Il Chiasmo

Gina Bellomo

Nata a Canicattì nel 1997, Gina Bellomo è allieva del Collegio Superiore di Bologna. Si è laureata in triennale in Lettere Classiche con la tesi interdisciplinare Dante e Dante Gabriel: l'influenza di Dante e del Medioevo italiano sulla famiglia Rossetti. Durante la laurea magistrale si è dedicata alla poesia contemporanea e soprattutto alla ‘letteratura siciliana’, laureandosi in Italianistica con una tesi sulla poesia di Gesualdo Bufalino dal titolo «La Sicilia, il suo cuore»: la ‘funzione Sicilia’ nell’Amaro miele di Gesualdo Bufalino. Considerazioni tematiche, metriche e stilistiche, per la quale ha condotto ricerche d’archivio a Parigi e presso la Fondazione Sciascia di Racalmuto e la Fondazione Bufalino di Comiso. I suoi articoli compaiono su «Pirandelliana. Rivista internazionale di studi e documenti», su «Griseldaonline» e su «Poesia del Nostro Tempo». Il suo studio è rivolto al contemporaneo e teso a cogliere nessi e interazioni tra la letteratura e le arti visive alla ricerca dell'opera d'arte totale – dai Preraffaelliti a Prévert, da Baudelaire al Bauhaus.

Pubblicazioni
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Progettare uno spazio totale: gli sviluppi del design contemporaneo nell’opera di Cristina La Porta

 

Sin dalle origini del design – sancite secondo molti studiosi dalla Great Exhibition di Londra del 1851 – si sono offerti al pubblico e ai critici temi ricorrenti e dilemmi concettuali, punti chiave della riflessione storico-artistica e contemporaneamente campi di battaglia per tutte le figure professionali che a metà del XIX secolo si addensavano intorno ad attività di creazione, progettazione e produzione. La ricerca dell’art manufacturer – termine coniato da sir Henry Cole e traducibile con “proto-designer” – si è da subito concentrata sui concetti di spazio, di ambiente, di progetto, di produzione, di gusto e di funzione educativa ed etica, aspetti chiave della dialettica tra arte e tecnica, le «due polarità fondative» della storia del design, come afferma Maurizio Vitta nel suo illuminante saggio Il progetto della bellezza. Il design fra arte e tecnica dal 1851 a oggi. La ricerca degli artisti-artigiani, antesignani dei moderni designer, ebbe da William Morris in poi un approccio diversificato e vario rispetto ai concetti sopra elencati, tendendo alla predilezione di un aspetto sull’altro; questa disposizione, si esplicitava ora nell’opposizione alla macchina nel processo produttivo, ora nel ricorso a essa, non senza mitizzazioni.

 

Se Morris rifiutava il macchinismo sulla scorta delle riflessioni di Ruskin e Carlyle – un suo ritratto emblematico è presente nel quadro Work (1865) di Ford Madox Brown – in favore della cosiddetta «fedeltà alla natura», Wilde, in anticipo sui tempi, decantava la necessità di aprirsi alle nuove invenzioni, le quali tuttavia incutevano in molti artisti il timore di un possibile declino del loro ruolo privilegiato di creatori. Ben presto però, con buona pace degli artisti e dei proto-designers, l’intoccabile aura dell’opera d’arte fu persa inevitabilmente – lo segnalò, com’è noto, Walter Benjamin – e si cominciò a osservare la quantità sempre crescente di oggetti prodotti, talvolta indagandone la presunta essenza con eccessi spiritualizzanti, talvolta sintetizzando strutture e forme, con oscillazioni da ambo le parti entro l’eterna contesa tra valore estetico e funzionale.

 

Alla base sia della produzione artigianale che di quella industriale resta però la progettazione, «il nucleo concettuale del design» – si veda ancora Vitta – «L’idea di un progetto che preceda l’esecuzione degli oggetti e ne fissi in anticipo i caratteri originali per garantirne la validità estetica». La ricerca attiva su tutto ciò che possa essere oggetto di progettazione attraversa come un Leitmotiv gli sviluppi del design che, dal 1851 fino a oggi, nel suo emanciparsi ed evolversi amplia sempre di più i suoi orizzonti di azione e invade e permea ogni ambito artistico. Nel corso del suo lento cammino verso l’affermazione come disciplina autonoma, il design ambisce tenacemente a estendere la sua visione progettuale del mondo fino ai più estremi approdi possibili: è così che esso diventa portavoce di una progettazione totale dello spazio concepito come insieme di interni ed esterni, come interesse e cura verso il più piccolo dettaglio, aspirando a creare un nuovo mondo da quello pre-esistente – che si tratti di imitarlo organicisticamente o di astrarne le forme pure – e a conoscere ed esprimere così il senso di una realtà storicamente e stilisticamente collocata.

 

Dalle sperimentazioni di Philip Webb per la Red House di William Morris e di Henry van de Velde per la sua Bloemenwerf House i tentativi di progettare e realizzare uno spazio totale e totalizzante si sono susseguiti in gran numero nel tempo, indipendentemente dalla corrente artistica di riferimento. Emblematico è il caso dei futuristi che, soprattutto dal 1915 in poi con il manifesto Ricostruzione futurista dell’universo firmato da Balla e Depero, si impegnarono nella creazione di opere che potessero esprimere compiutamente il connubio arte-vita: nacquero i complessi plastici, dinamici, viventi e non solo, e le case d’arte futuriste, laboratori di arti applicate diffusi in tutta Italia. Lo aveva già anticipato il brillante architetto Antonio Sant’Elia nel 1914 con il suo Manifesto dell’architettura futurista, dove «appare con estrema chiarezza che la questione della nuova architettura dovrà prendere le mosse proprio dal ripensamento in chiave futurista dell’unità minima, cioè della casa-abitazione» (Belli). Ciò fu possibile – come precisa ancora Maurizio Vitta – «grazie alla presenza massiccia di oggetti d’uso quotidiano il cui corpo tecnico non si limitava a indicare una nuova forma del mondo: erano essi stessi quella forma e quel mondo. Perciò […] andavano interpretati, o meglio ancora sussunti dalla vita nella specie dell’arte».

 

Oggi il design contemporaneo non si esime dal confrontarsi con i grandi temi della progettazione – esposti brevemente sopra – e utilizza i nuovi mezzi tecnologici a sua disposizione per immaginare e creare non solo spazi iper-contemporanei che esprimano al meglio lo Zeitgeist, ma anche nuove realtà che mostrino parimenti un legame saldo con la tradizione e una forza creativa al di là di ogni limite immaginativo.

 

Proprio negli ultimi anni la scena del design contemporaneo italiano ha visto emergere diversi talenti della progettazione, tra i quali spicca Cristina La Porta, una giovanissima designer siciliana che vive e lavora a Milano. Con un profilo internazionale e una collaborazione con Dropbox alle spalle, Cristina è un ottimo esempio di designer avente una visione “totale” dello spazio e uno stile sofisticato e suggestivo. I suoi progetti – oggetto di interesse da parte di alcune tra le riviste più originali e anticonformiste del settore – sono contemporaneamente concreti ed evanescenti, pragmatici ed evocativi, e generano nell’osservatore un flusso irresistibile di energia che lo trascina in ambienti distanti nel tempo e/o nello spazio, fino a farlo approdare alle più remote coste dello spazio interiore, in un luogo di pace ma anche di vitalistica percezione sensoriale.

 

Nel corso dell’intervista Cristina riflette sul suo percorso di formazione, su ciò che per lei è tradizione e innovazione e, passando in rassegna alcuni dei suoi lavori più emblematici, porta in superficie spunti di riflessione essenziali per gli sviluppi del design contemporaneo.

 

Gina Bellomo: In molti dei tuoi lavori – penso soprattutto a Dom Residence o a Villa Rivera – c’è una grande attenzione verso la progettazione dello spazio in senso onnicomprensivo: ambiente, architettura, interni e arredi sono perfettamente integrati come fossero parte di un unico organismo. Il pensare lo spazio come opera d’arte totale è un tema che ha attraversato il design sin dalla sua nascita e si è configurato come una ricerca perseguita da diversi movimenti d’avanguardia. Come ti poni tu in relazione a questa concezione della progettazione? Quanto conta per te in tal senso l’esempio della tradizione e dei maestri del passato?

 

Cristina La Porta: Dal mio punto di vista è fondamentale focalizzare la progettazione su un tema che abbracci a 360 gradi lo spazio: lo spazio non è formato semplicemente dalla sua area, ma è un tutt’uno con il suo esterno, con ciò che contiene e con i dettagli che lo compongono, ma soprattutto con ciò che vuole trasmettere. Quello che dico sempre è che ogni progetto è diverso poiché ognuno ha una propria anima e ha qualcosa di personale e speciale che non potrà mai essere clonato. Sicuramente sia la tradizione che i maestri del passato sono fondamentali per un ottimo sviluppo progettuale poiché senza di essi non avremmo mai potuto iniziare o proseguire il progetto, qualunque esso fosse. Perché? Perché ci hanno aiutato a imparare tutto quello che sappiamo, ad ampliare i nostri orizzonti e a integrarci con uno spazio riuscendo non solo a guardarlo, ma finalmente a vederlo e ad andare anche oltre, stimolando la nostra immaginazione.

 

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L'«infedeltà che consente autonomia»: Leonardo Sciascia, il cinema e la questione della fedeltà al testo nell'adattamento cinematografico di Una storia semplice e de Il Consiglio d'Egitto

 

Il cinematografo arrivò a Racalmuto nel 1929. Il piccolo teatro comunale tardo-ottocentesco, progettato dal discepolo di Ernesto Basile Dionisio Sciascia, omonimo ma non parente del rinomato scrittore, fu trasformato e adibito a sala cinematografica. Tale avvenimento fu per la storia di Racalmuto un vero spartiacque: quell'anno comparve in paese l'energia elettrica, salutata da tutti come l'avvento della modernità. Leonardo Sciascia riporta tali eventi nel saggio C'era una volta il cinema e sottolinea come l'arrivo dell'elettricità e dei successivi interventi pubblici ad esso conseguenti avesse dato inizio alla chiusura delle zolfare, le miniere teatro di crudeltà e sfruttamento a cui lo scrittore racalmutese fa spesso riferimento nei suoi saggi e romanzi.

 

Tra le grandi innovazioni che nel 1929 travolsero la piccola Racalmuto, il cinema colpì Leonardo Sciascia più di tutte, segnando l'inizio di una grande passione che, accesa dalle prime proiezioni racalmutesi, trovò poi espressione più compiuta nel periodo di formazione a Caltanissetta: la possibilità di sperimentare un "prima" e un "dopo" del cinematografo gli offrì una visione più consapevole del fenomeno appena scoperto, tanto più che lo scrittore nel piccolo cinema di Racalmuto godeva di un posto d'eccezione: suo zio era infatti l'addetto alla gestione dello stabile e Leonardo Sciascia, ancora bambino, otteneva così di sedere sempre nel "palco del podestà", postazione che abbandonava solo per sgattaiolare nell'attigua sala di proiezione, dove si divertiva a esaminare le pellicole e a ritagliarne i fotogrammi per collezionarli.

 

Lo scrittore racconta di questi piacevoli momenti d'infanzia nel sopra citato saggio, contenuto nella raccolta Fatti diversi di storia letteraria e civile e scritto dopo aver visto Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore nel 1989: l'esperienza riportò alla sua mente memorie infantili e ricordi remoti di un cinema che era «silenzioso piuttosto che muto».

 

In quegli anni il giovane Sciascia, divenuto assiduo frequentatore del cinematografo come altri scrittori della stessa generazione per cui «il cinema [...] era tutto», - tra questi, Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo - sognava una carriera da regista o da sceneggiatore. Dalle sue esperienze cinefile nascono appunti, riflessioni e recensioni che si intrecciano con la nascente attività letteraria e mostrano in nuce il legame dell'opera dello scrittore siciliano con il cinema e la sceneggiatura; non a caso nel corso della sua carriera Leonardo Sciascia è stato spesso definito uno "scrittore cinematografico" e numerosissime sono state le interviste in cui gli sono state poste domande sul suo legame con la settima arte: in una puntata del programma Scrittori siciliani e cinema realizzato nel 1984 per la Rai da Tornatore, lo scrittore si mostra infatti ben consapevole del fatto che le proprie opere risultino particolarmente agevoli alle riduzioni cinematografiche e a tal proposito afferma con convinzione che ogni suo romanzo «è già sceneggiatura» ed è condotto «secondo una tecnica che è propria del cinema».

 

Le parole dello scrittore si accordano bene con le affermazioni di Ugo Pirro, sceneggiatore di due riduzioni cinematografiche dei libri di Sciascia, ovvero A ciascuno il suo (1967) di Elio Petri e Il giorno della civetta (1968) di Damiano Damiani: intervistato nel 1984 da Tornatore, Pirro afferma che la narrativa sciasciana, in virtù del suo impianto frequentemente poliziesco, è capace di creare il mistero, elemento di forte attrazione letteraria e cinematografica; precisa inoltre che l'uso dell'atmosfera "da giallo" in Sciascia non è mai tradizionale o convenzionale, ma è come se la vicenda della singola opera entrasse a far parte di un disegno ben più ampio, intrecciandosi con la storia della Sicilia, un'isola che nel lavoro dello scrittore racalmutese si configura come un microcosmo autogeneratore e autodistruttore.

 

L'aspetto cinematografico dell'opera sciasciana ha reso molti dei suoi libri l'impianto narrativo ideale per la creazione di innumerevoli film per il grande schermo: tra gli altri, Todo modo di Elio Petri (1976), Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi (1976), Il giorno della civetta (1968) di Damiano Damiani, Una storia semplice (1991) e Il Consiglio d'Egitto (2002) di Emidio Greco.

 

L'incontro tra Sciascia e i registi sopra citati, così come con Francesco Rosi, Gianni Grimaldi, Aldo Florio e Gianni Amelio, nasce da una evidente comunanza di intenti: come sottolinea Pirro, l'impegno civile di Sciascia ha coinciso con l'impegno del cinema italiano di quegli anni, teso a mostrare i punti critici, le tensioni e le contraddizioni di un'Italia che nel pieno degli anni di piombo era alle prese con la lotta alla mafia, questione fortemente sentita sia da Sciascia che da Greco, i quali avvertivano come un'urgenza la necessità di informare a riguardo gli italiani, soprattutto attraverso il cinema e la letteratura, strumenti indispensabili per raggiungere il grande pubblico.

 

Allo scrittore racalmutese venne spesso chiesto quale opinione avesse delle trasposizioni cinematografiche dei propri romanzi e, nel rispondere, sottolineò incessantemente come nel giudicare tali opere egli non si ponesse mai come l'autore dei soggetti ma semplicemente come uno spettatore. Sciascia riteneva infatti che «un autore, dal momento che cede la sua opera al cinema, deve prepararsi a vedere un'altra cosa [...] rispetto al suo libro». Entra qui in gioco il controverso e dibattuto tema della fedeltà all'opera di riferimento, relativamente al quale Sciascia afferma che secondo lui «un soggetto cinematografico debba nascere autonomamente» rispetto al testo letterario cui si ispira e precisa che «è l'infedeltà che consente autonomia all'opera cinematografica», infedeltà che il regista deve saper gestire con intelligenza per realizzare una creazione originale.

 

Alla luce di tale consapevolezza, Sciascia si dice complessivamente soddisfatto degli adattamenti fino ad allora realizzati e nell'intervista con Tornatore si sofferma su Todo modo di Elio Petri, che definisce «più fedele a Pasolini» che alla sua stessa opera nella volontà di rendere il Leitmotiv pasoliniano del "processo al Palazzo".

 

Furono forse queste affermazioni che valsero a Sciascia la fama di essere diffidente e polemico nei confronti dei registi che si occupavano di adattare le sue opere per il cinema; tuttavia le opinioni dello scrittore siciliano provano il contrario e la volontà di non partecipare al processo di riduzione cinematografica, di non avere rapporti con i registi durante tale processo e di non offrire suggerimenti relativi alle sceneggiature dei film si pone perfettamente in linea con la concezione sciasciana di autonomia e di autodeterminazione del film rispetto all'opera letteraria. Da questi criteri lo scrittore si fece guidare quando lavorò alla sua unica sceneggiatura per il cinema, vale a dire quella di Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1971) di Florestano Vancini.

 

La diffidenza di Sciascia, se proprio la si vuol trovare, riguarda piuttosto «il cinema che si rivolge alla letteratura», il quale cinema, se non si rende autonomo, non è giudicato valido dallo scrittore-spettatore, tanto che in C'era una volta il cinema, egli non esita a far notare quanto tale arte sia diventata «parodisticamente letteratura, parodisticamente pittura, parodisticamente avanguardia di ogni cosa che sa di avanguardia».

 

Tra i molti e notevoli film adattati dai romanzi di Sciascia, di cui i titoli citati poc'anzi sono solamente un esiguo esempio, risulta interessante soffermarsi sui due lavori che ha voluto realizzare il regista Emidio Greco, e in particolare sulla sua versione de Il Consiglio d'Egitto.

 

L'ammirazione per l'opera sciasciana coglie il regista sin dagli inizi della sua carriera e si innesta su una solida base di impegno civile e di interesse per il contatto tra arte e letteratura, che lo porta spesso ad adattare opere letterarie per il cinema. Greco, autore raffinato e colto, riflette nei suoi film sul rapporto tra finzione e realtà, sui tranelli di identità molteplici e sulle storture della storia, e intende mostrare come spesso la linea tra verità effettiva e verità apparente sia labile e soggettiva.

 

La prima delle trasposizioni dei romanzi di Sciascia che Emidio Greco realizza, ossia Una storia semplice, dall'omonimo romanzo del 1989, viene realizzata nel 1991 e ha nel suo cast attori del calibro di Gian Maria Volonté e Ricky Tognazzi. Il film riceve numerose candidature in prestigiosi festival cinematografici e viene complessivamente acclamato dalla critica che premia la capacità di Greco di restituire nelle immagini la limpidezza della prosa sciasciana e la profondità della sua riflessione sull'ambiguità della verità e della giustizia. L'espressività sobria e consapevole degli attori rivela l'attento lavoro realizzato dal regista per riportare sul grande schermo la sottile ironia e la tensione etica proprie del giallo di Sciascia, giallo che ancora una volta risulta atipico, caratterizzato in questo caso da forti inflessioni esistenziali e metafisiche.

 

Nel 2002 Emidio Greco adatta per il cinema il romanzo di Leonardo Sciascia dal titolo Il Consiglio d'Egitto (1963) realizzando un film omonimo che vale la pena esaminare per i risultati ben diversi rispetto al precedente lavoro "sciasciano" del regista. Figurano nel cast Silvio Orlando nel ruolo del protagonista don Giuseppe Vella e Tommaso Ragno che interpreta l'avvocato Francesco Paolo Di Blasi, la cui storia corre parallela alle avventure del frate.

 

Il Consiglio d'Egitto racconta la storia vera di don Giuseppe Vella, prete e abile falsario vissuto in Sicilia alla fine del Settecento, che nel 1782 si ritrova per un caso fortuito a far da guida ad Abdallah Mohamed ben Olman, ambasciatore arabo presso il Regno di Napoli scampato a un naufragio, approdato sulle spiagge di Palermo e lì accolto dall'allora viceré Domenico Caracciolo.

 

Vella, essendo l'unico uomo in città a conoscere un po' la lingua araba per le sue origini maltesi, viene selezionato come guida dell'ambasciatore straniero per i suoi giorni di permanenza a Palermo. Il frate, che fino a quel momento faceva il numerista del lotto a pagamento per arrotondare i suoi scarsi proventi, si ritrova immerso nel turbine frivolo dell'alta società, nella fiera rococò del Settecento siciliano e, inebriato da uno stile di vita superiore a qualsiasi sua aspettativa, desidera intensamente trovare un modo per potersi elevare a quello status, per superare l'incomunicabilità insormontabile tra la sua condizione sociale e quella dei nobili intorno a lui.

 

Don Giuseppe non ha alcuna speranza, se non che un giorno accompagna ben Olman a visionare un prezioso manoscritto arabo custodito nel convento di San Martino e che Monsignor Airoldi, un superiore di Vella, desidera venga tradotto. L'ambiguo, sottile momento tra le parole dell'arabo - che svela come l'opera non sia altro che una delle tante vite di Maometto - e la traduzione che di tali parole Vella deve fare per Airoldi è decisivo per la messa in scena dell'"impostura" su cui si fonda l'intero romanzo: Vella fingerà che il manoscritto sia un'importantissima cronaca riguardante la dominazione araba in Sicilia e produrrà in seguito un secondo manoscritto dal titolo Il Consiglio d'Egitto, capace di stravolgere l'assetto politico corrente facendo vacillare le fondamenta del potere baronale.

 

Come in ogni romanzo sciasciano la politica non agisce sullo sfondo della vicenda ma è un elemento essenziale: la Sicilia si trova in quel momento sotto la dominazione dei Borboni e in particolare del viceré Domenico Caracciolo che, avendo a lungo soggiornato in Francia, simpatizza per le idee illuministe e tenta di promuovere una modernizzazione della Sicilia, una messa in pari col resto d'Europa. Il suo tentativo è però ostacolato dai baroni, restii a cedere i loro privilegi - e ancor più i loro feudi - e sempre pronti a criticare il viceré per le sue proposte ai loro occhi troppo rivoluzionarie, che chiamano con tono di beffa "caracciolate".

 

Solo un uomo sembra simpatizzare per Caracciolo, un uomo che legge Verri, Beccaria e Montaigne e non ha paura di esporsi o di dissentire sul potere feudale: si tratta dell'avvocato Francesco Paolo Di Blasi, il secondo protagonista dell'opera. Il giovane avvocato, strenuo sostenitore dell'Illuminismo francese, rappresenta la parte di Sicilia che vuole essere al passo coi tempi e lottare per l'uguaglianza, laddove Vella rappresenta invece la Sicilia che, prendendo atto del fatto che nulla mai cambierà, decide di sfruttare la verità, la giustizia e la storia trasformandole in "imposture" non per il progresso o il benessere sociale, ma solo per vantaggio personale.

 

Di Blasi verrà punito e condannato nel 1795 – la rivoluzione francese è avvenuta ma è rimasta ben lontana dalla Sicilia - per aver ordito una congiura contro il nuovo viceré, conservatore e misogallo, mentre Vella, pur dovendo scontare alcuni mesi di prigionia per il suo inganno, svelato dall'abate stesso in un atto di parresia e autocompiacimento narcisistico una volta venuto a conoscenza dell'arresto di Di Blasi, ne uscirà sostanzialmente indenne, se non ancora più famoso.

 

L'opera è pregna di riflessioni acute e profonde sulla storia, sul problema di scriverla, raccontarla e persino "crearla" come nel caso di Giuseppe Vella. Sciascia mostra quanto simili siano le parole "tradurre" e "tradire" e quanto un'accezione influenzi l'altra, portando l'esempio del frate divenuto abate, che con la sua "impostura" è stato capace di usare l'unico strumento che aveva, ovvero la cultura, per un avanzamento economico e sociale.

 

Il Consiglio d'Egitto è un romanzo di estrema qualità stilistica e lucidità critica il quale nella sua trama lega gli eventi della storia europea a quelli della microstoria siciliana mostrando valori e difetti di una società che sembra aver periodicamente bisogno di un padrone straniero per essere soggiogata o liberata, senza mai riuscire a garantirsi la salvezza da sola.

 

Tornando alla trasposizione cinematografica di Emidio Greco, è bene esaminare in relazione ad alcune scelte l'operazione che egli compie come regista e sceneggiatore rispetto all'opera di Sciascia. Si veda il prologo della storia.

 

Lo scrittore racalmutese presenta a noi la prima scena come un enigma e apre il suo libro con monsignor Airoldi, don Vella e ben Olman chini sul prezioso codice di San Martino, con gli ultimi due intenti decifrare gli oscuri caratteri cufici che, ingranditi e rimpiccioliti dalla lente del nobile arabo, agli occhi dell'inesperto ma scaltro frate sembrano formiche intente a disegnare i loro curiosi e insensati percorsi sulle pagine del manoscritto.

 

Di fronte a un incipit tanto "cinematografico" e tanto potente dal punto di vista visivo quanto enigmatico da quello intellettuale, costruito per farci trovare indizi e poi rivelazioni rendendo l'enigma ancor più accattivante, ci si sorprende a notare come Greco abbia, nel suo film, posposto questa scena preferendo rilevare la fabula del racconto anziché mantenere l'intreccio così come Sciascia lo aveva predisposto. Il regista giustamente inserisce questa scena cruciale e tenta anche di restituirci un Vella spaesato e confuso di fronte ai caratteri arabi inquadrando il movimento della lente d'ingrandimento, ma lo fa solamente dopo aver mostrato il naufragio di ben Olman – scelta che incuriosisce lo spettatore ma non eguaglia lo sfizioso gioco intellettuale sciasciano – narrato dalla voce fuori campo di Giancarlo Giannini e dopo aver presentato don Vella intento nella sua attività di numerista presso la bottega un macellaio. Questa scena mostra bene il carattere sottilmente comico dell'opera di Sciascia, tuttavia non appare un'alternativa valida all'incipit del romanzo che, posposto, perde parte della sua potenza e del suo fascino.

 

Un altro punto dell'adattamento di Greco che lascia perplessi riguarda il risalto dato alla scena di seduzione tra Francesco Paolo Di Blasi e la contessa di Regalpetra, scena della quale un fotogramma è stato scelto come l'immagine preponderante della locandina del film, mentre sul livello della narrazione, così come del resto nella trasposizione cinematografica, l'incontro erotico ha una durata esigua, di fatto in linea con i tempi del romanzo. L'enfasi promozionale data alla scena è fuorviante rispetto alle prerogative della storia e risulta difficile nel film conferire la meritata importanza al nesso giocoso tra politica e seduzione costruito ad hoc da Sciascia per omaggiare tutta una parte di letteratura settecentesca.

 

Emidio Greco conosce bene l'opera di Leonardo Sciascia e nel suo lavoro numerosi elementi lo dimostrano, come la volontà di attenersi alle parole usate dallo scrittore, parole che rendono manifesta l'efficacia autonoma e autentica dei dialoghi sciasciani, il cui ritmo appare però molto rallentato nel film e le dinamiche di interazione tra i personaggi non risultano curate al meglio, forse a causa dell'impostazione troppo teatrale di alcuni attori. Apprezzabile la ricercatezza dell'ambientazione e dei costumi, delle atmosfere disimpegnate, frivole e festanti della nobiltà settecentesca; curata e ben calibrata la rappresentazione della graduale avversione dei nobili verso Caracciolo e le trame politiche che si ordiscono negli sfavillanti salotti di Palermo.

 

Il regista dà valore ai grandi temi affrontati da Sciascia nel romanzo, quali la tortura (con opportuni riferimenti a Manzoni), il celibato degli ecclesiastici, l'incapacità di rinnovamento della Sicilia, il privilegio e la sopraffazione attraverso il potere; tuttavia, mentre questi temi trasudano dalle pagine di Sciascia, cariche di folgorante tensione e di acutezza semantica, nel film di Greco appaiono come accennati, persi nel momento in cui potevano emergere e colpire lo spettatore.

 

Il don Giuseppe Vella di Sciascia, infine, è un personaggio non tanto comico quanto sottilmente ironico e raffinatamente sarcastico. È un uomo di grande carisma che riesce a ingannare Palermo, il Regno e perfino l'Europa, un uomo che ha ben chiaro quello che sta facendo, un personaggio intelligente e sagace di cui è propria un'autenticità tanto schiacciante da non riuscire quasi a rimaner confinato nella finzione letteraria: don Giuseppe Vella proviene dalla realtà e a essa viene restituito. Un personaggio simile può assumere talvolta persino tratti grotteschi, ma non è certo il prete remissivo restituito da Silvio Orlando, il quale non riesce a caratterizzarlo con la lucidità e la spregiudicatezza che il personaggio possiede.

 

Alla luce delle testimonianze di Sciascia e Ugo Pirro esaminate in precedenza e della brevissima analisi del Il Consiglio d'Egitto film qui proposta, si può certo intuire quale ardua impresa sia restituire fedelmente attraverso il cinema un'opera letteraria di grande levatura come quella di Sciascia, e spesso le scelte che un regista deve compiere risultano piuttosto come dei compromessi rispetto al testo letterario, per cui non sempre l'opera cinematografica riesce a emergere come opera d'arte autonoma rispetto al romanzo da cui è tratta.

 

Forse la pecca di Emidio Greco è stata quella di voler essere troppo fedele a Sciascia, ad esempio nelle battute dei dialoghi, spesso riportati interamente ma, a causa del filtro richiesto dalle necessità cinematografiche, carenti dell'efficacia conferita loro dallo scrittore. Greco ha inoltre voluto rendere la storia più chiara al pubblico e più facilmente fruibile inserendo un narratore fuori campo, seguendo la fabula e non l'intreccio, dando alle immagini un taglio televisivo e svelando troppo linearmente alcune dinamiche che, rese eccessivamente manifeste, indeboliscono l'atmosfera enigmatica e intrigante dell'opera sciasciana. Ad eccezione della variazione nel prologo, di cui si è già parlato sopra, Emidio Greco non si è mostrato abbastanza risoluto, indipendente e ardito nelle sue scelte artistiche, che avrebbero di certo reso la sua opera qualcosa di inedito e prezioso, anche se avrebbero tradito, non per forza in modo drastico e offrendo probabilmente un risarcimento artistico significativo, l'ammirazione del regista per Sciascia.

 

Il rapporto tra le opere di Sciascia e le loro trasposizioni cinematografiche resta un argomento controverso quanto stimolante alla luce della consapevolezza che lo scrittore ebbe sempre del proprio stretto legame con la settima arte e con le sue tecniche e dinamiche interne. Ancora più inedita e fruttuosa può essere l'analisi di tale rapporto non solo seguendo la linea dell'antitesi fedeltà/infedeltà, le quali si rivelano quant'altri mai soggettive, ma applicando questo criterio con un'ottica differente, caricandolo cioè di nuovi significati e considerando la fedeltà a Sciascia non tanto in base alla "aderenza al testo" quanto piuttosto in base alla resa dei temi amari e roventi che lo scrittore trasse e restituì al microcosmo della Sicilia. Per dirla con le parole di Sciascia:

 

Il rapporto tra l'opera letteraria (quando si tratta di un'opera letteraria perfettamente articolata e conclusa, racconto o romanzo che sia) e il film deve o risolversi nella fedeltà di questo a quella o non porsi neppure. E s'intende che non si vuol dare al termine fedeltà il significato di una pedante e minuziosa trascrizione, di illustrazione cinematografica di un testo: fedeltà, come si suol dire, allo spirito, all'idea.

 

 

Per saperne di più:

Leonardo Sciascia, "La Sicilia nel cinema", in La corda pazza - Scrittori e cose della Sicilia, Milano, Adelphi, 1991; Leonardo Sciascia, "C'era una volta il cinema", in Fatti diversi di storia letteraria e civile, Milano, Adelphi, 2009; Giovanna Finocchiaro Chimirri, Al cinema con Sciascia, Catania, C.U.E.C.M., 1993; Sabatino Landi (a cura di), Atti del corso di aggiornamento "Cinema e Letteratura – Leonardo Sciascia" tenutosi a Pordenone dal 2 al 30 marzo 1993, Pordenone, Cinemazero, 1993.

 

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Mobiles meet Stabiles: la poetica dell'equilibrio nell'arte di Alexander Calder

Per la maggior parte delle persone un mobile non è che un insieme di elementi piatti che si muovono nel vuoto. Eppure per alcuni può essere poesia.

Con queste parole definiva i suoi lavori più famosi Alexander Calder (1898-1976), uno dei più grandi artisti americani del secolo scorso, autore di opere sorprendenti, gioiose ed estremamente poetiche, caratterizzate da un equilibrio dinamico e calibratissimo, capaci di superare i limiti dei supporti materiali e di generare il movimento dalla bidimensionalità, la leggerezza dalle strutture massicce e l'organicità dai sistemi meccanici.

 

Calder nasce nel 1898 a Lawton, quartiere periferico di Filadelfia, figlio e nipote d'arte: il padre e il nonno sono scultori accademici, la madre è una ritrattista professionista. Malgrado tali premesse e un precoce talento, il giovane Calder non aspira alla carriera artistica e si iscrive allo Stevens Institute of Technology di Hoboken, presso il quale si laurea in ingegneria meccanica nel 1919. Le molte competenze acquisite in fisica e meccanica durante gli anni di studio allo Stevens si sarebbero in seguito rivelate sorprendentemente utili per la sua attività artistica e lo avrebbero reso in grado di calibrare sapientemente l'equilibrio delle sue opere e di affinare la cura nella scelta dei materiali.

 

Calder decide di dedicarsi all'arte solo diversi anni più tardi, dopo aver svolto lavori di ogni tipo e dopo aver viaggiato per tutta l'America. Una mattina del 1922, dal ponte del mercantile sul quale si era imbarcato osserva il cielo del Guatemala e la vista dell'alba è per lui folgorante: il sole fiammeggiante, perfettamente sferico nel suo sorgere, e la luna che, ancora alta nel cielo, riflette la distesa argentea del mare lo sconvolgono e diventano uno dei soggetti prediletti delle sue gouaches. L'evento è per lui una rivelazione e la necessità di rappresentare quel fenomeno lo porta a iniziare la sua formazione artistica come pittore; se non che abbandona presto tela e cavalletto per cominciare a modellare sagome di carattere figurativo con il filo di ferro, materiale di cui individua presto le potenzialità creative. Tali sagome diventano progressivamente più elaborate fino a trasformarsi in veri e propri ritratti, che a loro volta si evolvono e diventano sculture in miniatura, giocattoli sottilmente ironici che abitano un mondo straniato e orgoglioso della propria bizzarria: nasce nel 1926 il Circo Calder, opera composita e multiforme, i cui protagonisti sono piccole creature insolite e curiose in bilico tra la staticità della scultura e la possibilità di movimento suggerita dal carattere giocoso della creazione. È Calder, moderno demiurgo, che anima i piccoli circensi esplorando le possibilità del suono e del movimento in esperienze proto-performative.

 

Nello stesso anno della grande svolta nel proprio percorso artistico Calder compie il suo primo viaggio in Europa e si ferma a Parigi, la cui atmosfera innovativa e sperimentale si configura subito come il necessario ambiente d’avanguardia entro il quale lo scultore matura le idee più pregnanti, e viene a contatto con i più grandi artisti del tempo, tra cui Joan Miró, Marcel Duchamp e Vasilij Kandinskij. Di fronte a loro e a László Moholy-Nagy, Piet Mondrian, Pablo Picasso, Hans Arp, Fernand Léger e Naum Gabo, Calder allestisce i suoi inconfondibili spettacoli suscitando nel pubblico ilarità e meraviglia, con la consapevolezza di aver raccolto l'eredità del Cabaret Voltaire.

 

Da ognuno degli artisti d'avanguardia che incontra a Parigi Calder trae ispirazione e si lascia influenzare nello sviluppo della sua poetica: le opere di Kandinskij, di Klee e di Mondrian sono fondamentali per il suo avvicinamento all'Astrattismo, tanto che negli anni Trenta entra a far parte del gruppo parigino Abstration-Création. Da quel momento il suo lavoro prosegue all'insegna dell'essenzialità e della riduzione delle forme. Agli artisti parigini, amici e mentori, dedica numerose opere celebrando il loro stile: è questo il caso di Omaggio a Chagall del 1944 o di Ritratto di Fernand Léger (1930 circa).

Estremamente affascinato dallo stile di Paul Klee e Joan Miró, dipinge numerose gouaches che, fondandosi su linea, forma e colore, verranno ritenute in grado di rivaleggiare con le opere degli stessi astrattisti.

 

Tuttavia Calder sente presto la necessità di andare oltre: porta così avanti la sua sperimentazione dando vita a opere non più bidimensionali ma emergenti dal loro supporto, supporto che è sempre meno individuabile in quanto tale: nascono opere definite proto-mobiles, installazioni in cui una tela o un pannello bidimensionale accostato o appeso ad un muro viene circondato o sormontato da elementi di vario genere (lamine di metallo, filo di ferro, steli d'acciaio) che vengono assemblati su parte di tale supporto o che con l'ausilio di strutture metalliche appositamente create ondeggiano davanti al loro sfondo, talvolta sfiorandolo. L'instabilità dell'opera genera il movimento: i ritagli di carta e i fili di metallo sono mossi dal vento, dall'avanzare dei passanti o da motori opportunamente inseriti, che rendono queste opere sistemi meccanici autonomi, in cui i materiali di composizione sono sempre più insoliti e sempre meno materiali. Le ombre, che giocano già un ruolo importante, saranno poi ampiamente sfruttate nelle serie degli Universes e delle Constellations e in seguito nei mobiles, attraverso i quali Calder approderà all'opera tridimensionale, abbandonando l'uso di supporti o di sfondi bidimensionali, ancora indispensabili per l'artista in opere come Forma su sfondo giallo (1936).

 

Emerge progressivamente nell’opera d’arte l'importanza dell'elemento immateriale, integrato da Calder sempre più sistematicamente e ostinatamente: suono, luce, vuoto e movimento entrano nel suo lavoro, che diventa strumento di ricerca su di essi, sulla percezione del tempo e dello spazio e sull'influenza che il loro variare ha sulla creazione, ponendo quest'ultima in continuo dialogo con l'ambiente esterno e con se stessa.

 

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Red Panel, 1936; Compensato, lamiera, tubi, filo, corda e colore, 243,8 x 152,4 cm; New York (NYS), Fondazione Calder

 

Grande appassionato di astronomia, Calder inserisce numerosi riferimenti ad hoc nei suoi lavori e adotta come indiscusso modello creativo il sistema planetario in quanto infinito meccanismo generatore di caos e di equilibrio. Come afferma negli anni Trenta, la forma della sua opera scaturisce «dall'immagine del sistema dell'universo, o di una parte di esso. Un grande modello a cui ispirarsi. E penso all'immagine di corpi distaccati, sospesi nello spazio, con forme e densità diverse, magari anche colori diversi [...], alcuni fermi, altri in movimento [...]».

 

Non a caso le opere a cui Calder si dedica nei Trenta e Quaranta sono delle installazioni con supporto costituite da fili di ferro che collegano piccoli corpi lignei o metallici, volte a simulare universi in miniatura. In esse l'equilibrio si configura come incontro-scontro, tensione-rilassamento e dare-ricevere nei confronti dell'universo, fino a creare un canale infinito di dinamismo ed energia scambievole, in bilico tra atomi, micro-cosmi e universi.

 

Queste opere, che si articolano nella serie degli Universes e delle Constellations, manifestano ancora una volta l'importanza attribuita da Calder all'interazione dell'opera d'arte con lo spazio circostante e sanciscono a tutti gli effetti la nascita dei mobiles. Alcuni di questi lavori possono infatti muoversi parzialmente o interamente, talvolta animati da un motore posto nel baricentro della composizione. L'uso di elementi meccanici si rivela importante in termini di ritmo, in quanto il movimento della struttura, scandito da suoni e rumori ricorrenti, delinea e misura il tempo che entra così a far parte dell'opera insieme allo spazio, in una composizione polimaterica, polisensoriale e polidimensionale.

 

Il debito nei confronti delle avanguardie è riscontrabile anche in queste opere e si manifesta nella volontà di Calder di dedicare uno dei suoi Universes a Marcel Duchamp: nel 1932 fa la sua comparsa Il mobile con motore che piaceva a Duchamp, ribattezzato nel 1968 La bicicletta per sottolineare ulteriormente il legame tra il celebre ready-made dell'artista francese Ruota di bicicletta (1913) e il mobile realizzato da Calder.

 

Cos'è dunque un mobile? Calder in persona ne fornisce una definizione: 

 

Un mobile è una scultura astratta costituita principalmente da lamine di metallo, supporti d'acciaio, filo di ferro e legno. Alcuni o tutti questi elementi si muovono, animati da motori elettrici, dal vento, dall'acqua o a mano.

 

Tra i mobiles più famosi è doveroso citare Rosso Trionfante (1959-1963) e Pavone (1941). In queste sculture mobili, esempio eccellente di arte cinetica con influenze costruttiviste, l'equilibrio è fine, mezzo e ricerca. Nel suo costante mutare, esso è insieme punto d'arrivo e punto di partenza. La scultura è rivoluzionata: essa non avrà più condizione permanente ma muterà ad ogni soffio di vento e sarà uguale e diseguale a se stessa; non sarà più osservata da un solo punto di vista poiché questi si moltiplicheranno all'infinito, così come infinite saranno le combinazioni tra equilibrio, orientamento e mutevolezza dell'opera. Ogni possibilità di esistere dell'opera si afferma come scultura: la stabilità come carattere intrinseco di quest'ultima è abolita a favore del movimento e della dinamicità, capace di generare soluzioni inedite ed estremamente interessanti. Gli elementi dei mobiles, come dice Calder, «danzano con la gioia di vivere» e coinvolgono l'osservatore che è chiamato a prendere parte all'esperienza artistica, a provocare una variazione di equilibrio, un rinnovamento continuo dell'opera di cui egli diventa elemento fondante unendosi a spazio, tempo e movimento. Lo spettatore, inevitabilmente coinvolto, riflette sulle potenzialità dei corpi nello spazio e sperimenta l'incidenza che un'azione, un gesto o una presenza possono avere sull'opera e sull'universo.

 

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Lobster Trap and Fish Tail, 1939; Mobile, metallo dipinto, corda e foglio di alluminio, 260 x 290 cm; New York (NYS), MoMA

 

Come Duchamp nel 1931 era stato autore dell'espressione "mobile", così nel 1932 un altro artista dei "parigini" conia il termine "stabile" in riferimento alle sculture astratte autoportanti di Calder: Hans Arp indica con questa dicitura le costruzioni metalliche statiche di dimensioni inizialmente contenute diventate poi monumentali tra gli anni Sessanta e Settanta. Il materiale costitutivo è in larga parte l'acciaio, utilizzato in ampie piastre tenute insieme da chiodi e bulloni. La ricerca dell'equilibrio è al centro anche di questi lavori, concepiti come composizioni di movimento, come organismi armonici. Nel realizzare queste opere, Calder si definì «interessato principalmente allo spazio, alle dimensioni vettoriali e ai diversi centri di gravità». Gli stabiles più famosi assumono forme biomorfiche o animali, come Balena (1937) e Fenicottero (1973), in linea con l'interesse di Calder per le corrispondenze tra i fenomeni naturali e le forme geometriche.

 

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Flamingo, 1973; Stabile, acciaio dolce, 16,2 x 7,3 x 18,3 m; Chicago (IL), Federal Central Plaza

 

La ricerca di equilibrio e dinamismo di Calder rimane costante nel corso della sua carriera e lo porta a sperimentare continuamente, spesso rielaborando le sue stesse opere: nascono, oltre ai mobiles e agli stabiles, gli standing mobiles, ovvero mobiles con base fissa, e i mobiles-stabiles, straordinarie sculture per lo più monumentali e spesso site-specific che integrano perfettamente la stabilità massiccia delle opere statiche con la leggerezza aggraziata dei mobiles, di cui sono emblematici Spirale, realizzato per la sede dell'UNESCO nel 1958, e Ventitré fiocchi di neve del 1975, opera di grande poesia. Seguono a queste creazioni i gongs, ossia mobiles costituiti da elementi metallici che, mossi dal vento, producono particolari effetti acustici, e sono esempio della volontà di Calder di riprendere e portare avanti le ricerche sulla sonorità e sulle potenzialità acustiche dei materiali, esplorate in forma farsesca nei suoi cirques alla fine degli anni Venti

 

Movimento e stabilità, caos ed equilibrio, solidità e leggerezza, tensione e armonia: queste le dicotomie fondanti della poetica di Calder, questi i punti di partenza e di arrivo della sua ricerca, attuata sperimentando sempre nuovi materiali, nuove forme e nuove dimensioni. Calder ha raggiunto la massima espressività con la tridimensionalità, mescolando e bilanciando insieme spazio, tempo, suono, forma, colore e movimento in una danza armonica e calibrata con l'intento di coinvolgere i nostri sensi e fornendoci un inedito punto di vista su noi stessi e sulla nostra relazione con gli altri e con l'universo, mostrandoci il valore della nostra presenza (come centri di gravità, vettori o agenti esterni e interni) nel calibrare l'equilibrio di un sistema che non ci racchiude per limitarci, ma che ci invita a espanderlo e a espanderci in esso, creando nuovi equilibri di corpi che nel loro incontro e scontro generano le forme essenziali della vita.

 

 

Per saperne di più:

Jacob Baal-Teshuva, Alexander Calder, Köln, Taschen, 2006;

Giovanni Carandente (a cura di), Calder, catalogo della mostra retrospettiva tenutasi a Torino al Palazzo a Vela dal 2 luglio al 25 settembre 1983, Milano, Electa Editrice, 1983.

 

 

Immagine di copertina da National Archives  licenza CC BY-NC 2.0, libera per usi commerciali, attribuzione non richiesta
Immagine  Red Panel da Metal Chris su flickr, licenza CC BY-NC 2.0, libera per usi commerciali, attribuzione non richiesta
Immagine Lobster Trap and Fish Tail. Roxbury, Connecticut, 1939  da isabelle su flickr, licenza CC BY-NC 2.0, libera per usi commerciali, attribuzione non richiesta
Immagine Alexander Calder @ Federal Plaza (Flamingo, 1974) da Achim Hepp su flickr, licenza CC BY-NC 2.0, libera per usi commerciali, attribuzione non richiesta

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Ophelia di John Everett Millais: la natura tra realismo e simbolismo

«Sull'acqua calma e nera, dove dormono le stelle, / come un gran giglio ondeggia la bianca Ofelia» recitava una celebre poesia di Arthur Rimbaudnella quale il poeta narrava la storia della giovane eroina shakespeariana morta tragicamente per amore di Amleto. Nel 1870, quando Rimbaud scrisse la sua Ophélie, il fiume, il giglio e la veste bianca erano già elementi fondamentali dell'iconografia legata alla sventurata fanciulla, la cui storia aveva affascinato intere generazioni di pittori romantici pervasi da spirito – per dirla con le parole di John Ruskin – medievalista. Questi tre elementi, nel loro essere legati alla storia di Ofelia, evocano una precisa opera d'arte, e cioè l'Ophelia (1851 – 1852) dipinta da John Everett Millais, considerata l'opera più rappresentativa della Confraternita preraffaellita, di cui Millais fu uno dei fondatori.

 

La nascita della Pre-Raphaelite Brotherhood risale al 1848, quando sette giovani artisti decidono di sfidare le limitazioni creative della Royal Academy e di costituire un gruppo, un movimento, una confraternita – guardavano alle corporazioni medievali – che fosse capace di rilanciare l'arte inglese, a loro parere stagnante e obsoleta in quanto emulatrice dello stile di pittori che, come Joshua Reynoldsavevano troppo di accademico e poco di innovativo

Del tutto singolare è il fatto che gli elementi per far la loro rivoluzione i Preraffaelliti li presero dal passato e in particolare dalla pittura medievale del Trecento e Quattrocento – prima di Raffaello, appunto - la quale ai loro occhi possedeva la purezza, la qualità cromatica e la concentrazione simbolica capaci di porre un freno alla deleteria avanzata moderna iniziata con Raffaello, avanzata che dalla sua Trasfigurazione (1516-1520) – quadro nefasto per i Preraffaelliti – aveva condotto poi al Barocco, al Rococò e infine all'arte loro contemporanea, giudicata dai membri della Brotherhood cupa e ripetitiva. In realtà non tutti i Preraffaelliti si schierarono nettamente contro l'arte moderna e alcuni, tra cui Dante Gabriel Rossetti, si ispirarono anche agli artisti italiani del Cinquecento. Nell'esaminare la vicenda della Confraternita bisogna dunque mettere in conto che le regole o i modelli che i sette membri fondatori si diedero non furono sempre così vincolanti per loro e non impedirono a ciascuno di essi di seguire un percorso individuale e di allontanarsi eventualmente dal gruppo costituito.

 

Sebbene i temi prediletti dai Preraffaelliti fossero per lo più tratti da opere medievali, gli artisti non si estraniarono mai dalla contemporaneità e spesso ne indagarono, invece, le istanze. Si veda ad esempio William Holman Hunt, pittore sia di Isabella and the pot of basil (1867), soggetto ispirato alla novella di Lisabetta da Messina di Boccaccio, che di The awakening conscience (1853), opera dal sapore moralista contro la prostituzione in linea con il puritanesimo vittoriano e con la rigida formazione religiosa del pittore.

Ciò che rende il movimento preraffaellita un vero spartiacque nella storia dell'arte inglese - e non solo inglese – è la capacità e l'intraprendenza mostrata dagli artisti nel guardare contemporaneamente al passato e al futuro, da un lato riproponendo temi e soggetti più o meno noti  della letteratura europea, dall'altro rielaborandoli in modo originale per permettergli di confluire nel contemporaneo, spesso rispecchiandone i modelli culturali e i meccanismi sociali.

Gli ideali a cui si votarono i fondatori della Confraternita, e in primo luogo Dante Gabriel Rossetti, William Holman Hunt e John Everett Millais, riguardavano la «fedeltà alla natura» e «l'onestà del dipingere», ritenute indispensabili per il loro cammino comune verso il rinnovamento dell'arte inglese. 

Tali ideali – coltivati e difesi sotto l'egida dell'illustre critico d'arte John Ruskin - celavano sfumature varie e diversificate, e indicavano sia la resa minuziosa e realistica del dato fenomenico, sia la predilezione per temi moralmente "puri". Il concetto di purezza poteva inoltre essere inteso come fedeltà al tema o al modello (per lo più letterario) prescelto, e ciò indipendentemente dalle altre due interpretazioni sopra esposte. Ne consegue che la rappresentazione della natura non era sempre una pedissequa copia, ma poteva essere declinata secondo molteplici variazioni, in base alle particolari inclinazioni di ogni artista, sempre riscontrabili in modo manifesto, come in The finding of the Saviour in the Temple (1860) e Bocca Baciata (1859), opere rispettivamente realizzate da William Holman Hunt e da Dante Gabriel Rossetti. I due quadri, pur essendo entrambi "preraffaelliti", sono infatti molto diversi, in quanto nel primo è soprattutto l'elemento realistico ad essere accentuato e va, come spesso in Hunt, di pari passo con la ricostruzione storica, mentre in Rossetti è fortissimo l'elemento simbolico e, sebbene l'opera sia un ritratto - modella era stata Fanny Cornforth -, i tratti della donna vengono sfumati per accentuare tutta un'atmosfera pre-decadente ed eterea carica di suggestioni letterarie - "bocca baciata" è infatti incipit di una frase del Decamerone - che mescolano simboli medievali a dettagli puramente estetici.

 

È bene dunque tenere a mente le diverse variabili di rappresentazione dal momento che si mescolano ripetutamente nell'opera di quasi ogni artista preraffaellita e, nello specifico, si mescolano in un equilibrio raffinato e insieme tragico nella tela che ci accingiamo a esaminare, l'Ophelia.

Tre anni dopo la fondazione della Confraternita, John Everett Millais dipinge il suo quadro più famoso, quadro che insieme a Beata Beatrix di Rossetti è oggi protagonista indiscusso del revival preraffaellita in atto da alcuni anni a questa parte.

L'opera venne dipinta in due fasi diverse tra il 1851 e il 1852, anno in cui fu esposta alla Royal Academy. In un primo momento Millais dipinse l'ambientazione, studiando e dipingendo en plein air tutti gli elementi naturali che egli non avrebbe potuto riprodurre altrettanto accuratamente nel suo studio. Il paesaggio scelto da Millais era quello che circondava le rive del fiume Hogsmill, a Ewell, dove il pittore rimase per cinque mesi fino a quando non fu totalmente soddisfatto della resa della vegetazione, ed è appunto per la lunga permanenza di Millais nella contea del Surrey (dove Ewell si trovava) che si possono individuare tipologie di fiori e piante afferenti a diverse stagioni dell'anno.

La tela (incompleta nella parte centrale) fu dunque portata a Londra nell'appartamento del pittore al numero 7 di Gower Street, dove cominciò la seconda fase del processo creativo. L'allestimento dello studio prevedeva una vasca da bagno riscaldata da alcune candele per ricreare l'effetto dello specchio d'acqua in cui la fanciulla era annegata. Posò per Ophelia la modella Elizabeth Siddal, incontrastata musa preraffaellita e moglie di Dante Gabriel Rossetti, la quale proprio per la vicenda legata al quadro di Millais divenne conosciutissima nell'ambiente artistico vittoriano e,  in seguito, fu protagonista della cosiddetta "moda preraffaellita", ammirata anche da D'Annunzio. Ormai famosa è la storia che racconta di come, durante i mesi di lavoro per Millais, Lizzie – soprannome con cui Elizabeth divenne nota – rimase immobile nella sua posa anche in seguito allo spegnimento delle candele, condizione che nel suo reiterarsi portò la modella ad ammalarsi di bronchite, dalla quale guarì grazie alle cure pagate con il denaro che il pittore fu costretto a versare alla famiglia di lei come risarcimento.

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Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo come epopea della parola sperimentale

Stefano D'Arrigo ha il volto di un pellisquadre. In quasi tutte le foto a lui scattate dall'amico fotografo Ferdinando Scianna egli si mostra sogghignante, aggrotta la fronte. Il suo volto è scavato da rughe profonde, il suo sguardo è indagatore e remoto come la terra da cui proviene. Egli non ha mai cacciato fere ma conosce il mestiere: ad Alì Terme, dove lo scrittore è nato, la prima fonte di sostentamento è la pesca ed è impossibile per gli abitanti del piccolo paese in provincia di Messina non conoscere la vita dei pescatori che ogni giorno perpetuano in un mondo ancora premoderno l'antica lotta dei pellisquadre contro le fere, stando bene accorti a distinguerle dai delfini perché, se l'animale è lo stesso, la parola non lo è, e nel romanzo Horcynus Orca - in cui questo mondo è descritto - tanto basta per individuare un immaginario altro e un corrispondente sistema linguistico  capace di creare regole proprie.

 

Horcynus Orca è un'opera che difficilmente riesce a rimanere reclusa negli schemi canonici della letteratura. Nata in un clima fortemente sperimentale, è stata indicata come un superamento del neorealismo, un'anticipazione del postmoderno, un romanzo che poco si adatta alle linee tradizionali del genere. D'Arrigo, nel corso della pluriventennale gestazione del suo capolavoro, pubblicato nel 1975, si confronta con alcune tra le più grandi opere della letteratura mondiale, primo tra tutti Omero, ma anche Melville, Faulkner, Conrad, Stevenson e Joyce. Il riferimento ad ognuno di questi autori è funzionale ai grandi temi affrontati in Horcynus Orca: il rapporto tra l'uomo e il mare, i traumi della age of anxiety che si traducono nel flusso di coscienza e il nostos, il ritorno in patria di un eroe dalla guerra. Omero è forse l'influenza più strutturalmente conclamata, in quanto l'opera di D'Arrigo può essere definita un "poema epico in prosa" in cui vengono esibiti i rituali e il codice valoriale di una società premoderna impoverita dalla guerra e caratterizzata da persone-personaggi straviati dal loro contesto d'origine e costretti per sopravvivere a spostarsi, a compiere atti per loro inauditi, a infrangere tabù per ricostituire un ordine dopo averne sacrificato un altro. L'aspetto corale è fondamentale nel romanzo e si ispira non solo alla tragedia greca ma anche alle forme rituali di rielaborazione del dolore che D'Arrigo aveva studiato e approfondito tramite le opere dell'antropologo Ernesto De Martino, studioso delle culture meridionali.

 

Non a caso la vicenda di Horcynus Orca si svolge nel sud dell'Italia e ha come protagonista un pellisquadre, parola che indica il pescatore nella peculiare lingua darrighiana. Dopo l'armistizio dell'8 settembre del 1943 il giovane 'Ndrja Cambrìa, ex soldato della marina militare, comincia il suo viaggio di ritorno verso la natìa Cariddi, un piccolo paese sullo Stretto di Messina che, come l'Alì Terme di D'Arrigo, vive di pesca e di caccia alle fere. La storia segue il percorso che 'Ndrja compie partendo da Napoli e non si articola in un viaggio lineare in cui fabula e intreccio coincidono: numerosi sono i flashbacks, le premonizioni, le digressioni e i racconti nei racconti che imprimono al tempo della storia un andamento a sistole e diastole. Ogni avvenimento si rivela indispensabile e intimamente orientato verso il finale della storia, modulato sui passi del protagonista in un percorso governato da quella che Andrea Cedola definisce nel saggio La parola sdillabbrata. Modulazioni su Horcynus Orca «ricorsività palindroma».

 

L'opera si articola attorno a una serie di temi ricorrenti, esemplificati in misura maggiore o minore dai personaggi che 'Ndrja incontra e per cui, come Dante nella Commedia, funge da catalizzatore muovendoli al racconto, spingendoli con la sua sola presenza a sbrogliare le trame del loro dolore. Horcynus Orca è infatti un'opera sulla perdita, sul lutto individuale e collettivo, sugli effetti della guerra: il protagonista si muove attraverso un'Italia di macerie, rudemente concreta e terribilmente fantasmatica nei suoi spazi liminali, ovvero le coste, disseminate di carcasse e relitti e popolate da figure emarginate, reiette, residuali. La narrazione ci sospinge più volte a vedere la storia come un sogno, come una visione post-mortem di 'Ndrja che, ormai fantasma, torna dall'aldilà a visitare i luoghi dell'infanzia e della giovinezza, così che l'opera stessa vive in uno spazio liminale tra realismo e mitopoiesi.

 

Il romanzo è un'eclatante lamentazione corale e polifonica di coloro il cui mondo è stato stravolto dalla guerra: le femminote, donne calabresi che, scomparsi i ferribò (trascrizione darrighiana di ferry boat) dopo la loro riconversione in navi da guerra non possono più passare lo Stretto per contrabbandare il sale; lo "spiaggiatore", un uomo che vive lungo le coste calabresi frugando tra i rifiuti delle spiagge; i pellisquadre, pescatori senza più barche i quali, ridotti in carestia, sono costretti a commerciare le fere e a cibarsi del loro amaro e rivoltante «lordume di carne».

 

Il tema della lotta contro le fere traina l'intero romanzo e lo determina anche a livello linguistico. La fera e il delfino appaiono simili nell'aspetto ma solo un vero pescatore sa distinguere l'uno dall'altra e sa che la fera è l'animale da abbattere. La fera (da "fiera", "bestia") è nemica dei pellisquadre, che fanno della lotta contro di essa una questione di vita o di morte. Il «pesce bestino», definito così nel romanzo in senso dispregiativo, è diventato il padrone indiscusso dello Stretto da quando sono stati chiamati alle armi i pescatori che prima lo cacciavano. Tuttavia, alla fine dell'opera il nemico più grande dei pellisquadre si rivelerà l'orcinus orca, l'orca assassina – una proiezione amplificata della fera -  comparsa a largo di Cariddi e ultimo ostacolo da affrontare dopo la fine della guerra perché i pescatori possano tornare alla loro vita d'un tempo.

 

Questo epos della perdita e della cultura meridionale premoderna si articola in 1257 pagine e la sua struttura non prevede alcuna divisione in capitoli. Solo gli "spazi bianchi" intervengono per segnalare la separazione tra tre diversi macro-episodi, all'interno dei quali si individuano quarantanove storie. Il sistema a incastro in cui tali storie sono inquadrate permette di definire l'opera di D'Arrigo un romanzo a cornice nel quale i personaggi non sono disposti lungo vettori linearmente orientati ma vengono trascinati nel generale andamento "a spirale" della vicenda, in una continua alternanza di richiami e anticipazioni. Un altro elemento da sottolineare a livello di struttura riguarda l'importanza data alla concezione figurale; D'Arrigo riprende infatti il concetto di "figura" elaborato dal filologo Erich Auerbach relativamente alla Commedia di Dante - il concetto era già presente nella Bibbia - e lo applica ai personaggi e agli episodi di Horcynus Orca: essi racchiudono in sé anticipazioni, premonizioni e letture nascoste difficilmente individuabili nell'immediato, ma sempre svelate negli eventi successivi del romanzo.

 

A rendere unica l'opera di D'Arrigo nel panorama della letteratura contemporanea è l'applicazione della concezione figurale anche alla lingua adoperata nell'"epos dei pellisquadre".

 

Come anticipato sopra, Horcynus Orca nasce in un momento in cui molti scrittori del secondo Novecento, tra cui Luigi Meneghello e Vincenzo Consolo, si dedicano alla sperimentazione dal punto di vista formale e linguistico. D'Arrigo si inserisce in questa schiera di autori estremamente innovativi e minimamente canonici o normalizzati. Lo scrittore messinese, nella sua incessante riflessione sulla parola, affronta un percorso singolare partendo dalla "parola pura" degli ermetici, ancora presente nella sua opera poetica Codice siciliano (1957), per giungere al superamento della lirica in favore del romanzo. La poesia resta per D'Arrigo un serbatoio da cui attingere per la prosa o, per dirla come Daria Biagi nel suo saggio Orche e altri relitti. Sulle forme del romanzo in Stefano D'Arrigo, essa rimane «un laboratorio di sperimentazione privato».

 

Negli anni in cui esce il romanzo gli scrittori italiani sono chiamati in causa per risolvere la "questione della lingua": le posizioni a riguardo sono molteplici e spesso discordi, e fanno riferimento al problema del rapporto tra italiano e dialetto e allo sperimentalismo ad essi connesso. D'Arrigo, che ha costruito tanto accuratamente la lingua di Horcynus Orca da essere capace di giustificare ogni sua scelta lessicale, punta alla «ricerca di un linguaggio capace di esprimere la bivocità e la compresenza di punti di vista anche opposti di cui il romanzo non può fare a meno.».

 

La lingua di Horcynus Orca si configura come composita, molteplice e polifonica. Sono compresenti in essa l'italiano, tutti i dialetti della Sicilia e anche le lingue straniere, riportate con  trascrizioni italianizzate o sicilianizzate a seconda del codice linguistico di partenza proprio dei personaggi facenti uso delle parole e delle espressioni estere. Alcuni esempi: dal francese si hanno «visavì» ("vis à vis"), «purparlé» ("pour parler"), «bisquì» ("biscuit"); dall'inglese si ha «ferribò» ("ferry boat"). Nello strutturare il peculiare sistema linguistico del suo romanzo, Stefano D'Arrigo ha in mente una lingua unitaria e variabile allo stesso tempo. Fu lo scrittore in persona a parlare di multilinguismo relativamente alla sua opera e a preoccuparsi del fatto che la propria ricerca non venisse semplicemente ricondotta al binomio lingua-dialetto. Dice Daria Biagi:

L'inventiva stilistica di Horcynus risponde infatti in modo persino pedissequo a una logica di grammaticalizzazione interna, senza che sia possibile identificare alcun intento provocatorio o straniante nei confronti del lettore, al quale anzi viene richiesto di "accettare" l'innovazione linguistica e prendere parte attiva alla costruzione del lessico.

Attraverso una sapiente e calcolata disposizione dei termini probabilmente "estranei" al lettore medio italofono, quest'ultimo viene reso in grado di comprendere il senso della parola e di coglierne di volta in volta le diverse sfumature; sono infatti pochissimi gli hapax in D'Arrigo e laddove un termine risulta meno comprensibile la prima volta, lo sarà sicuramente la seconda e così via, fino a generare un meccanismo di ritorno verbale che conduce il lettore a rivedere costantemente i vocaboli utilizzati e ad arricchire i loro significati delle nuove sfumature scoperte nel flusso dell'opera. Il lettore viene altresì posto nelle condizioni di entrare nel meccanismo creativo di Horcynus Orca e oltre a comprendere i neologismi e le formazioni più peculiari riesce a penetrare nei meccanismi onomaturgici darrighiani in un gioco costante di anticipazione, previsione e infine creazione della parola horcynusa. A tal proposito D'Arrigo si oppose sempre fermamente all'inserimento di un glossario in appendice al suo romanzo, convinto che la lingua auto-generatrice da lui ideata fosse capace di auto-insegnarsi al lettore senza bisogno di alcun supporto esterno.

 

Tutto il romanzo è orchestrato sul contrasto tra la voce e il silenzio, sulla consapevolezza e inconsapevolezza linguistica dei parlanti, che talvolta si abbandonano a riflessioni metalinguistiche. Nella lingua di Horcynus Orca il segno linguistico è strettamente ancorato al suo referente e i personaggi lo sanno molto bene, tanto che – informa Daria Biagi - il pescatore Crocitto, dopo aver intavolato una discussione sul contrasto fera-delfino, «pretende che la parola coincida con la cosa, e diffida di ogni astrazione che non sia supportata dalla (sua) esperienza. L'adesione al sistema verbale con cui si esprime è totale, segno inequivocabile della sua sintonia con il mondo premoderno da cui proviene».

 

Il rapporto tra traduzione e tradimento è strettissimo e si lega alla necessità di ricostruire e risemantizzare. Dice ancora Biagi:

 

Tutti i personaggi di Horcynus Orca sono ossessionati dalla necessità di tradurre in parole, in racconto, la loro esperienza [...] e tutti i personaggi si trovano di conseguenza ad avere con la lingua una relazione fuori misura: [...] devono riuscire a esprimere l'esperienza senza tradirla (cioè senza chiamare "delfino" la "fera"), ma allo stesso tempo facendosi intendere.

 

I personaggi reinterpretano e rimotivano costantemente le parole e D'Arrigo si assicura che anche i lettori apprendano lo stesso meccanismo per comprendere pienamente la lingua dell'opera.

 

Il processo di «onomaturgia darrighiana», secondo la celebre definizione di Gualberto Alvino, investe anche il titolo dell'opera: D'Arrigo riprende infatti la definizione scientifica dell'orca elaborata da Linneo, ovvero Orcinus orca, aggiungendo una "H" e una "Y" con un intento straniante legato secondo Anna Infanti ad alcune teorie alchemiche. La parola è dunque straviata sin dal titolo, è portata fuori strada, customizzata, ri-plasmata ad hoc per ogni personaggio e situazione.

 

I meccanismi dello sperimentalismo di Stefano D'Arrigo riguardano ogni ambito della lingua e sono di molteplice natura. Come accennato sopra, numerose sono le trascrizioni di pronunce "italianizzate" di parole straniere; lo stesso meccanismo si ha per le parole siciliane o italiane, che vengono rispettivamente "italianizzate" e "sicilianizzate". Lo scrittore messinese cura attentamente la fonetica e utilizza molte onomatopee, spesso tratte dal siciliano, e ne conia anche di nuove, come ad esempio "nfunfù nfunfù", che sta a indicare il movimento dei macchinari avvolti dai fumi nelle sale macchine dei ferribò. Spesso D'Arrigo non utilizza segni grafici per indicare neologismi o parole straviate: ciò non è da interpretare tanto come una volontà straniante nei confronti del lettore quanto piuttosto come una spinta verso la "normalizzazione" dei nuovi termini introdotti in modo da permettere al lettore di entrare più in fretta in sintonia con essi.

 

A livello sintattico è interessante sottolineare come nel passaggio tra la redazione del libro intitolata I fatti della fera e Horcynus Orca non siano solamente intercorsi circa quindici anni di correzione di bozze, ma anche quindici anni di ampliamento. "I fatti" restano sostanzialmente gli stessi, la trama è la stessa, ma tutto è narrato in modo molto più prolisso, ampio e dettagliato. Francesca La Forgia fa notare bene questo procedimento nel suo saggio Note sull'espansione sintattica dalla «Fera» a «Horcynus Orca», nel quale afferma che il meccanismo adoperato «è quello della dilatazione sintattica, attuata attraverso l'iterazione di sintagmi e formule che strutturano il romanzo a breve e a lunga distanza fino ad articolarne profondamente la narrazione».

 

D'Arrigo stravolge la struttura delle parole scomponendole, assemblandole e plasmandole ex novo: vengono messi in atto processi di univerbazione e agglutinazione attraverso i quali nascono moltissimi neologismi d'autore, tra cui "nuovolare", che unisce "nuotare" e "volare", "orcinuso", aggettivo che «vuol dire [...] animale mortifero», e "orcaferone" da "orca" e "fera" con il suffisso accrescitivo "-one".

 

Quanto alla semantica, diverse sono le modalità e le strategie individuabili, prima tra tutte il ricorso all'etimologia, che se da un lato si esplicita nella ricostruzione del significato arcaico e originario delle parole, dall'altro rivela in Horcynus Orca un aspetto seminascosto ma costantemente presente, ossia quello dell'auto-parodia, del distacco, della finzione; ciò fa sì che il versante puramente etimologico viri verso quello paretimologico o dell'etimologia popolare, dove «l'abbondanza quasi ossessiva di echi, di risonanze giocate sulle radici delle parole si rivela infatti più spesso pretesto per nuovi innesti di significato che non effettiva ricerca di un senso deducibile dall'etimo» così che – seguendo ancora le parole di Biagi – l'operazione di reinterpretazione, anziché svelare «l'origine segreta delle parole, presunta portatrice di verità profonda, ne mette in luce l'origine presunta, difende la pista falsa.». Nei meccanismi dell'etimologia popolare risiede la forza innovatrice della lingua horcynusa, che nel suo caleidoscopico intreccio di parlate, gerghi, lingue e dialetti si configura come un organismo in crescita costante.

 

Si legge in Orche e altri relitti di «come la paretimologia non venga utilizzata soltanto in funzione mimetica, per una caratterizzazione linguistica, ma sia la base di un più profondo processo cognitivo che prevede, e anzi sfrutta artisticamente, le sovrainterpretazioni del lettore non dialettofono.». Un esempio valido a dimostrare questa tesi è l'utilizzo dell'aggettivo "'ntartarato" con cui l'anziana femminota Jacoma apostrofa 'Ndrja durante il loro incontro. I significati attribuibili a questo termine sono molteplici, sia su base dialettofona che italofona, e tenendo presente la consapevolezza di D'Arrigo nella scelta dei termini adoperati si può a ragione affermare che tali significati siano tutti validi. Si esaminino le varie sfumature dell'aggettivo: in diversi dialetti "'ntartarato" vuol dire "sporco", "infangato": esattamente la condizione di 'Ndrja quando incontra le femminote; valutando un'accezione colta e classicheggiante si può inoltre ipotizzare un riferimento al Tartaro o più comunemente all'Inferno; prendendo al contrario in considerazione un'interpretazione popolare si può pensare al tartaro dei denti e per sineddoche a una figura "incrostata" in quanto abbigliata con dei vestiti secchi e rappresi, quali dovevano essere quelli indossati da 'Ndrja, che non possedeva un cambio da portare con sé; infine, si pensi ai tartari come popolo e alla concezione che di essi poteva avere una femminota: tartaro come qualcuno proveniente da un luogo lontano e che pare essere stato "reso tartaro" a seguito di un processo (si noti il suffisso "-ato") o, considerando l'accezione negativa, "tartaro" come "predone", "nemico", "pirata". Nessuna di queste interpretazioni può univocamente sciogliere "ntartarato"; tutte restano contemporaneamente valide.

 

All'etimologia popolare fanno riferimento una serie di strategie messe in atto da D'Arrigo, da ricordare mediante opportuni esempi: innanzitutto la paronomasia, che si ritrova nel trinomio "arca-varca-vara", utilizzato dallo scrittore per creare un'immagine intensa e cruda legata alla disperazione dei pescatori ridotti in miseria: la varca ("barca" in siciliano) potrebbe essere un'arca, ossia un mezzo di salvezza (si noti il riferimento biblico all'arca di Mosè) per i pellisquadre, che vivono di pesca ma per la distruzione della guerra non hanno più barche; per le femminote, che necessitano dei ferribò per attraversare lo stretto e svolgere i loro traffici; per 'Ndrja, che di una barca ha bisogno per tornare a Cariddi. La varca potrebbe essere arca ma non lo è: è diventata una vara ("bara" in siciliano) contenente i corpi dei soldati morti e mandata a largo per nascondere un eccidio. Questa è la storia narrata dal pescatore costretto a spacciare la fera per tonno, la storia dei molti pellisquadre sopraffatti dagli effetti della guerra.

 

Altri due meccanismi relativi all'etimologia popolare sono l'uso di soprannomi, che quasi sempre diventano nomi di fatto, e l'uso di nomi parlanti. Tra i soprannomi, due dei più significativi sono "Facciatagliata", usato per descrivere Jacoma, un'anziana femminota il cui volto è solcato da profonde rughe, e "Mosè", che nell'indicare 'Ndrja Cambrìa amplifica la portata della sua avventura mettendola in relazione con la biblica traversata del Mar Rosso. Bisogna inoltre ricordare che diversi personaggi vengono chiamati con i nomi dei loro paesi di provenienza: così è per "Portempedocle" e "Boccadopa", due compagni di viaggio di 'Ndrja.

 

Infine, il più emblematico dei nomi parlanti: Ciccina Circé. Donna estremamente seducente ed enigmatica, il suo è un personaggio in cui si incrociano diverse figure letterarie: ella non solo è traghettatrice di anime come Caronte e giudice a guardia dell'Inferno come Minosse, ma anche maga come la Circe di Omero e come l'Alcina di Ariosto. Ciccina Circé è la guida della traversata notturna di 'Ndrja, la donna che egli scopre di amare con una passione estranea al codice di valori a lui noto ma più vicina «alla verità delle cose». Ella è l'unico personaggio del romanzo cui 'Ndrja riveli parte della sua storia e dei traumi legati alla guerra. Le sfumature del legame che i due intrecciano affiorano nel nome di lei: Ciccina, cioè "Franceschina", un diminutivo affettuoso che non esclude un riferimento alla Francesca di Dante, e Circé, "Circe", la maga seduttrice, la femme fatale inafferrabile la cui voce 'Ndrja continuerà a sentire fino alla fine della storia.

 

In Horcynus Orca esistere vuol dire tirar fuori la voce, parlare, raccontare la propria storia per elaborare il lutto e il dolore causato dalla guerra. La lingua è un atto di resistenza, una ribellione contro le ceneri del conflitto e contro la condanna della carestia. Chi non parla, chi non racconta non può ricominciare a vivere né reintegrarsi nel suo vecchio microcosmo. La forza motrice della lingua determina il destino dei personaggi e il potere rigeneratore delle parole contro il silenzio costituisce il discrimine che separa chi dopo la guerra torna alla vita e chi rimane tra le macerie.

 

 

Per saperne di più:

Stefano D'Arrigo, Horcynus Orca (1975), Milano, BUR Rizzoli, 2017, introduzione di W. Pedullà; Daria Biagi, Orche e altri relitti. Sulle forme del romanzo in Stefano D'Arrigo, Macerata, Quodlibet, 2017; Francesca Gatta (a cura di), Il mare di sangue pestato. Studi su Stefano D'Arrigo, Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino, 2002; Gualberto Alvino, Onomaturgia darrighiana. Nuova edizione riveduta e corretta, «Letteratura e dialetti», 5, 2012, pp. 107-136.


 

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