condizione al riparo dalla morsa dello sguardo universalizzante, percorrendo la strada di Braidotti quand’ella sottolinea come «per raggiungere una visione postidentitaria o non unitaria del sé è necessaria la disidentificazione dai riferimenti prestabiliti. Una tale impresa provoca un senso di perdita delle consuete abitudini di pensiero e rappresentanza, e quindi non è priva di dolore. Nessun processo di presa di coscienza lo è».

 

Il dolore della disidentificazione necessaria a una simile presa di coscienza è lo stesso degli spigoli della frantumaglia in cui è impossibile riflettersi, così come il capogiro disorientante della smarginatura ci ricorda costantemente l’arbitrarietà porosa dei confini della propria soggettività: il desiderio di narrazione della propria storia porta così con sé quello di contaminazione e di ricerca di una cura non innocente.

 

Gli altri nell’accezione più ampia, come dicevo, ci urtano di continuo e noi facciamo lo stesso con loro. La nostra singolarità, la nostra unicità, la nostra identità si crepano senza sosta. Quando alla fine di una giornata esclamiamo: mi sento a pezzi, non c’è niente di più letteralmente vero. A guardar bene, siamo le spinte destabilizzanti che subiamo o che diamo, e la storia di quelle spinte è la nostra vera storia. Raccontarla significa raccontare compenetrazioni, un subbuglio, anche, tecnicamente, una commistione incongrua di registri espressivi, di codici e di generi. Siamo frammenti eterogenei che, grazie a effetti di compattezza – stanno insieme malgrado la loro casualità e contraddittorietà. La colla più a buon mercato è lo stereotipo. Gli stereotipi ci acquietano. Ma il problema è, come dice Lila, che anche solo per pochi secondi si smarginano sospingendoci nel panico. Nell’Amica geniale, almeno nelle intenzioni, c’è un dosaggio meticoloso tra stereotipia e smarginatura (Ferrante 2016, p. 358).

 

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Per saperne di più

La tetralogia dell’Amica geniale è composta dai volumi L’amica geniale (2011), Storia del nuovo cognome (2012), Storia di chi fugge e di chi resta (2013) e Storia della bambina perduta (2014), tutti pubblicati per Edizioni e/o. Le dichiarazioni di Elena Ferrante sono tratte dalla sua raccolta di dialoghi e interviste La frantumaglia. Nuova edizione ampliata, Roma: Edizioni e/o (2016). La trascrizione delle Umberto Eco Lectures è stata pubblicata nel volume I margini e il dettato, Roma: Edizioni e/o (2021). 

Il testo di Adriana Cavarero, cardine nel pensiero femminista italiano e oltre, è Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano: Feltrinelli (1997), che a sua volta trae la storia dell’amicizia tra Amalia ed Emilia dal testo della Libreria delle donne di Milano: Non credere di avere dei diritti, Torino: Rosenberg e Sellier (1987). 

Per approfondire la poetica di Elena Ferrante in tutte le sue opere, si consiglia la monografia di Isabella Pinto Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività, Milano-Udine: Mimesis Edizioni (2020). 

Per un’analisi semiotica delle questioni di genere, che possa però essere anche un’ottima introduzione al pensiero filosofico femminista tout court, si veda Cristina Demaria, Teorie di genere. Femminismi e semiotica, Milano: Bompiani (2019). L’idea di soggettività nomade è delineata da Rosi Braidotti, tra i suoi vari testi, in Materialismo radicale. Itinerari etici per cyborg e cattive ragazze, tradotto in italiano da Angela Balzano per la collana Culture Radicali di Meltemi (2019).

 

 

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