Il Chiasmo

Mariagrazia Coco

Redattrice (ottobre 2020 - ottobre 2021)

Mariagrazia Coco, siciliana di Catania, laureata in Mediazione linguistica (triennale) e in Lingue moderne per la comunicazione e la cooperazione internazionale (magistrale) all'Università di Macerata. Studia traduzione e interpretazione inglese, russa e francese. Ama passare il tempo all'aria aperta. Sport e volontariato sono due attività di cui non può fare a meno. Ha preso parte a diversi progetti, quale l'accordo bilaterale con la Utrecht University. Ha partecipato al laboratorio Ratatà Festival 2018 e Tipicità 2018, mettendo a servizio le sue conoscenze linguistiche nelle tre lingue di studio. Le piace leggere, ridere e sorridere. Adora luoghi di vita e le persone che li abitano. Ama il mare e la Sicilia.

Pubblicazioni
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L'Editoriale

 

Non so che cosa chiedere o cercare. / Sento soltanto quello che tu sei / e io sono. Ma prima di morire / vorrei udire di nuovo quella voce / che era la mia musica. (Manfred, a cura di Carmelo Bene)

 

Eccoci giunti all’inizio di questo nuovo anno, anno in cui “Il Chiasmo” vuole con entusiasmo aprirsi sempre più ai propri lettori e ai propri articolisti: perciò abbiamo proposto il tema “Voce” che è appena giunto al termine.

 

Anche questa volta i nostri autori sono riusciti ad abbracciare le prospettive più svariate, mostrando quanti mondi possono celarsi dietro un termine così comune. È così che abbiamo assistito al susseguirsi di articoli letterari, economici, filosofici, ma anche legati al tema della neuropsicologia e del progresso tecnologico.

 

Associazione prima e immediata con la voce è il linguaggio: parlare di voce è parlare di linguaggio; quale modo migliore dunque per indagare il tema se non domandarsi come il linguaggio abbia origine nell’uomo, e quali siano i meccanismi neurologici in atto nella produzione della parola?

 

A rispondere a queste domande ci hanno aiutato vari articoli: Le aree del cervello deputate al linguaggio propone un’analisi in prospettiva diacronica delle principali aree del cervello così da tracciare lo sviluppo delle zone deputate al funzionamento del linguaggio secondo le più recenti scoperte, per poi delineare un itinerario futuro di ricerca fondato sul connubio tra discipline umanistiche e scientifiche; Voci senza volto. La fonoagnosia: quando il cervello non riconosce la voce di chi sta parlando si concentra, invece, non sulla produzione, ma sulla ricezione della parola: gli esseri umani sono capaci di riconoscere individui familiari a partire dal suono della loro voce, ma cosa accade quando il cervello non è più in grado di associare le caratteristiche di una voce a un’identità conosciuta? Si parla, in questo caso, di fonoagnosia o voice blindness, cioè di incapacità selettiva di riconoscere le voci di persone note: l’articolo offre a questo proposito una panoramica su alcuni dei più affascinanti casi di pazienti con fonoagnosia nella storia della neuropsicologia.

 

E che dire quando la voce non è la nostra ma quella di una macchina: l’articolo Come funziona un assistente vocale si concentra proprio sugli assistenti vocali, il cui funzionamento cela avanzati algoritmi di machine learning che forniscono alla macchina numerosi esempi di frasi e parole in diversi contesti che creano dei cosiddetti word embeddings, cioè vettori che veicolano il significato di una certa parola. Sempre in ambito informativo e digitale Il mercato delle informazioni e l’illusione dell’echo chamber, analizza i social network e i problemi a loro connessi: questi spazi virtuali ampliano o limitino le possibilità di scelta e di informazione dell’individuo? E non rischiamo di assistere alla creazione di una echo chamber, una camera virtuale in cui ci confrontiamo con voci esclusivamente in linea con le nostre, prodotti conformi ai gusti, di ognuno, campagne di propaganda ad opera di regimi illiberali che non ammettono dissenso?

 

Questo argomento entra a pieno titolo nel dibattito filosofico, e in effetti a più riprese anche di filosofia si è parlato nel tema di questo mese: ad esempio, La voce universale della comunità estetica indaga la differenza che si pone tra gli enunciati “La rosa è bella” e “La rosa mi piace”, sulla base della peculiare posizione presa da Kant nella Critica della capacità di giudizio, in cui il giudizio estetico è descritto insieme come soggettivo e universale: la soluzione finale si sofferma sul fatto che ci si trova di fronte a una rappresentazione, una riconduzione del molteplice, che provoca una forma di piacere dalla natura universale. Spaziando in altro ambito, protagonista dell’articolo Il muto dialogo tra l’uomo e Dio è invece il filosofo Kierkegaard, che offre lo spunto per una riflessione su un tema cruciale: come conciliare la sofferenza con l’esperienza della fede? Attraverso la figura di Abramo e, in un secondo momento, il romanzo Giobbe di Joseph Roth si indagano i rapporti tra uomo e Dio, e si dimostra come l’esperienza religiosa, generata da un bisogno naturale e innato, diviene quotidiana riscoperta del rapporto con l’Assoluto attraverso l’esperienza del dolore.  

 

Ma nel dialogo e nel rapporto con l’uomo, come viviamo la nostra voce? Che la parola sia, come dice il sofista Gorgia nell’Encomio di Elena, “un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo divinissime cose sa compiere” era noto già agli antichi, che non trascuravano infatti la potenza e la capacità di persuasione del lógos. Un ruolo fondamentale ha infatti la voce anche in un episodio ben noto del poema omerico dell’Odissea, analizzato nell’articolo La voce delle Sirene: da Omero a Murubutu, che guarda in prospettiva diacronica alla vicenda dello scontro tra Odisseo e l’incanto del “limpido canto” delle Sirene e ne mette in mostra le diverse rappresentazioni date da Omero nel suo poema e da Murubutu nella canzone Le sirene. Voci forti e persuasive sono protagoniste anche di La voce di Marx e il silenzio di Lenin, in cui a essere presentate sono le teorie di Marx e quelle di Lenin, nell’ottica della ricostruzione dei fermenti dei partiti di sinistra degli anni Sessanta e Settanta fino all’abbandono delle idee rivoluzionarie di Lenin e alla nascita, nell’Italia della fine degli anni Sessanta, di partiti che si proclamano come il nuovo partito comunista. La comunicazione è dunque alla base dell’attività politica: questa è la prospettiva adottata anche da Rappresentare l’ordine, che, dopo una ricostruzione degli studi sulla natura della Repubblica romana, si sofferma sulla tesi secondo la quale la politica è, appunto, una comunicazione fra parti, in cui chi domina ha bisogno di ottenere il consenso di chi gli è sottoposto. Nel caso della Repubblica romana, questo consenso era costruito dalla classe dirigente attraverso cerimonie pubbliche di vario tipo, che avevano l’obiettivo di diffondere tra i cittadini il consenso nei confronti di un sistema di cui si sentivano parte integrante e accettavano la gerarchia. 

 

L’ultima pubblicazione del mese ha poi dato voce a una categoria che, di per sé, voce non ha: quella animale. Peter Singer e l’antispecismo prende il via dalla pubblicazione, nel 1975, di Liberazione animale, saggio in cui l’autore, il filosofo australiano Peter Singer, tratta dell’etica animalista ed esprime la propria denuncia al pregiudizio specista, dando voce al tema degli abusi e della sofferenza animale. Tema cruciale della trattazione è proprio quello della capacità degli animali di provare dolore: da questa consapevolezza deriva il fatto che la sofferenza provocata agli animali dall’industria alimentare intensiva sia moralmente inaccettabile, così com’è inaccettabile trattare gli animali come mera merce di scambio senza tener conto della loro sofferenza, che è, infatti, negativa indipendentemente dal soggetto che la prova. Per citare proprio Peter Singer: “Se un essere soffre non può sussistere alcuna giustificazione morale per rifiutarsi di prendere in considerazione questa sua sofferenza”.

 

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L'Editoriale

 Il simbolo non è né allegoria né segno ma l’immagine di un contenuto che per la massima parte trascende la coscienza. (Carl Gustav Jung)

 

Come conclusione di questo anno intenso di pubblicazione, in un periodo caratterizzato dalla lontananza a causa dell’emergenza sanitaria, il webmagazine de “Il Chiasmo” ha sempre assicurato agli articolisti e ai suoi lettori una presenza e una “connessione”. Questo editoriale chiude il tema “Simbolo”.

 

Affrontato da diverse prospettive, il tema ha attraversato svariati ambiti.

 

Per la sezione Lettere e arti, l’articolo Editoria e collane editoriali come simbolo della storia culturale italiana ha sottolineato il legame tra la storia dell’editoria italiana e la storia politica, culturale e sociale del paese. A questa trattazione si sono aggiunti articoli sulla poesia, come “La tremenda pace di un sogno”: fanciullezza e altre presenze dell’irreale nella poesia di Anna Maria Ortese, che ha analizzato la presenza dell’irreale nella produzione poetica della poetessa italiana di fine novecento; o, ancora, articoli di carattere più classico, come La peregrinatio del saggio stoico e dell’umanista (prima e seconda parte), in cui si approfondisce il legame tra Seneca e Petrarca con spunti presi da varie epistole, e per approdare, infine, alla contemporaneità, con l’articolo Le vent se lève, il faut tenter de vivre, in cui si propone una riflessione sul simbolismo del vento nell’arte cinematografica di Miyazaki. Sempre in ambito artistico, Simbologia e arte cristiana ha discusso della simbologia degli animali nelle produzioni artistiche delle chiese medievali.

 

Diversi articoli hanno avuto come oggetto il settore di studio della linguistica. L’articolo Il linguaggio in simboli. Un viaggio nel formalismo tra logica e linguistica ha guardato alla semantica del linguaggio naturale, in una prospettiva a cavallo tra logica e linguistica, laddove il filo conduttore è il formalismo; diversamente, l’articolo Salvaguardare le lingue-simbolo del mondo tramite i bambini ha toccato il tema delle grandi potenzialità circa l’apprendimento linguistico in età infantile.

 

Altri articoli si sono soffermati sui temi legati alla sezione Storia e filosofia, come l’articolo Il valore simbolico del passato, in cui si sono approfondite le tematiche del passato riportato al presente e utilizzato anche in chiave politica; ma anche l'articolo a cavallo tra discipline umanistiche e sociali, come Menti naturali e menti artificiali, che analizza il Symbol Grounding Problem e le sue implicazioni per l’Intelligenza artificiale (prima e seconda parte). A tema più filosofico, nel La faticosa formazione del significato si è proposta una trattazione circa l’estetica hegeliana dai contorni più sfumati, così come esso risulta dalle ricerche degli ultimi decenni sull’argomento.

 

Di impronta storico-sociale, Francis Fukuyama e l’identità nell’era globale (prima e seconda parte) si è soffermato su temi quali la globalizzazione e la costruzione identitaria nell’era globale.

 

Infine, l’articolo a quattro mani La matematica nella “Divina Commedia” ha visto l’esposizione di alcuni elementi della grande opera dantesca a cavallo tra letteratura e matematica, attraverso l’uso di una particolare simbologia numerica.

 

A conclusione di un anno in cui "Il Chiasmo" ha sempre garantito la sua presenza, con il tema "Simbolo" si chiudono temporaneamente le pubblicazioni per un periodo di pausa estiva, per riprendere con nuove iniziative dal mese di settembre 2021.

 

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L'Editoriale

Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, giudico potere esser vero, che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci governare l’altra metà, o poco meno, a noi. (Niccolò Machiavelli)

 

 Si è conclusa la serie di articoli riguardanti il tema Arbitrio, che è stato inaspettatamente trattato soprattutto da un punto di vista scientifico. Dei tre contributi pubblicati, infatti, due hanno messo in primo piano la matematica e le scienze, dimostrando come un argomento così complesso non possa essere escluso da nessun campo del sapere umano.

 

Si pensi al problema del libero arbitrio: nell’analisi della possibilità per l’uomo di avere o meno il controllo e la scelta sulle proprie azioni non si può prescindere dalla branca della neuroscienza, come si è dimostrato nell’articolo Libero arbitrio: una questione scientifica. Lo studio del funzionamento della psiche umana è infatti fondamentale per la comprensione di questo tema, ma non sufficiente per fornire una risposta definitiva: in base all’analisi dell’autocoscienza umana, per esempio, il libero arbitrio sarebbe un’illusione, e allo stesso modo, secondo gli studi della cibernetica, essendo l’uomo una macchina governata dal sistema nervoso egli non può avere libertà di scelta.

 

Più vicino alla matematica è invece l’articolo Cosa vuol dire scegliere per un matematico?, che si propone di dare una spiegazione degli assiomi fondamentali del pensiero matematico e di dimostrare intuitivamente perché sia stato necessario introdurre il cosiddetto Assioma della scelta (AC). L’elaborato si sofferma anche sulla spiegazione del Paradosso di Banach-Tarski e sul Teorema di Zermelo o del Buon Ordinamento, due curiosi risultati matematici in cui l’Assioma della Scelta gioca un ruolo fondamentale.

 

Il terzo articolo apre infine uno spiraglio diverso sul tema dell’arbitrio: «Lume» e «libero voler»: breve itinerario nel pensiero moderno traccia infatti un percorso tematico che dall'antichità ci conduce ai più illustri esponenti della modernità europea, analizzando le principali correnti filosofiche che hanno contribuito a definire limiti ed estensioni della libertà umana. L’elaborato evidenzia come il concetto di determinismo abbia i suoi primi cenni, ereditati poi dall’antica scuola dello Stoicismo, nel pensiero degli atomisti, e veda le azioni umane come determinate da una condizione di necessità. L’autore passa poi a delineare i tratti della Sostanza di Spinoza, che esiste di per sé perché unica causa del proprio essere, e poi dell’eredità tomistica nel poema di Dante, in cui tramite la spiegazione della prescienza divina il concetto di determinismo è negato: il fatto che Dio sia spettatore degli eventi non significa che essi siano predeterminati, e quindi il libero arbitrio umano è presente.

 

Per concludere, Arbitrio ha lasciato ampio spazio di esposizione per gli articolisti, mostrando sia il versante storico-filosofico, sia il versante scientifico-matematico, allontanandosi da una visione e trattazione monofocale e offrendo, di conseguenza, la possibilità di scegliere.

 

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L'Editoriale

«No man is an island» J. Donne.

 

Si è appena concluso il tema Relazione, che è stato letto e interpretato in vari modi dai nostri articolisti: ecco un rapido assaggio di ciò che è stato. Diversi nostri autori hanno deciso di occuparsi del tema partendo dalle relazioni basilari che plasmano la vita di ogni individuo, ossia quella con se stessi e quella  con il mondo che ci circonda. In Voce e identità, l’autrice (Sofia Russo) ha esaminato la relazione con sé e l’equilibrio che va mantenuto perché questa relazione sia sana: uno squilibrio da una parte o dall’altra, verso l’altro o verso il proprio io, porta a conseguenze pericolose, se non tragiche. Questo è il caso dei due protagonisti del primo esempio citato dall’autrice, ossia i famosissimi Eco e Narciso, i quali incarnano uno squilibrio nella relazione con sé: la ninfa perde la propria voce e la propria identità fino a divenire simbolo dell’alterità da sé, il giovane, al contrario, è «l’emblema della pura identità», essendo ossessionato da sé, in uno squilibrio  malsano e pericoloso. In chiusura dell’articolo l’autrice condense le due caratteristiche fondamentali dei personaggi del mito (l’amore per sé e la voce) in un esempio moderno e positivo: si tratta della canzone/dichiarazione d’amore della cantante Madame dedicata alla propria voce, la quale è la radice della sua identità. Sempre sul tema dell’identità è La relazione con l’altro in Filosofia e Biologia (Teresa Schillaci), in cui è svelata la risposta della biologia a un importante  quesito filosofico: se è vero che il corpo umano è il risultato dell’interazione complessa tra cellule umane e comunità di cellule microbiche, di cui il corpo è ospite, l’individuo non sarebbe più tanto «un polo di identità puro, ma il risultato di esperienze», dunque l’individuo stesso (o, meglio, il con-dividuo) non sarebbe altro che egli stesso una relazione.

 

Sempre del rapporto dell’io con l’altro si occupa l’articolo Scuotere l’ordine abituale (Laura Oppi), in cui l’autrice, partendo dalle riflessioni di Heidegger e Waldenfels, cerca di chiarire, oltrepassando i naturali paradossi suscitati da una simile riflessione (si parla di «incomprensibilità del comprensibile» e «accessibilità dell’inaccessibile»), come avvenga il rapporto dell’io con l’altro. L’estraneo è difficilmente accessibile, poiché si manifesta solo quando destabilizza, eppure è fondamentale, poiché non può esistere un io isolato dal mondo, ossia un io privo di relazioni con l’altro: per entrambi i filosofi  l’estraneità è ciò da cui proviene un appello a cui l’uomo non può sottrarsi. L’unico modo per comprendere e accedere a questo altro da sé «è non parlare dell’estraneo, ma parlare dall’estraneo, attraverso le sue risposte». A un risultato simile arrivano anche Io sono perché noi siamo (Sabrina Conforti) e Il vento del multiculturalismo (Elisa Baiocco e Mariagrazia Coco). Il primo definisce l’Ubuntu, ossia  l’etica sub-sahariana fondata sulla lealtà e la relazione con gli altri, per la quale “l’io sono” (e da qui il titolo) è identificabile con “il noi siamo”: ciò significa l’uscita da una prospettiva egoistica e l’approdo alla concezione della comunità, frutto delle relazioni tra tutti gli esseri viventi (umani, animali, piante), quale organo più importante del singolo. Il vento del multiculturalismo, in modo simile ma non identico, afferma la necessità di una relazione con l’altro, non tanto, in questo caso, per una piena conoscenza di sé, quanto per una maggiore apertura tra cultura nel segno dell’integrazione. L’articolo, esaminando tre casi di incontro/scontro culturale, afferma la necessità dell’abbandono dei propri paradigmi conoscitivi e l’assunzione di quelli estranei al fine di poter veramente comprendere culture diverse e lontane senza pregiudizi e giungere a un’effettiva multiculturalità.

 

La conoscenza dell’estraneo non è solamente conoscenza del simile, dell’altro da sé, ma è anche conoscenza di ciò che non appartiene direttamente all’uomo per natura. Un esempio di ciò è l’articolo sui Principia Ethica di Moore, scritto da Alma Lia Salmieri, in cui si ribadisce la necessità di riconoscere il bene come oggetto di conoscenza che non è proprietà naturale dell’uomo, come affermano le etiche naturalistiche, depotenziando e delegittimando e, infine, negando l’autonomia della morale. Solo perché non connaturato all’uomo, non per questo il concetto di bene è inafferrabile: esso può essere oggetto di conoscenza, e anche la sua difficile definizione, dovuta al suo essere un concetto semplice e dunque graniticamente povero di peculiarità che lo identifichino, fa sì che l’unico modo per poterlo veramente afferrare sia l’intuizione. Il concetto di bene può essere descritto, ma non spiegato, a chi non ne abbia già fatto conoscenza.

 

Infine, secondo una prospettiva lievemente diversa rispetto agli articoli succitati, due autori si sono occupati della relazione dell’io con l’altro all’interno di opere letterarie: Francesco Serratì con Relazioni pericolose e Andrea Acqualagna con The Great God Job. Il primo si occupa del rapporto dell’io con l’altro all’interno di una relazione romantica, costruendo un parallelismo tra la tragica storia d’amore di Ero e Leandro e quella di Malgherita e Teodoro, narrata all’interno de Le piacevoli Notti di Straparola: vengono esaminati i tratti in comune, le differenze e gli intermediari che si situano tra l’opera ovidiana e la narrazione di Straparola. Il secondo articolo si occupa invece del problema della perdita d’identità: analizza il romanzo Christ in Concrete, in cui si racconta la storia di migranti italiani che, soffocati dal capitalismo americano, perdono la loro fede cattolica in onore del nuovo Dio Lavoro (Job) e con essa anche le loro radici italiane, fino a una totale perdita di sé: non più uomini, ma servitori di Job, «Our bodies are no longer meat and bone of our parents, but substance of Job».

 

Un altro grande filone individuabile che lega insieme diversi articoli è quello che si potrebbe definire rivoluzionario: la relazione non più dell’uomo con sé stesso o con il suo pari, ma dell’uomo con o contro lo Stato, la società o un sistema normativo prestabilito. L’articolo forse più emblematico di questo sottogruppo è La Révolution e il diritto successorio di Francesco Petronio, il quale ha ben sottolineato come la relazione padre-figlio, concretizzata nella patria potestà e nelle pratiche del diritto successorio, sia stata determinante per la Rivoluzione francese: solo modificando il diritto successorio, in modo da evitare la diseredazione, molti giovani poterono permettersi di prendere le armi per contribuire alla rivoluzione senza il rischio di ritrovarsi nella più totale indigenza una volta finita. A confermare il  ruolo rivoluzionario giocato da questa relazione è la riammissione della possibilità di diseredare e della patria potestà una volta finiti gli anni del Terrore e iniziata l’ascesa di Napoleone. In Le relazioni nascoste, Emanuele D’Amario si è occupato di un’altra rivoluzione, quella del Sessantotto, e delle tensioni e relazioni che hanno portato  l’Italia alla violenza degli Anni di Piombo. L’autore identifica lucidamente le cause che hanno permesso  al terrorismo rosso e nero di dominare gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, con una virulenza e una durata che non conobbe precedenti in tutta Europa per quanto riguarda il terrorismo politico, solitamente più effimero e debole di quello religioso o etnico. Grazie a questo lavoro di eviscerazione vengono presentate chiaramente le relazioni, che affondano le radici nella “guerra civile” tra Resistenza e fascisti, che spesso vengono taciute o liquidate come nascoste e oscure.

 

La rivoluzione può assumere molte forme differenti, dunque accanto a questi due esempi canonici e notissimi altri autori si sono occupati di rivoluzioni meno evidenti, ma non per questo meno impattanti: è questo il caso delle rivoluzioni culturali di Una questioni di relazioni (Simone Angelo Cataldo e Federica Vilei), (Im)pari opportunità (Bilal Mazhar),  Lo scienziato come professione (Francesco Vezzani) e L’inno americano e la lotta degli atleti neri (Kevin Pacetti Paolini). In Una questione di relazioni i due autori si occupano dell’evoluzione del concetto di comunità in quello di società durante la Rivoluzione umanistica a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento. La tesi di fondo è che nel passaggio dal Medioevo all’età umanistica ci sia stata una profonda modificazione della società e del modo di relazionarsi degli individui: non più un individuo olistico, inserito nella società come parte di un tutto, ma un individuo egoistico, interessato al suo benessere personale. Questa evoluzione dipende dal prevalere della ragione e del pensiero critico sull’istinto e la spontaneità, e questo cambio di paradigma dipende dal mutamento della relazione che l’individuo intreccia sia con gli altri (i legami non sono più basati solo sul sangue, ma su affinità elettive) sia con se stesso. La seconda rivoluzione culturale trattata è quella scientifica, che i due articoli di Francesco e Bilal mostrano nella sua diacronia. Lo scienziato come professione ripercorre le tappe che hanno permesso, tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, il processo di affermazione identitaria e professionalizzazione della Scienza. Grazie al rinnovamento universitario, alla creazione di laboratori come centri di ricerca e alla creazione di periodici scientifici (sia specialistici sia divulgativi), la figura dello scienziato si è progressivamente liberata da quella del professore e ha acquisito la sua propria autonomia, diventando un mestiere autonomo e dunque potenziando enormemente l’attività di ricerca. L’articolo di Bilal sulle (im)pari opportunità tratta di un’altra rivoluzione culturale dell’ambiente scientifico, una rivoluzione rosa, ancora in atto e lontana, purtroppo, dalla sua piena realizzazione. L’autore sottolinea il curioso paradosso di genere che segna la sanità italiana: ci sono più donne studentesse alla Facoltà di Medicina, laureate in tempo e con ottimi voti, ci sono più donne iscritte agli albi professionali e ci sono decisamente più donne in corsia, ma se si sale a piani più alti della gerarchia inspiegabilmente esse scompaiono lasciando posto ai soli uomini. Le cause di questo ampio gender gap risiedono negli stereotipi di genere che hanno piantato profonde radici nella società, e nei molti ostacoli che una donna deve affrontare per raggiungere posizioni apicali, in particolare se decide di creare una  famiglia. La soluzione per poter attuare questa rivoluzione culturale, che in Italia procede molto a rilento, è prendere a modello Paesi (come quelli scandinavi) che sono riusciti a rimpicciolire il divario grazie a politiche culturali ed educative volte all’eguaglianza. Infine, nell’articolo di Kevin, a essere trattata è una rivoluzione culturale che da anni sta avendo luogo negli Stati Uniti a causa delle violenze perpetrate nei confronti della comunità afro-americana. L’articolo ripercorre alcuni degli atti di protesta più iconici di atleti afro-americani durante la cerimonia dell’inno, sottolineando il forte valore simbolico del gesto e l’enorme peso sulle relazioni sociali.

 

Alcuni articolisti, infine, hanno interpretato il tema Relazione in una chiave economico-politica: è il caso di Riccardo Coletta, che nei sui articoli La causa del contratto derivato finanziario: l’IRS tra causa iocii e causa finanziaria e I profili patologici dell’Interest Rate Swap tra causa in concreto e alea razionale indaga con precisione le cause del contratto derivato finanziario le relazioni createsi alla luce della regolamentazione finanziaria interna ed europea; e così è il caso di Clelia Li Vigni e il suo articolo Una stretta relazione: accademica, idee e politica. L’articolo si sofferma sulla stretta relazione che può formarsi tra l’accademia e la politica per la circolazione di idee, attraverso il ruolo fondamentale di personaggi del mondo accademico che si trovano a partecipare all’attività politica del paese.

 

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Il vento del multiculturalismo

 

«Tu credi che ogni cosa ti appartenga / La terra e ogni paese dove vai / Ma sappi invece che ogni cosa al mondo / È come te, ha uno spirito, ha un perché / Tu credi che sia giusto in questo mondo / Pensare e comportarsi come te / Ma solo se difenderai la vita / Scoprirai le tante cose che non sai», questi sono alcuni dei versi della canzone I colori del vento del film Pocahontas, uscito nel 1995. Questo film racconta una storia di incontro-scontro tra due popoli, ma anche tra due culture opposte e non per questo non conciliabili: da una parte gli inglesi, la cui spedizione nel nuovo mondo è capeggiata dal Governatore Ratcliffe, un arrampicatore sociale; dall'altra, i Powhatan, tribù indigena delle zone. Per quanto questo film sia ormai conosciuto, pochi sanno che questa principessa atipica è una figura realmente esistita – la vera Pocahontas fu una nativa americana che sposò un uomo inglese – e che porta con sé una storia di integrazione e transculturalismo.

 

La vicenda di Pocahontas mostra come ogni essere umano sia estraneo ai suoi simili, ma anche come, al contempo, ciascuno individuo danzi in un sistema di relazioni con gli altri. Derrida fa notare come la stessa parola hostis, utilizzata per definire lo straniero – concepito come l’altro da se stesso - sia polisemica: se da un lato indica “il nemico”, dall’altro si può tradurre con “ospite”. Per passare dall’inimicizia all’ospitalità dell’altro occorre una particolare relazione tra gli individui: il riconoscimento.

 

Importante è ricordare che il riconoscimento dell’altro non è sempre amichevole, ma spesso conflittuale. L’incontro-scontro tra me e gli altri da me prende forma soprattutto nella sfera del multiculturalismo, come ci mostra la storia di Pocahontas. Emblematici, in questo senso, sono anche il caso del Québec francese e quello dell’incontro tra l’Occidente e le altre culture.

 

Il Québec francese gode del riconoscimento dei propri diritti linguistici e di alcune forme di autonomia al fine di preservare la propria identità.   in qualche modo collide con la Carta canadese dei diritti fondamentali, adottata nel 1982, dal momento che quest’ultima garantisce la parità dei diritti per tutti i canadesi. Le richieste del Québec pongono un problema filosofico molto rilevante: l’adozione di scopi collettivi (nella fattispecie, la sopravvivenza della particolarità linguistica della popolazione) può giustificare limitazioni ai comportamenti individuali che ledano i diritti di coloro che si trovano sotto la giurisdizione del Québec ma non sono favoriti da questi provvedimenti o non vi si vogliono uniformare? Siamo di fronte ad una discriminazione nei loro confronti?

 

La risposta della corrente liberale, che da sempre considera i diritti individuali superiori a quelli collettivi, è molto netta: si tratta di una discriminazione ingiustificata. In particolar modo, il filosofo Ronald Dworkin distingue tra gli impegni morali procedurali (che consistono nel trattarsi reciprocamente in modo equo) e gli impegni morali sostantivi (riguardanti una visione della vita giusta), asserendo che solo i primi siano giustificati. In tal senso, una società liberale non può e non deve affermare una visione sostantiva dei fini della vita, dal momento che la dignità umana consiste nell’autonomia degli individui. Il governo del Québec violerebbe questo principio liberale asserendo che il mantenimento della cultura francese sia un bene per il paese e provando a «creare attivamente – citando il filosofo Charles Taylor – dei membri di tale comunità» che vogliano continuare a parlare francese. A parere di Taylor, la soluzione canadese non è incompatibile col liberalismo, ma solo con un tipo di liberalismo, quello che adotta un atteggiamento proceduralista. Contrariamente a questo, altri tipi di liberalismo fanno sì che lo stato «possa organizzarsi intorno a una definizione della vita buona senza per questo sminuire coloro che personalmente non condividono questa definizione». Questi modelli liberali, sostenuti da Taylor, implicano che si distingua tra libertà fondamentali uguali per tutti e impossibili da violare, e privilegi e immunità che tutelino la sopravvivenza di una certa comunità, che possano essere garantiti tutelando, al contempo, le minoranze.

 

Jurgen Habermas non condivide, invece, la posizione di Taylor, sostenendo che uno stato che promuove attivamente una visione di bene sia paternalistico, ovvero decida cosa sia meglio per i propri cittadini, senza che questi ultimi possano sceglierlo in autonomia. Questo modello di stato viola quelle che Isaiah Berlin definisce le “libertà negative” dell’individuo, ovvero la libertà di godere dei propri diritti nella sfera privata senza che lo stato interferisca imponendo una visione di bene. Secondo Habermas la tutela dei cittadini, sia da un punto di vista individuale che collettivo, si costruisce solo quando tutti e tutte partecipano al processo democratico di formazione delle leggi. Dal momento che la cittadinanza elegge i suoi rappresentanti, e questi ultimi sono gli autori delle leggi, il popolo è coinvolto nel processo decisionale.

 

Un altro rapporto di riconoscimento molto complesso è quello che intercorre tra l’Occidente e le altre culture. Taylor pone l’accento sul fatto che il liberalismo non sia un terreno di incontro neutro ma, inevitabilmente, il riflesso della cultura occidentale che lo ha partorito. Il filosofo chiede un’inversione dell’approccio tramite il quale si esaminano le culture non occidentali: anziché utilizzare i criteri della propria cultura, occorre non avere pregiudizi e partire dal presupposto che tutte le culture hanno qualcosa da dire. E’ di fondamentale importanza accostarsi alle produzioni delle altre culture presupponendo che abbiano valore, ma non che il giudizio finale debba essere che tali opere abbiano un valore uguale o superiore a quelle occidentali. Infatti, misurare l’importanza delle produzioni delle altre culture e paragonarle a quelle occidentali significherebbe utilizzare un proprio metro di giudizio; ciò che si necessita è, invece, la «fusione di orizzonti» di cui tratta Gadamer. Quest’ultima è definita da Taylor come «un orizzonte più ampio, entro il quale ciò che prima era lo sfondo, dato per scontato, dalle nostre valutazioni può essere riclassificato come una delle possibilità esistenti, insieme allo sfondo (diverso) della cultura che ci era prima estranea».

 

Pertanto, l’affermazione dello scrittore Saul Bellow, che si dice pronto a leggere le opere degli zulù quando la loro comunità produrrà un Tolstoji, è etnocentrica nella misura in cui presume che l’eccellenza debba avere il volto familiare di un Tolstoji e assume che tale popolo non abbia ancora prodotto delle opere importanti.

 

Come fare, quindi per favorire un incontro di riconoscimento costruttivo tra culture o individui diversi? Un primo modo per ospitare l’altro si ricava dagli studi di Franz Fanon, secondo i quali i colonizzatori impongono ai colonizzati l’immagine che essi hanno di questi ultimi. I colonizzati, pertanto, devono come prima cosa liberarsi di questa immagine etero-imposta. In questo contesto, si dovrebbero iniziare a conoscere, nelle scuole, autori di altre culture o membri di gruppo svantaggiati. Non da ultimo, si dovrebbero far studiare più autrici donne. In questo modo, gli studenti che si riconoscono nelle “categorie” a cui appartengono gli autori che studiano tenderanno a disfarsi dell’immagine loro imposta dalla società e saranno, finalmente, liberi e libere di esprimere appieno la loro alterità, che da esistenza altra si tramuterà in soggettività.

 

E fu questa la soggettività che animò la vera Pocahontas e suo marito, John Rolfe, uno dei primi coloni inglesi nel Nord America. Entrambi furono espressione e conferma indiscutibile di un transculturalismo che ha l'odore di uno sperato futuro: « Non distinguer dal colore della pelle / E una vita in ogni cosa scoprirai / E la terra sembrerà solo terra finché tu / Con il vento non dipingerai l'amor».

 

Per saperne di più:

Si consiglia la lettura del testo Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, di Habermas e Taylor,  edito da Feltrinelli a Milano nel 1999. Si suggerisce, inoltre, di approfondire la storia di Pocahontas e John Rolfe.

  

 

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La logica del superstite

«Guardate! Adesso arriva la processione, come se non fossimo abbastanza, e, mamma mia com'è brutto quell'anatroccolo! Lui non lo vogliamo!»

 

esclama la società delle anatre quando mamma anatra, che ha appena covato e fatto schiudere le uova, presenta i suoi piccoli anatroccoli. Peccato che tra la famiglia di anatroccoli ce ne sia uno diverso rispetto ai fratelli (era già evidente quando era dentro l'uovo, più grande rispetto agli altri) e pure  brutto. Si tratta di una delle fiabe più conosciute, ovvero la fiaba del brutto anatroccolo riportata da Hans Christian Andersen, pubblicata per la prima volta nel 1843, per poi essere inclusa nella raccolta I nuovi racconti (in originale danese Nye Eventyr) nel 1844.

 

Spesso i racconti e le storie vengono lette ai bambini dagli adulti. In questa attività, il destinatario della lettura non è solo il bambino, che la riceve guardando poi al lieto fine, ma anche e soprattutto l'adulto stesso. Questi, genitore o chicchessia, leggendo ormai spoglio degli occhi del bambino,  può riprendere quella fiaba, storia o racconto ascoltati in tenera età, analizzandoli di nuovo in una fase evolutiva diversa e ricevendo altre suggestioni.

 

Come scrivono André Petitat e Raphaël Baroni:

 

Il presente lavoro si inserisce nella lunga tradizione che, da Aristotele a Ricœur, affronta il racconto come testo d’azioni. Il fatto che la “logica delle azioni” sottende e struttura i racconti spiega come la narratologia ha da tempo costituito un punto cardine essenziale [nella sua articolazione] in diversi settori delle scienze umanistiche e sociali. Il circolo della tripla mimesis, che Ricœur  ha descritto nel suo studio monumentale a proposito delle relazioni tra tempo e racconto, ha accentuato questo dialogo, sottolineando il ruolo mediatore della narrazione nella sua nuova configurazione dell’azione e nella costruzione identitaria del soggetto.

 

In particolare, nella fiaba del brutto anatroccolo, si è davanti ad uno spazio interazionale non solo del soggetto con la comunità, ma anche del soggetto con se stesso, che, dal di fuori, porta dentro di sé le critiche sociali mossegli contro e che determinano una sua crisi identitaria.

 

La storia narra dell'impatto sociale della diversità di un soggetto all'interno di una comunità. In questo caso, l'anatroccolo è definito "brutto" perché diverso dagli altri membri della comunità nella quale era nato. Secondo gli sviluppi della storia, il brutto anatroccolo attraversa solo una fase in questa diversità che vedrà poi i suoi sviluppi in una trasformazione fisica che si accompagna ad un processo di crescita. La fiaba narra dell'esclusione del brutto anatroccolo e della derisione mostrata nei suoi confronti da parte del gruppo: 

 

[…] il povero anatroccolo che era uscito per ultimo dall'uovo e che era così brutto venne beccato, spinto e preso in giro, sia dalle anatre che dalle galline: “È troppo grosso!” dicevano tutti […] Il povero anatroccolo non sapeva se doveva rimanere o andare via, era molto abbattuto perché era così brutto e tutto il pollaio lo prendeva in giro. Così passò il primo giorno, e col tempo fu sempre peggio. Il povero anatroccolo veniva cacciato da tutti, persino i suoi fratelli erano cattivi con lui e dicevano sempre: "Se solo il gatto ti prendesse, brutto mostro!" e la madre pensava: “Se tu fossi lontano da qui!”. Le anatre lo beccavano, le galline lo colpivano e la ragazza che portava il mangime alle bestie lo allontanava a calci.

 

Le vessazioni fisiche e psichiche agiscono pesantemente sul brutto anatroccolo, tanto da farlo dubitare di se stesso. A ciò si aggiunge la caccia grossa nella palude, durante la quale un cane risparmia il brutto anatroccolo proprio per la sua bruttezza, come viene a dirsi quest’ultimo: «sono così brutto che persino il cane non osa mordermi»; per poi continuare, fino ad arrivare alla sua successiva subordinazione a una gallina, che lo mette ulteriormente a confronto con le sue incapacità.

 

Quello che è riportato nella fiaba è il fenomeno sociale del peer-pressure, letteralmente “pressione dei pari” , ma che in italiano risulta si può tradurre come “pressione sociale” , che determina, poi, un conformismo del soggetto. Treccani riporta la seguente definizione di "conformismo", ovvero:

 

[…] ogni modalità di condotta che, per effetto di una pressione sociale esercitata dalla collettività o da gruppi in essa influenti, produce una condizione di uniformità […] capace di minimizzare gli attriti dell'interazione sociale. L'individuo conformista tende ad adattarsi alle norme sociali e a non differenziarsi rispetto agli altri soggetti del gruppo di riferimento (ceto, classe, gruppo parentale o professionale o di vicinato, sfera pubblica), arrivando a negare o a dissimulare le proprie convinzioni e a orientare l'agire alle aspettative degli altri membri del gruppo.

 

Questo fenomeno sociale è ancora più attivo e invasivo nella nostra epoca, che vede l’entrata in auge dei social media e degli influencer e nella quale lo spazio di vita con iniziative propulsive del soggetto viene ad essere soppresso e oppresso da spazi sociali determinati da soggetti più forti che praticano quasi un ostracismo sociale. Gli studiosi riportano tre distinzioni: «[le] rôle des capacités motrices, [le] rôle des perceptions et [le] rôle des croyances dans l’action», ovvero [il] ruolo delle capacità motorie, [il] ruolo delle percezioni e [il] ruolo del credere nell’azione. Alla luce della presente fiaba, appare evidente come sia presente non solo il ruolo delle capacità di movimento, ma anche quello delle percezioni e del credere nell'azione effettuata. Durante tutta la fiaba, il brutto anatroccolo non si confronta mai con se stesso, mettendosi a nudo, ma si vede e percepisce solo come riflesso della sua immagine negli occhi della società di animali e uomini che lo circonda e che lo deride sia per il suo aspetto fisico, che per le sue capacità motrici e per le sue azioni, fino a quando non si specchia nell'acqua e scorge l'immagine di un bel cigno. Nello scoprirsi, il brutto anatroccolo capisce la sua diversità, la comincia ad amare e non ne ha più vergogna. 

 

A volte invece non si ha un lieto fine. Esistono storie che raccontano di vite bruciate sul nascere. È il caso del racconto de La piccola fiammiferaia, in cui l'esclusione sociale determina una morte del soggetto.

 

Era la fine dell'anno faceva molto freddo. Una povera bambina camminava a piedi nudi per le strade della città. […] La piccola portava nel suo vecchio grembiule una gran quantità di fiammiferi che doveva vendere. Sfortunatamente c'era in giro poca gente: infatti quasi tutti erano a casa impegnati nei preparativi della festa e la poverina non aveva guadagnato neanche un soldo.

 

Pubblicata nel 1848 e facente parte del quinto volume de I nuovi racconti, La piccola fiammiferaia è un racconto che costringe in sé un misto di tenerezza e di distacco agghiacciante nei confronti della vita. La piccola bambina con  i fiammiferi è esclusa dal punto di vista fisico sotto due aspetti che indicano la duplice prospettiva dell'ambiente e della società, intrinsecamente connessi: l'esclusione ambientale è evidente in quanto tutta la fiaba si svolge all'esterno, per strada; l'esclusione sociale è palese in quanto si tratta di una città deserta e isolata, quando le famiglie sono dentro casa e si apprestano a celebrare l'arrivo del nuovo anno, mentre la piccola fiammiferaia è "esclusa" in quanto messa fuori casa e non accolta all'interno.

 

Questa fiaba inizia, si sviluppa e si conclude in un attimo, come fosse quasi un fiammifero che in un attimo si accende e in poco si spegne. Alla fine del racconto, il corpo senza vita della bambina viene ritrovato nel freddo della mattina del nuovo anno con attorno quella società che l'ha esclusa: «La bambina venne trovata il mattino dopo in quell'angolo della strada, con le guance rosse e il sorriso sulle labbra. Era morta, morta di freddo l'ultima sera del vecchio anno».

 

In conclusione, in questo panorama si ha come l'esclusione del soggetto, il singolo, messo di fronte all'ambiente sociale e alla comunità in cui è immerso. Intrappolato in una categorizzazione sociale come “escluso”, questa condizione gioca pesantemente sulla psyche di quest'ultimo, con due esiti differenti.

 

Inizialmente per bambini, ma anche di utile rilettura per gli adulti, i racconti, le storie e le fiabe svolgono una funzione "catartica" per il suo fruitore. Come riporta Treccani: «in psicanalisi, processo di liberazione da esperienze traumatizzanti o da sistemazioni conflittuali, ottenuto attraverso la completa rievocazione degli eventi responsabili, che vengono rivissuti, a livello cosciente, sia sul piano razionale sia su quello emotivo (abreazione)».

 

Senza effettuare determinati passi, non c'è progresso psicologico né fisico del soggetto, che deve progredire secondo una maturazione essenziale e sostanziale, da bambino ad adulto, e questo  costituisce la condizione per la quale «[…] non è possibile fiorire appieno», come sostiene Clarissa Pinkola Estés, che tocca, per l'appunto, la «grazia dell'appartenenza», ma anche «l'esilio come grazia»" e la logica del superstite, che deve però maturare e spingersi oltre, per far fluire la propria energia e esprimere il suo io, proprio come il brutto anatroccolo che, a differenza della piccola fiammiferaia, fiorisce.

 

In conclusione, entrambi i racconti mettono in luce la categoria del soggetto "insolito" e "deprivato" del calore di un ambiente, sia esso sociale o ambientale, che costringe il soggetto a cadere vittima e solo in alcuni casi a riemergere, conscio del suo essere. Come ricorda Clarissa Pinkola Estés in Donne che corrono coi lupi:

 

Non fatevi piccolin[i] se vi dicono che siete la pecora nera. […] I miopi dicono che un non conformista è un veleno per la società. Ma nei secoli è stato provato che essere diversi significa restare ai margini, essere praticamente certi di dare un contributo originale, utile e magnifico alla cultura.

 

Per saperne di più:

Si consiglia la lettura de Fiabe di Hans Christian Andersen, a cura di  Silvia  Masaracchio; Donne che corrono coi lupi, di Clarissa Pinkola Estés e tradotto da Maura Pizzorno, come anche alcuni articoli scientifici, quali L’interaction contractuelle dans les contes di André Petitat et Raphaël Baron.

 

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Oriente: tra narrazione dell'esotico e espressione del "molto, molto lontano"

«In Europe life retreats out of the cold, and exquisite fireside myths have resulted […] but [in India] the retreat is from the source of life, the treacherous sun, and no poetry adorns it because disillusionment cannot be beautiful»

Scrive così Edward Morgan Forster in A Passage to India (1924). L'Oriente, pieno di contraddizioni, ha avuto un ruolo particolare sia nella storia che nella letteratura: catalizzatore di spinte di riflessione introspettiva alla ricerca del proprio Sé, come anche luogo di conquista. Un Oriente pieno di fascino, che ha catturato l'anima di numerosi scrittori romantici dell'Ottocento, ma che, già dal Settecento, destava interesse presso gli Illuministi: un Oriente "esotico", aggettivo usato nell'accezione a indicare «Il gusto, la ricerca e l’uso delle cose forestiere, estranee alle tradizioni locali, nelle arti e nella vita», come riportato su Treccani.

Se, nel Settecento, questo gusto ispirava la letteratura di viaggio di vari scrittori e esponenti dell'Illuminismo, nell'Ottocento si è andato via via affermando un sentimento di fascinoso richiamo verso un mondo che appariva diafano, un richiamo ancestrale e posto sul livello spirituale: ne è un esempio l'attrazione che provarono poeti del Romanticismo inglese, come John Keats.

Ad un certo punto, però, questo Oriente fascinoso viene “desacralizzato”: a causa dell’imperialismo, quello spirito primitivo, ancestrale e non-conquistato, entra nella sfera del possibile e del possesso, dell'appropriazione, per finire nel campo del corruttibile. Da cosa? Dall'avanzare spregiudicato dello spirito europeo che si concretizza nella volontà di “civilizzazione” nei confronti di popoli arretrati:  ritenuta necessaria e dovuta da qualunque popolo civilizzato che doveva sacrificarsi per poter portare certi schemi di matrice occidentale nelle aree orientali e nel continente africano. Diversi sono, infatti, gli autori che nelle loro opere danno espressione di tale sentimento. Tra loro, celebre è Rudyard Kipling, nato a Bombay nel 1865 da genitori inglesi e autore del famoso The Jungle Book, ma anche della poesia The White Man's Burden, componimento scritto in occasione della colonizzazione delle Filippine da parte degli Stati Uniti. In particolare, questo componimento poetico del 1899 esprime quello che poi divenne il motivo culturale della civilizzazione europea di popolazioni “barbare”, tali venivano viste le comunità culturali orientali, ovvero arretrate e prive di qualsiasi grado di sapere. La prima delle sette strofe recita: 

«Take up the White Man's burden —/ Send forth the best ye breed —/ Go bind your sons to exile/ To serve your captives' need;/ To wait in heavy harness,/ On fluttered folk and wild —/ Your new-caught, sullen peoples,/ Half-devil and half-child».

È chiaro come appare l'uomo che abita in Oriente al suo limite occidentale: da una parte come un demone, incivile e selvaggio, nei confronti del quale il lume della ragione e dell'organizzazione statale, nonché di una presenza istituzionale super personam si rendeva quanto mai necessaria; dall'altra come un bambino, che si affaccia a poco a poco alla vita e deve imparare da chi ne sa più di lui, ovvero i suoi genitori. Kipling fu, del resto, figlio del suo tempo e di un Regno Unito il cui imperialismo stava fiorendo sotto il regno della Regina Vittoria. Non mancarono comunque delle spinte opposte, come, del resto, racconta lo scrittore polacco-britannico Joseph Conrad in Heart of Darkness, opera anch'essa pubblicata nel 1899. In particolare, anche rielaborando la sua esperienza, frutto dei suoi viaggi in Congo, Conrad rese chiaro quanto questo progetto di "civilizzazione del selvaggio" fosse, in realtà, un piano disumanizzante, che riduceva il selvaggio a un mero strumento a beneficio di continenti considerati come "più avanzati". Secondo alcune letture critiche, il personaggio di Marlow è descritto come una figura simile a un Buddha che medita a proposito dell'esperienza che ha vissuto, quasi fosse un filosofo e un saggio, più che un marinaio. La trama del libro è ben nota: a bordo della iolla Nellie, il vecchio marinaio Marlow comincia a raccontare la storia che lo ha portato nel cuore dell'Africa nera. Da marinaio avido di avventure, Marlow ricorda di quando un più giovane se stesso diresse la sua rotta nel cuore del Congo. Qui scoprirà il declamato "progresso" e l'opera di "civilizzazione" che l'imperialismo europeo aveva portato in quella regione: il commerciante d'avorio Kurtz, espressione della presunta "civiltà" europea, si impone pesantemente sulla popolazione indigena congolese, costringendola a lavori che riducono l'umanità degli indigeni a meri strumenti a beneficio di nazioni civilizzate. Nel passare del tempo con Kurtz, Marlow, progressivamente, si affaccia sul balcone che riporta l'umanità degli indigeni e l'inumanità dei coloni: 

«It was unearthly, and the men were - No, they were not inhuman. Well, you know, that was the worst of it - this suspicion of their not being inhuman […] what thrilled you was just the thought of their humanity - like yours - the thought of your remote kinship with this wild and passionate uproar. […] I have a voice, too, and for good or evil mine is the speech that cannot be silenced». 

Nel suddetto passaggio emergono due sentimenti contrastanti: in primis, l'avvedersi che quegli uomini barbari non erano poi così diversi dal colonizzatore inglese, del resto si è tutti parte del genere umano, si appartiene alla stessa famiglia; dall'altro, si palesa l'oppressione e la soppressione a livello di "voce" dell'indigeno, che non ha diritto di parola. Conrad si avvale dell'artificio dell'ironia per poter rendere ancora più forte l'assurdità e il disumano presenti in quella regione, diventando una sorta di ripetitore di questa "oscurità", come riporta Joseph Hillis Miller: «He [Marlow] too, in speaking ironically, becomes, like Kurtz, one of those speaking tubes or realy stations through whom the darkness speaks. […] irony is the trope that cannot be mastered or used as an instrument of mastery. […] The man who attempts to say one thing while clearly meaning another ends up by saying the first thing too, in spite of himself». L’autore finisce, al contempo, per accrescere l'eco della voce silenziata.  

Sulla stessa scia di Heart of Darkness si colloca A Passage to India, opera di Edward Morgan Forster pubblicata nel 1924. Dal punto di vista temporale, quest'opera è figlia di un'altra epoca, nonostante, comunque, risenta pesantemente gli influssi dell'epoca vittoriana: ci si colloca, infatti, nel periodo in cui l'India aveva già prodotto immigrati inglesi di seconda generazione e in cui anche gli stessi indiani sono socialmente divisi tra di loro da logiche di classe. Il romanzo prende le mosse dal viaggio di Mrs Moore e Miss Adela Quested verso la città di Chandrapore, in India. Sin di primi capitoli, appare evidente quello che è il tema principe del romanzo,  ovvero quello dell’incontro-scontro “Io vs. l’Altro” che, comunque, si declina diversamente al suo interno. In altre parole, già dall'arrivo nella città indiana, appare evidente la divisione tra l'area della città riservata agli indiani, sempre rozzi e poco acculturati, destinati a fare lavori fisici e a non occupare posti di rilievo all'interno dell'organizzazione della vita della città, e l'area riservata agli indiani discendenti dagli inglesi, che, quindi, mantenevano uno status di supremazia sulla popolazione. Lo scontro si articola su diverse sfere: dal punto di vista religioso, politico, sociale, culturale. Tutto è segno di mondi inconciliabili tra loro. Eppure, per quanto strano, l'anziana Mrs Moore, che doveva essere più legata a uno stile di vita fisso, si mostra essere più aperta a suggestioni esterne, a comprendere l'Altro, a tal punto che il Dottor Aziz, altro personaggio cruciale nel romanzo, le dirà: «You are an Oriental», ovvero sottolinea il fatto che Mrs Moore si basi più sul suo istinto e su come percepisce le persone, piuttosto che sullo status sociale o sul pensiero razionale.

E oggi, l'Oriente è il "molto, molto lontano" segno di rifugio dell'anima e espressione dell'irrazionale, oppure è ancora quel luogo pieno di conflitti selvaggi, con popolazioni arretrate, non conformi a norme e convenzionalismi che caratterizzano l'Occidente, nonché del tutto privo di tutela dei diritti? L'Oriente è un qualcosa da demonizzare o da esaltare? Le tracce dell’intervento occidentale sui paesi orientali sono inevitabilmente impresse ancora nella memoria e nella storia del genere umano. La letteratura ha dato voce sia ai progetti disumani, che ad azioni di denuncia nei confronti di politiche occidentali coercitive e dominanti, atte a silenziare la cultura di popoli orientali. Oggi l'Oriente è meta di viaggi: da viaggi d'affari per paesi con economie in via di sviluppo, a viaggi volti alla ricerca e riflessione introspettiva, il tutto in una cornice di povertà di popoli che continuano a sottostare al gioco di paesi occidentali. È davvero l'Oriente quel posto in cui potremo capire le logiche da uomini e donne occidentali? Cerchiamo il silenzio dalla vita impegnata o, semplicemente, cerchiamo il silenzio dei nostri ricordi rispetto a vite troppo accelerate e piene di impegni, che non viviamo mai fino in fondo? E se così fosse, il silenzioso Oriente, con che voce ci parla? Se l'uomo occidentale, per cercare se stesso, andava in Oriente, ora che anche questo ha perso il suo incanto, dove andremo? Per usare anche le parole di Kipling: «We're all islands shouting lies to each other across seas of misunderstanding».

 

Per saperne di più: si consiglia di leggere i romanzi A Passage to India di Edward Morgan Forster, uscito nel 1924, e Heart of Darkness di Joseph Conrad, pubblicato nel 1899, come anche la poesia The White Man's Burden e il romanzo The Light That Failed, per poter avere una visione poliprospettica sul tema. Allo stesso modo, si consiglia l'approccio al testo del critico Joseph Hillis Miller, Tropes, Parables, Performatives. Essays on Twentieth-Century Literature.

 

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La libertà di essere intrappolati in se stessi: Oceano mare di Alessandro Baricco

«E invece nemmeno si erano dovuti cercare, questo è incredibile, e tutto il difficile era stato solo riconoscersi - riconoscersi - una cosa di un attimo, il primo sguardo e già lo sapevano, questo è il meraviglioso […] Non si è mai lontani abbastanza per trovarsi». Ecco uno dei passi più celebri e conosciuti tratto da Oceano mare, romanzo scritto dallo scrittore italiano contemporaneo Alessandro Baricco, nel 1993.

 

Diviso in tre parti - Locanda Almayer, Il ventre del mare e I canti del ritorno, quest'opera accompagna il lettore in un cammino di riflessione introspettiva, riuscendo ad astrarlo dal contesto e ponendolo come unico punto magnetico. L'ambiente diafano che avvolge il testo, lo stile lento, ma diretto, la narrazione a tocchi di colore e la descrizione evocativa, tutti questi elementi contribuiscono a far insinuare nella mente e nel cuore del lettore una profonda riflessione personale.

 

Il libro segue l'allontanamento e l'abbandono di sette personaggi che, per ragioni diverse, si ritrovano nella Locanda Almayer a trascorrere un periodo di tempo, lasciando i loro luoghi di vita "ordinaria". Questa Locanda, immersa nel silenzio del frastuono del mare, risulta concentrare in sé il concetto di epochè di Husserl, inteso come quella "messa tra parentesi" del mondo e delle circostanze, frutto di un'astrazione personale del soggetto. Oggigiorno si parlerebbe di una "bolla", ovvero di quell'ambiente che, avulso dal contesto, vede lo svolgersi di azioni con un inizio e una fine in se stesso, senza avere alcuna ripercussione sull'esterno. Insomma, un'esperienza "che si apre e si chiude lì", come si direbbe. Eppure, questi momenti di riflessione sembrano esser sempre più rari in una società e in un tempo che spinge incessantemente all'azione, dove si è ciò che si fa e non ciò che si è; dove si vale quanto si produce; dove si vive ciò che si posta sui social; dove i giorni passano, le notti trascorrono, anche in quei momenti "liberi" da impegni, ma che non dedichiamo a noi stessi, tra un post su Facebook e una storia di Instagram.

 

Proprio a proposito di questa attenzione alla vita "manifestata" e non vissuta, è importante sottolineare come gli attuali social network hanno influenzato e continuare a influenzare in maniera preponderante le vite di giovani e non, finendo per assorbire gran parte della giornata ad ogni individuo. Instagram, Facebook, Twitter, tutte piattaforme di condivisione che, se in un primo momento sono nate per poter mettere in connessione e comunicare, ora sono diventati veri e propri spazi di vita, Espèce d'espace, come forse li definirebbe George Perec. Se, all'inizio, si comunicava o si esprimeva chi si era, oggi sono i social che "dettano legge" su come ci si veste, su come si deve parlare, sull'importanza che una persona ha in base al numero di contatti, follower, like e così via.

 

In altre parole, un vero e proprio mondo virtuale che ha creato una bolla esistenziale senza precedenti: una bolla di un universo che esiste, ma è immateriale; dove si esiste e non si vive; dove si è gli altri, e non se stessi. Dove, invece di uscire, vivere, incontrare gli amici, si preferisce stare sdraiati sul letto per vivere le vite di altri. Parallelamente alla loro funzione di "messa in mostra", i social network nascondono. Nascondono chi siamo veramente agli altri, ma, soprattutto, a noi stessi. Nascondersi dietro finte foto ritoccate e modificate, nascondersi dietro canzoni condivise che poi, a furia di sentire, "scocciano"; nascondersi dietro auguri di compleanno a persone alle quali non si chiede un semplice "come stai?" ormai da tempo. Uno spazio in cui nascondere il nostro essere effimeri e poveri di sostanza, di forza, di carattere, di presa di posizione e, ultimo, ma non per importanza, di personalità. I social network sembrano, di conseguenza, rispondere a quella che si potrebbe dire la logica del magnete: attraggono, ci fanno avvicinare, ci collegano, ma quello che si è non è mai ciò che si mostra su una piattaforma social. La nostra inattività permane, le nostre ansie non ci abbandonano e le nostre paure diventano sempre più grandi perché le rifuggiamo. Nella società odierna, mancano quei momenti di epochè, quei momenti in cui ci si ferma, non ci si collega, si resta semplicemente in ascolto di noi stessi per poterci scoprire e affrontare, di petto, le nostre paure. Momenti di contemplazione, ma anche semplicemente di respiro ad occhi chiusi, in cui la percezione sensoriale aumenta e il nostro Io emerge per solcare quei mari della nostra personalità ancora a noi sconosciuti.

 

«Dove inizia la fine del mare? O addirittura: cosa diciamo quando diciamo: mare? Diciamo l’immenso mostro capace di divorarsi qualsiasi cosa, o quell’onda che ci schiuma intorno ai piedi? L’acqua che puoi tenere nel cavo della mano o l’abisso che nessuno può vedere? Diciamo tutto in una parola sola o in una sola parola tutto nascondiamo?»

E poi? Le paure, paure dettate dalla vita vera che, per quanto ci si voglia nascondere, prima o poi ti colpisce e fa ben capire cosa è materiale e cosa invece non lo è. E quando esplodono, le paure si fanno sentire. Proprio come il mare: «la sconcertante scoperta di quanto sia silenzioso, il destino, quando, d'un tratto, esplode». E quando ci si trova davanti alle proprie ansie e paure, cosa fare? Distrarsi? Certamente i social aiutano a porre nuovamente sotto silenzio, a non pensare, a non pensarci, a non riflettere. In questo senso, queste piattaforme di dialogo incarnano a pieno il concetto di divertissement sviluppato da Pascal. Secondo il grande filosofo e matematico francese, il divertissement è, per l'appunto, quel modo per "divergere", ovvero evitare, aggirando, problemi esistenziali: una fuga; una progressiva messa a tacere di quelli che sono i difetti strutturali della nostra psiche e che mettono a nudo i punti deboli di ognuno di noi. Ciononostante, essere perennemente in fuga è impossibile; prima o poi, i mostri dell'abisso verranno a galla:  «Ed è qualcosa da cui non puoi scappare. Il mare... Ma soprattutto: il mare chiama... Non smette mai, ti entra dentro, ce l'hai addosso, è te che vuole... Puoi anche far finta di niente, ma non serve. Continuerà a chiamarti... Senza spiegare nulla, senza dirti dove, ci sarà sempre un mare, che ti chiamerà». Com'è giusto che ci chiami. Perché non c'è progresso, se non c'è sfida; non c'è miglioramento, se non ci sono difficoltà; non c'è evoluzione, se non c'è disastro.

 

Infine, questo uso preponderante del mondo virtuale sottolinea una perdita di originalità. Si è quel che si fa, non quel che si è. Sono interessanti le nostre azioni, non noi. Davvero si è disposti a continuare così? Sembra quasi assistere alla svalutazione della persona. I social network sembrano sempre di più entrarci dentro. Se, un tempo, era l'uomo a produrre artificio, a costruire, a progettare artificialmente; oggi, al contrario, i social network creano artificio e artificialità. Ecco, dunque, come dovremmo riflettere su quanto diventiamo artificiali e quanto siamo naturali; quanto, ormai, si è prodotto e non essenza.

 

In conclusione, dare ascolto al proprio io, alla propria inquietudine, guardare proprio al di là dello schermo e dell'immagine che gli altri ci parano davanti può veramente mettere in moto un processo di introspezione personale che spinga ogni individuo a liberarsi, non sono dalle proprie paure e ansie, ma anche dalle influenze e contaminazioni esterne che alterano e intossicano. Il tutto per vivere liberi di essere se stessi, nel rispetto degli altri e nel gustare i veri momenti di vita, dopo aver avuto il proprio moment of being, come direbbe Virginia Woolf. E dopo tutto questo, trovarsi sempre davanti a se stessi, rinnovati: «la vita si ascolta così come le onde del mare... Le onde montano... crescono... cambiano le cose... Poi, tutto torna come prima... ma non è più la stessa cosa...»

 

 

Per saperne di più: 

Si consiglia la lettura di Oceano mare di Alessandro Baricco, nonché articoli sul concetto del divertissement, elaborato da Pascal.

 

 

 

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Sorelle contro. Desiderio e invidia in Cendrillon di Charles Perrault e Aschenputtel dei Fratelli Grimm

 

 

A tutti è nota la celebre frase "I sogni son desideri", facente parte della grande canzone del film del 1950 Cenerentola prodotto da Disney. Allo stesso modo, è ben noto anche l'inizio della storia di una delle più grandi e amate principesse: «Il était une fois un Gentilhomme qui épousa en secondes noces une femme, la plus hautaine et la plus fière qu'on eût jamais vue. Elle avait deux filles de son humeur, et qui lui ressemblaient en toutes choses. Le Mari avait de son côté une jeune fille, mais d'une douceur et d'une bonté sans exemple» (C'era una volta un gentiluomo che sposò in seconde nozze una donna, la più altezzosa e fiera che si sia mai vista. Aveva due figlie altezzose e fiere come lei, e che le somigliavano in tutto. Il Gentiluomo aveva anch'egli una giovane figlia di una dolcezza e bontà senza eguali). Ecco come inizia una delle fiabe più amate e conosciute da grandi e piccoli. Chi non ha mai sentito parlare della famosa Cenerentola? Quale ragazza non si è mai immedesimata in quella principessa così bella quanto umile, che perde la sua scarpetta di cristallo? Quale ragazzo non ha mai voluto essere quel principe che, gentile e vigoroso, le chiede la mano?

 

Esistono diverse versioni della fiaba di Cenerentola, sparse in tutte il mondo. In particolare, le due versioni più conosciute sono la versione francese - dalla quale è stato tratto il film Disney uscito nel 1950. La fiaba si intitola Cendrillon e fa parte della raccolta di fiabe dal titolo Contes de ma mère l'oye, scritta da Charles Perrault verso la fine del Seicento. L'altra versione parecchio famosa è la versione tedesca dal titolo Aschenputtel, inclusa nella raccolta di fiabe Kinder- und Hausmärchen (in italiano, Fiabe del focolare) dei Fratelli Grimm, che videro la loro ricerca letteraria nel folclore tedesco svilupparsi nell'Ottocento, per poi concludere il tutto pubblicando la suddetta opera a fine secolo.

 

Più o meno in tutte le sue versioni, la storia di Cenerentola vede una costante non negli eventi - che cambiano da versione a versione, dai più tetri e cruenti, a quelli più magici e strabilianti - bensì nei personaggi, che sono: Cenerentola, la fanciulla tormentata dalle angherie della matrigna e delle sorellastre, ma che, comunque, riesce a essere sempre umile e gentile; la matrigna, avida e cattiva; le due sorellastre, piene di sé ed altezzose come la madre; e, per finire, il principe azzurro.

 

In questo mondo ostile all'eroina, qual è il suo desiderio? Vivere per sempre felice e contenta con il suo principe? Non proprio. Da un certo punto di vista, si potrebbe dire che il desiderio di Cenerentola è quello di uscire dalla sua condizione di "servetta" di casa, sempre obbligata a seguire gli ordini della matrigna e a subire le angherie delle sorellastre. Questo trio di personaggi rappresenta lo zoccolo duro di tutte le versioni della fiaba. Al contrario di quanto si possa pensare facendo riferimento alla versione di Perrault e al suo successivo adattamento per lo schermo, Cenerentola è una fiaba di rabbia e rivincita sulla propria famiglia, che rappresenta il primo nucleo sociale con il quale si viene in contatto appena dopo la nascita. In particolare, la suddetta fiaba risulta essere cruciale per lo sviluppo personale del bambino. Effettivamente, questa fiaba rappresenta la lotta incessante tra il desiderio di realizzazione personale e l'invidia fraterna.

 

Per quanto riguarda l'indagine psicologica che si cela dietro certe figure iconiche del mondo delle fiabe, Bruno Bettelheim, famoso psicoanalista nato a Vienna e trasferitosi negli Stati Uniti, condusse delle ricerche specifiche a proposito del rapporto tra le fiabe e della psyche del bambino. Nella sua analisi di Cenerentola, condotta sulla base del testo di Giambattista Basile, dei Grimm e di Perrault, Bettelheim fa, innanzitutto, notare come già la scelta del nome "Cenerentola" rimandi alla "cenere", che indicava «una condizione di inferiorità in rapporto ai propri fratelli o sorelle, indipendentemente dal sesso». Inoltre, come ricorda lo studioso, «il dover vivere tra la cenere era un simbolo non solo di degradazione ma anche di rivalità fraterna, e del fratello che alla fine supera il fratello o i fratelli che lo avevano umiliato». Ne risulta, di conseguenza, la natura evocativa del nome di Cenerentola, un nomen-omen. A completare il quadro di forte oppressione e repressione nei confronti della propria personalità schiacciata dalle sorellastre si pone il difficile e angusto rapporto con la matrigna, che privilegia le sorellastre. Bettelheim, oltre a sottolineare quanto questo mancato sviluppo personale influisca negativamente su Cenerentola come anche su qualsiasi bambino. Ecco che, effettivamente, se si va ad analizzare la versione dei Fratelli Grimm e, ancor di più, quella di Giambattista Basile, si noterà subito come la dolce Cenerentola descritta da Perrault abbia delle tinte molto più forti e non così dolci come può sembrare. Nella versione La Gatta Cenerentola di Giambattista Basile (a cavallo tra Cinquecento e Seicento), Zezolla, ovvero Cenerentola, si macchierà addirittura dell'omicidio della prima matrigna.

 

Infine, in questo incontro-scontro tra l'io e gli altri, tra il desiderio di realizzazione personale e l'invidia e rivalità fraterna, Bettelheim parla anche di quella che si potrebbe dire una "sindrome da declassamento", laddove Cenerentola prova questo senso di inferiorità e inadeguatezza determinato dall'impossibilità di perseguire il suo fine principale, ovvero quello di essere figlia, e non figliastra, andando a porre l'accento anche sul rapporto con i genitori.

 

Per concludere, a dispetto di quanto si possa credere leggendo la bella e dolce fiaba di Cenerentola, questa sottolinea vari aspetti della psyche del bambino che, se non affrontati subito, emergeranno più in avanti nella sua vita. Desiderio e invidia, l'io e l'altro, il tutto in un sistema che è feroce e divora e in cui il bambino deve formarsi. Dalla versione più tetra e scura dei Grimm, alla versione fatata di Perrault, Cenerentola è una delle fiabe senza eguali che, dal punto di vista della ricerca psicoanalitica, si rivelano esser delle fonti quasi inesauribili per andare a sondare quei mondi dell'io-interiore di cui non conosceremo mai davvero a pieno. Se la famosa canzone recita: «i sogni son desideri/ scritti in fondo al cuor/ non disperare del presente/ ma credi ciecamente/ che il sogno realtà diverrà », cosa succede quando i desideri non bastano a renderci felici? Non è forse l'anelare ad un desiderio che ci rende vivi ed alimenta il nostro vivere? E cosa succede quando il desiderio, quello anche più puro, finisce per esser corrotto da sentimenti macchiati di una tinta scura, trasformandosi in invidia e/o gelosia? Come scrive Bettelheim, «Cenerentola, la storia che più di qualunque altra fiaba tratta il tema della rivalità fraterna [...] non contiene qualche velata allusione a [altre] profonde e molto più represse emozioni?»

 

Per saperne di più: Per avere un quadro generale della fiaba si consiglia la lettura di Cendrillon di Charles Perrault, di Aschenputtel dei Fratelli Grimm e di La Gatta Zezolla di Giambattista Basile. Per quanto riguarda l'approfondimento psicologico della suddetta fiaba, si consiglia la lettura de Il mondo incantato: uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe di Bruno Bettelheim.

 

 

 

 

Immagine di Trixielico, da Pixaay. Libera per usi commerciali, attribuzione non richiesta

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Scavare nella caverna della crisi della soggettività femminile

La donna sana assomiglia molto al lupo: robusta, piena di energia, di grande forza vitale, capace di dare la vita, pronta a difendere il territorio, inventiva, leale, errante. Eppure, la separazione dalla natura selvaggia fa sì che la personalità della donna diventi povera, sottile, pallida, spettrale.

Scrive Clarissa Pinkola Estés in Donne che corrono coi lupi (Women who run with the wolves), una delle opere che "ogni donna dovrebbe leggere" perché capace di riportare ad una natura ancestrale e primordiale che rivela le pieghe dimenticate del proprio io, della propria soggettività, della propria forza psichica.

 

Innanzitutto, quest'opera offre una delle analisi psicologiche della donna più interessanti, approfondite, sentite e con un motore propulsore incredibile che la letteratura mondiale abbia mai conosciuto. Dal mito della Donna Selvaggia, Clarissa Pinkola Estés traccia un percorso immerso nella foresta di emozioni della psiche femminile, con tutte le insidie e gli angoli oscuri che ogni donna incontra sul proprio cammino: dalla resurrezione della Donna Selvaggia si passa all'unione con l'altro, all'autoconservazione, alla definizione del territorio, al ritorno in sé e così a seguire. L'autrice cerca quindi di stimolare un'introspezione femminile che diventi punto di partenza per ritrovare la propria soggettività. Questa ricerca psicoanalitica è essenziale e deve essere lontana da regole o logiche artificiali prefabbricate e preimpostate; del resto, come scrive l'autrice,

lo sviluppo di una relazione con la natura selvaggia è una parte essenziale dell'individuazione delle donne. A tal fine, la donna deve penetrare nell'oscurità, ma nel contempo non deve lasciarsi intrappolare o catturare in modo irreparabile.

Socialmente, la donna viene percepita come un qualcuno da associare ad un qualcun altro. In questa prospettiva, la donna deve ritrovare la propria natura selvaggia per poter successivamente ritrovare i propri «poteri istintuali, fra cui l'introspezione, l'intuito, la resistenza, l'amore tenace, la sensibilità acuta, la lungimiranza, l'udito sottile, la capacità di cantare sui morti, di curare in modo intuitivo, di tendere ai propri fuochi creativi».

 

Nata in Indiana (Stati Uniti) nel 1945, Clarissa Pinkola Estés è scrittrice e psicoanalista. Ha conseguito il dottorato in etnologia e in psicologia clinica, per poi concentrare i suoi studi sulla psiche femminile, risalendo all'archetipo della Donna Selvaggia presente in miti e fiabe. È proprio questo uno dei grandi meriti della scrittrice statunitense: combinare, in una sinergia armonica e dirompente, fiaba e psicoanalisi di figure appartenenti al nostro Io più recondito, proprio lì dove l'essere prende corpo e si realizza in sostanza, lontano da regole e imposizioni sociali, rispondendo soltanto all'istinto naturale.

 

Cos'è l'istinto? Secondo la definizione fornita da Treccani, per istinto si intende «tendenza innata che provoca comportamenti che consistono in risposte o reazioni caratteristiche, sostanzialmente fisse e immediate, a determinate situazioni; in particolare, nell’uomo, ogni propensione naturale che, anche in contrasto con la ragione, spinga gli individui a compiere atti o a seguire comportamenti propri di tutta la specie umana, eventualmente comuni ad altre specie». Proprio da questo istinto naturale, nonché natura istintuale dell'essere vivente, l'autrice statunitense muove i primi passi e si addentra nella foresta della psiche femminile, cercando di riportare il lupo alla sua tana, come la donna alla sua soggettività. A proposito di questo istinto, che è stato plagiato e modellato da logiche esterne alla Donna Selvaggia, venendo così denaturalizzato, l'autrice scrive:

Quando perdiamo contatto con la psiche istintiva, viviamo in uno stato prossimo alla distruzione; a immagini e poteri naturali per il femminino non è consentito il pieno sviluppo. Quando una donna è staccata dalla sua fonte essenziale, risulta sterilizzata, e i suoi istinti e i suoi cicli naturali di vita vanno perduti, soggiogati dalla cultura, o dall'intelletto o dall'Io, propri o altrui.

Effettivamente, in molti passi si affronta l'allontanamento progressivo della donna dalla sua natura istintuale per poter essere plasmata in maniera funzionale alla necessità. Di conseguenza, la donna si è allontanata dalla propria foresta immergendosi in un contesto che le ha fatto dimenticare la sua vera natura, imponendole regole e logiche che sempre più si sono radicate nella psiche. Si tratta di un vero e proprio scollamento tra "soggetto" e "soggettività", laddove quest'ultima riguarda la vita in generale e non solo il soggetto nel senso di corpo. Come scrive Vallori Rasini, si ha un’«oscillazione continua, sempre a rischio di crisi e di caduta. Il fenomeno della crisi rappresenta un chiaro segnale di denuncia  del soggettivo ed è un processo tipico della realtà vivente. Al termine di questo continuo confronto dialettico tra soggetto e soggettività, messo costantemente in crisi, la soggettività riprende forma «nell’inquietudine di una ricostituzione continua».

 

Donne che corrono coi lupi è un'opera che percorre un sentiero angusto, partendo dalla "resurrezione della Donna Selvaggia" e proseguendo per diverse tappe, dall'"unione con l'altro", ovvero il compagno, alla caccia, alla ricerca del branco, fino ad approdare alla casa, vista come "ritorno a sé". La Donna Selvaggia si muove tra questi boschi, come colei che è

nel contempo amica e madre di coloro che hanno perso la strada, si sono sperdute, di tutte coloro che hanno bisogno di sapere, di tutte coloro che hanno un enigma da risolvere, di tutte coloro che vagano e cercano nella foresta o nel deserto.

Oltre la pressione sociale e l'incasellamento in categorie, occorre mettersi a nudo davanti alla propria soggettività a livello psichico, andando a ricercare il rapporto dialettico tra l'Io razionale e irrazionale. Occorre andare alla ricerca del proprio istinto e l'istinto porterà alla forza interiore, avendo come obiettivo quel momento di crisi della soggettività che pone una ripartenza, come riporta la stessa Clarissa Pinkola Estés nel suo poema in prosa The Wolf's Eyelash,

Andate nel bosco, andate. Se non andate nel bosco, nulla mai accadrà e la vostra vita non avrà mai inizio.
Andate nel bosco,
andate.
Andate nel bosco,
andate.

In conclusione, la soggettività femminile è socialmente e psicologicamente sotto assedio. Ecco che, dunque, la donna deve risalire al suo archetipo, ritornando in quella foresta, ripercorrendo proprio quel cammino che l'aveva condotta al recinto sociale del presente. Lì troverà piena realizzazione, lì potrà ritornare alla fonte del suo istinto, lì potrà restaurare la sua soggettività, fuori da catene e gabbie, nel buio della notte del proprio animo, per potersi ritrovare e ululare alla luna, fiera, forte e sana.

I lupi sani e le donne sane hanno in comune talune caratteristiche psichiche: sensibilità acuta, spirito giocoso, e grande devozione. Lupi e donne sono affini per natura, sono curiosi di sapere e possiedono grande forza e resistenza. Sono profondamente intuitivi e si occupano intensamente dei loro piccoli, del compagno, del gruppo. Sono esperti nell'arte di adattarsi a circostanze sempre mutevoli; sono fieramente gagliardi e molto coraggiosi.

 

 

Per saperne di più:

Si consiglia la lettura di Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estés, pubblicato in italiano da Frassinelli. Inoltre, sempre a proposito delle stesse tematiche, si consigliano Storie di donne selvagge e La danza delle grandi madri della stessa autrice; come anche vari studi antropologici, quali Antropologia della soggettività di Vallori Rasini.

 

 

Foto di Nusypanka da PixabayPixabay License, libera per usi commerciali, attribuzione non richiesta.

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Natura di un’illusione

«D’aussi longtemps que je me souvienne, je me suis toujours demandé s’il existait vraiment...» (Da quando mi ricordo ci penso sempre e mi chiedo se esiste davvero). Ecco cosa si legge sulla quarta di copertina del libro illustrato Yeti di Rébecca Dautremer e di Taï-Marc Le Thanh, uscito nel 2015.

Al suo interno, si affrontano i temi del viaggio e della ricerca, dell’attesa e dell’illusione. Qual è la vera natura di un’illusione? Si tratta forse di un’attesa deludente e infruttuosa, di un sogno recondito o di un desiderio mai avverato al quale, comunque, si continua ad anelare?

Il libro illustrato Yeti condensa poche parole per lasciare voce, o forse meglio, silenzio alle voci plurime delle immagini e dei colori, che al contempo racchiudono e sprigionano significati ed emozioni difficili da esprimere mediante l'uso di forme linguistiche preconfezionate.

È così che la protagonista, il cui nome è ignoto e che, proprio per questo motivo, incarna ogni lettore, finisce per trovare il coraggio per mettersi in viaggio e andare a conoscere questa creatura.

 

Era un viaggio pianificato già da tempo? Non ci è dato saperlo. Quanto dura? Un attimo e un’infinità di tempo. Dove conduce? Sulla vetta di nessun mare e nel profondo di tutte le montagne. Sì, è esattamente così, poiché la protagonista non è semplicemente spinta a procedere verso la vetta della montagna, quanto piuttosto a procedere addentrandosi nel profondo di sé, nel  cuore di quella montagna che serba dentro, in quei cunicoli e passaggi che potrebbero condurre ad un nulla. Ed in questa incertezza, attesa, desiderio, la protagonista parte ed affronta un viaggio. Questi diventa motivo per ricreare ulteriormente l’idea della creatura che spera di incontrare.

 

Sfogliando le prime pagine e ponendo lo sguardo sulle prime immagini del libro, il racconto ci accompagna in quello che è il percorso di costruzione dell’immagine di tale creatura: «Son poil doit etre [...] soyeux. [...] Si son pelage est blanc il doit se confondre avec la neige» (Avrà un manto […] setoso. […] Se così fosse, dovrà confondersi con la neve). Alla costruzione dell’immagine della creatura, si accompagna la preparazione del viaggio, nonché l’inizio, che spinge la protagonista a prendere la funivia, per condurla lì dove tutto conosce e senza niente sapere.

 

Effettivamente, il racconto può essere visto come una continua costruzione antitetica ed ossimorica. Si procede da un progressivo svuotamento e allontanamento dall’ambiente urbano, popolato da persone, a quello che è un contatto sempre più vicino e stretto con la natura. Ciononostante, questo legame la lega sempre di più con la sua attesa, nonché illusione. Difatti, la creatura, evidente nei disegni, le si avvicina sempre di più, fino a diventare preponderante nelle immagini. Un’illusione che, nutrita dall’attesa, dall’immaginazione e dalla lettura, spinge la protagonista ad andare sempre più su, a spingersi sempre più oltre, nelle caverne della sua immaginazione. La creatura le sta accanto, la accompagna, la sostiene e la nutre, ma la protagonista sembra non aver tempo per vederla, per sentirla, per scoprirla: è alle prese con altro. Nei disegni si rivede la creatura che, inizialmente, è più distante, soprattutto quando la protagonista si trova in spazi popolati, mentre, progressivamente, la creatura le si avvicina sempre di più, fino a starle dietro mentre lei coltiva la sua speranza, la sua attesa e, forse, la sua illusione.

 

Forse un po’ come le illusioni che abbracciano e coinvolgono tutti noi. Un’illusione e un’attesa alimentata da un libro in cui la protagonista legge, si documenta, cerca e ricerca, mentre l’illusione cresce. Come suggerisce Treccani, l’illusione, in psicologia, è definita come «errore dei sensi o della mente che falsa la realtà. Le illusioni vanno considerate come percezioni reali falsate da rappresentazioni che si fondono così strettamente allo stimolo sensoriale che il soggetto perde la capacità di differenziare gli elementi sensoriali diretti da quelli riprodotti». In particolare, Karl Jaspers ne distingue di varie, tra cui individua le pareidolie. Qual è la natura di questo tipo di illusioni? Da cosa hanno origine? Spiega ancora Treccani: «la fantasia completa impressioni sensoriali creando strutture illusorie. Le pareidolie non sono, nel normale, in rapporto con un particolare stato emotivo, né vi si attribuisce un significato di realtà».

 

Una fantasia che scaturisce da dove? Dalla mente di chi la nutre sulla scia di immagini, libri, scatti. È indubbio che i sogni, le attese e le illusioni, vengono alimentate in spazi spogli da artifici; ecco che, infatti, emergono particolarmente o nel cuore della notte o all’interno di uno spazio pienamente naturale. Natura e illusione, indissolubilmente legate, che attirano e respingono, a creare quel senso di sublime come i romantici lo intendevano. Una natura contraddittoria, che, se da una parte ci spinge verso un progressivo distacco dal mondo schematico e artificiale in cui viviamo, dall’altro ci appare come un porto sconosciuto in cui non vogliamo pienamente approdare. Forse per paura di andare veramente a fondo…forse per paura di salire proprio in vetta. Natura delle illusioni quale eco della fantasia di speranze, sogni e paure.

 

Alla fine, la protagonista salirà, sempre di più. Proprio in vetta? Non ci è dato saperlo, ma sicuramente proprio dove vuole arrivare. La sua attesa e la sua illusione sembrano essere "maturate": «Mais voici au sommet. En tout cas, je ne pense pas pouvoir aller bien plus haut» (Ed eccoci in vetta. Ad ogni modo, non penso di poter andar oltre).

 

Per saperne di più:

Si consiglia la lettura di Yeti di Rébecca Dautremer e Taï-Marc Le Thanh, nonché altri testi illustrati, quali Seta, di Alessandro Baricco (la versione con le illustrazioni di Rebecca Dautremer).

 

 

Image by Maxime Gerph on Unsplash.

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Lo spazio lunare nella letteratura: lo sguardo di Ludovico Ariosto, Italo Calvino e Jules Verne

«Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia:/ che quel paese appresso era sì grande,/ il quale a un picciol tondo rassimiglia/ a noi che lo miriam da queste bande», questo è lo spazio che si apre agli occhi di Astolfo, il cavaliere inglese, soccorritore di Orlando nell'Orlando furioso di Ludovico Ariosto.

 

Pubblicato in diverse versioni tra il 1516 e il 1532, a seguito di diverse modifiche, l'Orlando furioso è una delle opere più importanti nella letteratura italiana. Per i suoi contenuti e per la sua struttura, rappresenta un unicum nella letteratura italiana. A differenza dei poemi cavallereschi delle chanson des gestes, in cui si narrava, in prima battuta, di gesta ed imprese condotte da nobili cavalieri, nell'opera dell'Ariosto ci si trova di fronte a cavalieri alle prese con  ad avventure scatenate da fattori che li disorientano e che sono capaci di deviare il loro percorso naturale. Al posto di battaglie, essi sono così condotti tra vicende e percorsi "collaterali". Vari mondi vengono presentanti nel poema: : all'Inferno segue il Paradiso terrestre, per arrivare infine alla Luna. In particolare, quest’ultimo spazio viene posto in rilievo nel canto XXXIV, in cui Astolfo, in groppa al suo ippogrifo, atterra sul suolo lunare. Il paesaggio lunare non risulta essere estraneo al cavaliere inglese. Difatti, Astolfo descrive la Luna come simile alla Terra dal punto di vista fisico: «Altri fiumi, altri laghi, altre campagne/ sono là su […]/altri piani, altre valli, altre montagne,/ c'han le cittadi, hanno i castelli suoi,/ con case […]/ e vi sono ample e solitarie selve». È pur vero che, come ribadisce lo stesso Ariosto, l'entità e la bellezza di questo luogo sono maggiori rispetto a tutto ciò che c'è in Terra. In questo senso lo spazio lunare appare come quel mondo perfettamente capace di contenere tutto ciò che di buono e di cattivo in Terra vien invece perduto, riuscendo a mantenere in equilibrio questi due termini. A differenza della Luna, la Terra questo equilibrio non riesce a mantenerlo e, probabilmente, non lo ha mai conosciuto. Difatti, quest'ultima è posta come mondo in contrasto con la perfezione dello spazio lunare che tutto riesce a contenere e ad armonizzare magistralmente. Il perfetto corpo lunare si rivela essere complemento o piuttosto della Terra, in quanto specchio che offre un'immagine rovesciata del globo terrestre.

 

A seguire, diversi sono stati gli appuntamenti in cui lo spazio lunare è stato materia e oggetto della letteratura mondiale. Nel 1865, il rinomato scrittore francese Jules Verne scrisse il romanzo fantascientifico De la Terre à la Lune, trajet direct en 97 heures 20 minutes, tradotto in italiano con il titolo abbreviato Dalla Terra alla Luna, seguito nel 1870 dal romanzo Autour de la Lune, in italiano Intorno alla Luna. Dalla cultura umanistica del Cinquecento, ci si sposta all'Ottocento, epoca in cui Jules Verne prefigura l'atterraggio sulla Luna. Mentre il primo romanzo narra della preparazione e dell'effettivo lancio del proiettile nello spazio, con a bordo i tre protagonisti del romanzo, ovvero Nicholl, Barbicane e Michele Ardan, il secondo descrive la vera e propria conquista della Luna. In quest’universo, ‘fantascientifico’ per i tempi in cui Verne lo descrisse, viene tesa una sfida tra l'uomo e la scienza, per dimostrare quanto egli stesso sia, in primis, in grado di reggere il confronto. I tre avventurieri, infatti, davanti al non atterraggio e a calcoli errati, nonostante non raggiungano il loro obiettivo principale in prima battuta, non vengono schiacciati dall'impossibilità fisica e dalla scienza, ma riescono ad emergere con soluzioni improvvisate. Per quanto, ancora, mancasse circa un secolo al primo atterraggio lunare, questo viaggio euristico, prefigurato da Jules Verne e approfondito, soprattutto, nel secondo romanzo, presenta uno spazio lunare fatto di dati e coordinate, piuttosto che  di elementi naturali, come troviamo invece nell'Ariosto. Ecco che nell'opposizione che determinano tra 'naturale' e 'matematizzato', gli spazi lunari dei due autori sono antitetici. Ma, in un insieme che incanta ed affascina, essi hanno come comune denominatore il richiamo verso uno spazio ignoto.

 

Nel 1970 Italo Calvino pubblica la guida alla lettura Orlando furioso, di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino con una scelta del poema. Da sempre amante dell'Ariosto, Calvino ripropone la grande opera dell'Orlando furioso. Come scrive Gianni Cimador, «il filo conduttore che intreccia il Furioso e il romanzo novecentesco è quindi l'idea di una 'enciclopedia aperta' […]. Calvino individua nel Furioso un altro tipo di epos, in cui si accentuano la spazializzazione della conoscenza e l'orizzontalizzazione del sapere». La guida alla lettura dell'Orlando furioso proposta da Calvino seleziona alcuni passi scelti del poema e, a proposito dello spazio lunare, il capitolo XVII è quello dedicato ad Astolfo che si reca sulla Luna per riprendere il senno di Orlando: «La Luna è un mondo grande come il nostro, mari compresi. Vi sono fiumi, laghi, pianure, città, castelli, come da noi; eppure altri da quelli nostri. Terra e Luna, così come si scambiano dimensioni e immagine, così invertono le loro funzioni: vista di quassù, è la Terra che può esser detta il mondo della Luna; se la ragione degli uomini è quassù che si conserva, vuol dire che sulla Terra non è rimasta che pazzia».

 

Ecco come allora lo spazio lunare è visto spazio lunare visto dalla Terra attraverso tre epoche diverse: mentre Ludovico Ariosto lo utilizza come immagine riflessa di un mondo migliore, dove i vari elementi persi sulla Terra vengono riportati, senza alterare l'armonia che abbraccia l'astro; Jules Verne, invece, lo veste dell'interesse scientifico euristico, che si appoggia su una tecnica e su una tecnologia avanguardistica, spogliandolo delle sue bellezze naturali, fatte a immagine e somiglianza della Terra, e ricoprendolo di interesse scientifico, dietro l’impulso della conoscenza e della scoperta. Infine, Calvino, riportando in varie sue opere l'eredità del viaggio di Astolfo, nella guida alla lettura dell'Orlando furioso fa sì che lo spazio lunare descritto nell'Ariosto presenti le evidenti differenze con la realtà della Terra.

 

In conclusione, seguendo i diversi passi del progresso scientifico e letterario, lo spazio lunare ha offerto spunti di riflessione molteplici alle penne di vari scrittori. Descritta sia da un punto di vista naturalistico, come detonatrice di sogni, sia dal punto di vista scientifico, come corpo celeste, la Luna è il luogo in cui si proietta l'uomo del passato, del presente e del futuro, «le lacrime e i sospiri degli amanti,/ l’inutil tempo che si perde a giuoco,/ e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,/ vani disegni che non han mai loco,/ i vani desideri sono tanti,/ che la più parte ingombran di quel loco:/ ciò che in somma qua giù perdesti mai,/ là su salendo ritrovar potrai».

 

 

  

Per saperne di più: 

Si consiglia la lettura dei testi Orlando furioso di Ludovico Ariosto; Orlando furioso, di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino con una scelta del poema di Italo Calvino; Dalla Terra alla Luna e Intorno alla Luna di Jules Verne. Per alcuni spunti critici, si consiglia la lettura di  Ariosto rivisitato da Calvino ai tempi del web di Gianni Cimador.

Photo by Free Nature Stock from StockSnap, libera per usi commerciali.

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Adattamento, cultura e lingua: la letteratura delle migrazioni - Pecore nere. Racconti e Oltre Babilonia

«Mia madre mi parla nella nostra lingua madre… Spumosa, scostante, ardita. Nella bocca di mamma il somalo diventa miele. Mi chiedo se la lingua madre di mia madre possa farmi da madre. Se nelle nostre bocche il somalo suoni uguale. Come la parlo io questa nostra lingua madre? […] In somalo ho trovato il conforto del suo utero, in somalo ho sentito le uniche ninnananne che mi ha cantato, in somalo di certo ho fatto i primi sogni. […] ma poi, ogni volta, in ogni discorso, parola, sospiro, fa capolino l’altra madre. […] L’italiano con cui sono cresciuta e che a tratti ho anche odiato, perché mi faceva sentire straniera. L’italiano aceto dei mercati rionali, l’italiano dolce degli speaker radiofonici, l’italiano serio delle lectiones magistrales. L’italiano che scrivo.»

 

Ecco cosa scrive in Oltre Babilonia Igiaba Scego, scrittrice di origine somale, ma nata in Italia, a Roma. Igiaba Scego fa parte della seconda generazione degli scrittori/scrittrici della letteratura delle migrazioni, ovvero quella letteratura scritta da migranti non nella loro lingua madre, bensì nella lingua del loro paese d'arrivo, e che racconta della loro migrazione, ma anche del loro inserimento in un tessuto sociale a loro estraneo.

 

Gli scrittori di prima generazione della letteratura delle migrazioni sono quegli scrittori che hanno vissuto l'esperienza da migranti sulla propria pelle. A distanza di anni dalle prime grandi migrazioni in Europa, già dalla seconda metà del ventesimo secolo, quando l'Europa conosce una migrazione extra-europea, e non solo quella intra-europea, oggi si può parlare anche di scrittori della letteratura delle migrazioni di seconda generazione: si parla, infatti, di figli di migranti che sono nati nel paese d'arrivo dove si sono stabiliti i loro genitori e che, al contempo, vivono a metà tra due culture, ovvero la cultura "di cui si cibano" a casa, legata al paese d'origine dei genitori, e la cultura che apprendono e di cui leggono a scuola, al lavoro, in palestra e negli altri luoghi quotidiani, in altre parole, la cultura del paese d'arrivo, una cultura che, piano piano, si insinua nelle loro vite, ma che, allo stesso tempo, li attrae e li respinge. La cultura è tradizione e lingua: nella fattispecie della tradizione, la si deve quindi individuare come la cultura del loro paese d'origine; in prospettiva linguistica, invece, la loro immersione linguistica e, di conseguenza, culturale nel paese d'arrivo li assorbe sempre di più fino al punto in cui, soprattutto per i più  piccoli, viene ad essere parte costituente e formativa nella costruzione della loro identità.

 

Esempio chiaro di questa frattura è la scrittrice italiana di origini somale Igiaba Scego, che, nei suoi libri, mette al centro questo dissidio tra cultura di partenza e cultura d'arrivo, sottolineando come l'italiano sia la lingua che odia e che ama.

Le protagoniste delle sue opere vivono un vero e proprio confronto palese, non solo di crisi d'identità, ma di crisi strutturale e ancestrale, che è alla radice della loro identità e delle origini delle loro famiglie.

Esempio lampante di ciò ci viene offerto nella raccolta di racconti Pecore nere. Racconti, raccolta alla quale altre scrittrici, quali Ingy Mubiayi, Gabriella Kuruvilla e Laila Wadia hanno contribuito e in cui sono presenti due racconti di Igiaba, ovvero Salsicce e Dismatria.

In quest'ultimo, in particolare, Igiaba racconta come la protagonista venga a contatto con una scissione tra quella che è la lingua madre di sua madre, ovvero il somalo, che sente non appartenerle quanto appartiene a sua madre, la lingua con la quale si esprime, ma, al contempo, mette a tacere gran parte di se stessa, per poi scoprire che, forse, la lingua che le appartiene è l'italiano.

Il tutto è reso ancora più evidente dall’uso del termine dismatria, un termine incomprensibile ai suoi compagni di scuola italiani che non condividono con la protagonista lo stesso vissuto: la dismatria è il rapporto conflittuale con la lingua italiana, che la protagonista di Igiaba non sente, la sua identità somala con l'identità della scuola italiana non collimano, anzi, si incontrano per respingersi. Ciononostante, alla fine, la protagonista finirà per rendersi conto che più che di dismatria, lei deve parlare di bimatria. In altre parole, la protagonista assume consapevolezza del fatto che, se l'unica lingua che appartiene a sua madre, e con la quale si identifica originariamente, è il somalo, per lei si tratta di una convivenza di due lingue, il somalo e l'italiano, che si intrecciano, finendo per intessere il suo DNA linguistico e culturale.

 

 

Non si parla solo di un atto di adattamento linguistico, quanto, piuttosto, di un atto di riconoscimento, di maturazione e di presa di posizione ben definito: il passato le ha regalato un'identità somala, con una lingua e delle tradizioni che per sempre rimarranno impresse in lei e con le quali, probabilmente, riuscirà a dare voce alla sua infanzia; in altre parole, il somalo è la sua voce da bambina.

In seguito, però, la crescita la condurrà ad un cambiamento, la porterà a conquistare l'italiano, la lingua con la quale si esprimerà e con la quale arriverà a riconoscere la sua identità presente. Il futuro? Si possono forse prevedere gli sviluppi di una identità? Sembra alquanto improbabile, ma ciò che è certo è che un processo di approfondimento personale e di vaglio della propria identità è sempre necessario per poterci ben collocare nel luogo in cui si vuole vivere.

 

In conclusione, l'adattamento viene superato nel momento in cui viene messa in atto una vera e propria presa di coscienza e di riconoscimento: la dismatria linguistica di Igiaba Scego viene poi superata, benché il "presente imperfetto" della sua identità venga anch'esso ad essere riconosciuto. La scrittrice italiana di origine somale indaga questo rapporto conflittuale, che viene sempre rimesso in discussione, in diverse altre opere, da La mia casa è dove sono a Adua, in cui le due voci narranti individuano due culture diverse che finiscono per determinare uno spazio transgenerazionale. Ed è proprio da qui che si deve ripartire: del resto, «ognuno ha il proprio cammino da seguire».

 

 

Per saperne di più:

Per approfondire l'argomento, si consiglia la lettura del contributo Italia mia, benché…. La dismatria linguistica nella narrativa di Igiaba Scego di Andrea Groppaldi.

Inoltre, si consigli la lettura delle seguenti opere: Ingy Mubiayi, Igiaba Scego, Gabriella Kuruvilla, Pecore nere. Racconti, Laterza, 2005 e Igiaba Scego, Oltre Babilonia, Donzelli, 2008, nonché dell'opera Presente imperfetto. Eredità coloniali e immaginari razziali contemporanei di Giulia Grechi e Viviana Gravano, edito da Mimesis. 

 

 

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In equilibrio sul baratro: Mrs. Ramsay in "To the Lighthouse" di Virginia Woolf

E lei sentì un improvviso senso di vuoto; frustrazione. Questo sentimento era arrivato troppo tardi; ed era lì pronto; ma lui non ne aveva più bisogno. Era diventato un uomo molto distinto e anziano, che non aveva per niente bisogno di lei. Si sentiva ignorata

si legge nel terzo capitolo della terza parte di To The Lighthouse.

Cos'era successo nei precedenti capitoli? Perché a compiere la famosa gita al faro sono solo Mr Ramsay, la pittrice Lily Briscoe e i due figli della coppia dei Ramsay, James e Cam? Che ne è stato della famosissima Mrs Ramsay?

 

Virginia Woolf pubblica To the Lighthouse nel 1927, l'opera è suddivisa in tre capitoli: The Window, Time passes e The Lighthouse. Tempo e spazio nelle tre sezioni occupano un posto di rilievo: mentre nel primo e nell'ultimo capitolo l'azione si svolge nell'arco temporale di ventiquattro ore, nel secondo capitolo, invece, viene coperto un arco pari a una decina d'anni. Allo stesso modo, lo spazio è organizzato secondo un evidente contrasto: nel primo capitolo si tratta di uno spazio chiuso, la casa dei Ramsay, dove in quella giornata verrà offerta una cena con amici della famiglia, mentre nel terzo capitolo la storia è ambientata in uno spazio aperto, ossia lungo il tratto di strada che conduce la barca dei Ramsay a fare la famosa gita al faro di cui si è parlato nel primo capitolo.

Infine, il secondo capitolo porta in sé uno spazio segnato dal tempo, si ha infatti un racconto di natura episodica dove si apprende della morte di due dei figli dei Ramsay (l'uno in guerra e l'altra per complicazioni post partum) e della morte della stessa Mrs Ramsay.

Ma quali sono, al di là delle categorie spazio-temporali, le dinamiche che guidano il flusso dell'opera?

 

Essa è percorsa soprattutto da un caos di emozioni che incessantemente popolano le pagine, ma anche da un progressivo silenzio, nonché rallentamento, nelle azioni dei membri della famiglia Ramsay e dei loro amici: nel primo capitolo, in particolare, Mrs Ramsay si sofferma a investigare la personalità e l'essere di ogni membro della sua famiglia e dei suoi amici, alla ricerca di un senso, di una verità, di una sostanza di fondo.

L'opera ha come protagoniste indiscusse le emozioni, le percezioni e le sensazioni. Tutto questo tumulto di emozioni si concentrano in Mrs Ramsay, che va incontro, inevitabilmente, ad una ricchezza interiore, ma che finisce per rivelare la vacuità. A far da eco e a far continuare a vivere Mrs Ramsay, il suo ricordo e la sua personalità è la pittrice, Lily Briscoe, che, tramite il suo quadro, descrive l'opera della Woolf, come si legge nella terza parte e come riprende Nicola Bradbury nell'introduzione dell'opera «What is To the Lighthouse about? Life, death and Mrs Ramsay». Egli aggiunge a questi temi «the urgent chaos of personality».

 

Alla ricerca spasmodica di senso, che attribuisce alla storia una connotazione esistenziale, Virginia Woolf unisce la questione sociale dell'affermazione identitaria di genere in epoca vittoriana.Qui può essere messo in evidenza il contrasto tra la personalità di Mrs Ramsay, che sembra perfettamente ricoprire il ruolo tradizionale della madre di famiglia, che sottostà al volere del marito anche nel momento in cui egli le rifiuta la sua tanto agognata gita al faro e quella di Lily Briscoe, pittrice, che rappresenta la figura di una donna, che non riconosce altro vincolo oltre a quello che la lega alla propria arte.

Attraverso gli occhi e le percezioni di Mrs Ramsay e il suo flusso di coscienza, il lettore è spinto a sentire e vivere l'immobilità di un moto perpetuo nella claustrofobica residenza dei Ramsay, dove la padrona di casa adempie al ruolo che le viene imposto svolgendo alla perfezione i suoi doveri di moglie e madre. Proprio nelle parole non espresse e nei silenzi urlati, Mrs Ramsay racconta più di quanto un lettore possa trovare scritto tra le pagine del libro: bisogna ascoltare la sua voce, la voce di una donna che, attraverso sensazioni e percezioni, viene colpita da piccoli atomi che la destano dalla sua quiete. Mrs Ramsay non arriverà mai al suo momento di rottura, al suo moment of being come Mrs Dalloway, ma è incontestabile la sua carica energetica che risveglia in ogni donna il sentimento e la volontà di piacersi e di amarsi, nel suo mondo interiore ed esteriore.

 

Tra il primo capitolo, che rappresenta la superficie, e il terzo, che rappresenta il baratro, si ha il secondo capitolo: Time passes.

In Time passes aleggia il ricordo di Mrs Ramsay, esso è il filo estremamente sottile sul quale Mrs Ramsay, ormai morta, resta in equilibrio. Sul quel filo lei si erge, immobile e quieta; Virginia Woolf utilizza il termine ‘stillness’.

But the stillness and the brightness of the day were as strange as the chaos and tumult of night, with the trees standing there, and the flowers standing there, looking before them, looking up, yet beholding nothing, eyeless, and so terrible.

Difatti, esso può indicare sia la quiete, sia l'immobilità. Si tratta di un tumulto perenne, dove lo sconvolgimento interiore si rispecchia nel turbamento naturale degli alberi e dei fiori, ma non negli uomini, gli artefici che creano la propria artificiosità nascondendo le proprie opinioni, la propria volontà, che vivono l'ipocrisia del sistema, il narcisismo (estetico) e l'artificio. Un altro tema fondamentale del romanzo è costituito dall'opposizione tra la natura e l’artificio, tra la verità interiore e l’apparenza estetica. I due temi sono incarnati nelle due eroine del romanzo: Mrs Ramsay incarna la natura, Lily Briscoe la ricerca dell'esteta. Dalla stillness si passa alla  nothingness.

 

Il terzo capitolo è come la soglia del baratro: giunti a questo punto, la stillness si trasforma in nothingness. La famiglia Ramsay è ormai dimezzata, restano solo Mr Ramsay e i figli James e Cam che si recano in quel faro, dove tanto tempo prima non erano voluti andare. Si ha dunque una distruzione dello scenario presentato in precedenza, poi solo accennato e quasi passato sotto silenzio nel secondo capitolo. The Lighthouse è il capitolo in cui tutto appare ormai distrutto, nonché svuotato di significato: come scrive Nicola Bradbury, «from 'nothing' to 'nothingness', the text in effect 'uncreates' its own world». 

In conclusione, alla ricerca della profondità del sentire umano, Virginia Woolf racconta una storia senza effetti prorompenti, ma nel silenzio e nella quiete che rivela la vacuità dell'esistenza umana. In questo paesaggio desolato, come fosse lo scenario della vita interiore di ogni individuo, il faro si erge e ridona la luce, ravviva il ricordo e illumina il baratro dove si è persa Mrs Ramsay. In uno degli ultimi momenti, rischiarati dalla luce del faro, Lily Briscoe la vede:

she looked at the steps; they were empty; she looked at her canvas; it was blurred. With a sudden intensity, as if she saw it clear for a second, she drew a line there, in the centre. It was done; it was finished. Yes, she thought, laying down her brush in extreme fatigue, I have had my vision.

Per saperne di più:

Per approfondire l'argomento, si consiglia la lettura dell'opera To the Lighthouse di Virginia Woolf e dei testi critici: A Critical History of English Literature (vol. IV) di David Daiches e A Mirror of the Times di Rosa Marinoni Mingazzini e Luciana Salmoiraghi.  

 

 

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Immagine di copertina da Fausto García su Unsplash. Libera per usi commerciali, attribuzione non richiesta

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L'amore possessivo di Hélène Cixous e Clarice Lispector

Nella traduzione della mela (in un'arancia) provo a denunciare me stessa, Un modo di possedere. La mia parte. Del frutto. Del piacere. Di arrivare a dire ciò che non posso ancora assicurare per mio unico volere.

Il passo citato è tratto da Vivre l'orange, opera di Hélene Cixous pubblicata nel 1979. Nata nel 1937 a Orano, allora città dell'Algeria francese, la scrittrice e drammaturga Hélène Cixous è una delle esponenti più famose del femminismo francese. A completare un palmarès di svariate pubblicazioni di romanzi e opere teatrali pubblicate dalle più celebri editrici di Francia, si aggiungono diversi suoi saggi critici su altri scrittori. In particolare, seguendo il suo impegno per la causa femminista, la Cixous si è approcciata allo studio di autrici che vivono o hanno vissuto, proprio nella loro scrittura, una censura da parte della società che le circonda: nello specifico, si è interessata in particolar modo alle opere di Clarice Lisector. Quest'ultima, nata a Čečel'nyk in Ucraina ma in seguito naturalizzata brasiliana, vive, nei confronti della sua scrittura, intrisa di tematiche scottanti, un clima di particolare oppressione. Nel tentativo di elevare l’autrice come esempio e porla su un piedistallo, Hélène Cixous finisce però per agire con una forza preponderante e dominatrice, che soffoca la voce autoriale di Clarice Lispector, proprio come la soffoca la sua società.

 

La storia di Clarice Lispector è curiosa: nata in Ucraina e poi subito emigrata con la famiglia in Brasile, studia legge per poi dedicarsi alla scrittura come giornalista, ma anche come autrice di romanzi e traduttrice. È la parola ad essere il suo punto di snodo esistenziale, in particolare la parola che le viene tolta. Clarice Lispector vive pienamente la realtà del Novecento, un periodo che vede sorgere le rivendicazioni femministe, nonché la nascita di un vero e proprio movimento di rivendicazione culturale. In questo quadro, è bene ricordare le origini del femminismo e la sua natura. Come riporta Treccani, il femminismo è, in prima istanza, un «movimento di rivendicazione dei diritti economici, civili e politici delle donne», un movimento che, in origine, nasce a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo come rivendicazione di quel diritto di voto di cui le donne erano private. Ben presto, però, dopo aver conquistato il tanto agognato diritto, le attiviste femministe si rendono conto che la battaglia non è finita. L’obiettivo, di più ampio respiro, diventa quindi riprendere il proprio posto nel mondo, combattendo per una rivendicazione sociale e culturale. Questa nuova spinta degli anni Sessanta e Settanta dà motivo a molte donne di “dire la propria”, di “urlare a gran voce” quello che per anni hanno taciuto, di mostrare al mondo maschile che queste non provano più vergogna del proprio corpo e che sono padrone di se stesse: il femminismo diviene così un movimento che va a ristabilire il ruolo della donna all'interno della sfera pubblica, ridandole dignità, diritto di parola, visibilità e potere.

 

Ciononostante, la situazione non è ovviamente la stessa in tutti i paesi del mondo: la diffusione della nuova ondata di questo movimento avviene in primis in Canada, per poi passare in Europa e proseguire verso zone geografiche via via più distanti dal nucleo iniziale. In particolare, la situazione del Brasile di Clarice Lispector è piuttosto chiara: si tratta di una società ancora fortemente maschilista dove vige la legge del patriarcato, dell'autorialità e del colonialismo, in breve uno stato nel quale vige la legge del più forte. Di conseguenza, le donne sono sottomesse e costrette a vivere relazioni di potere asimmetriche nelle quali non solo non hanno voce in capitolo, ma in cui anche qualsiasi tentativo di parola viene messo a tacere.

 

Nel campo della letteratura era abbastanza comune quindi ricorrere alla censura e al divieto di tradurre certe opere “scomode”.

 

In questo panorama particolarmente caldo, nel suo tentativo di raccontare l'indicibile, Clarice Lispector scrive in portoghese brasiliano diverse opere, le quali provocano scandalo per i temi di cui trattano e per le riflessioni a cui portano e che destano un particolare interesse agli occhi di Hélène Cixous, la quale interpreta secondo le sue lenti A paixão segundo G.H. (La passione secondo G.H.), pubblicata nel 1964 e Água Viva (Acqua viva), pubblicata nel 1973.

 

Nel leggere le opere di Lispector, Cixous intesse con l'autrice brasiliana una vera e propria "storia testuale", come la definisce Rosemary Arrojo. Infatti, in Vivre l'orange, il fulcro è costituito proprio da una conversazione tra un io e un tu nella quale si celebra tale rapporto in cui il grado di coincidenza e condivisione delle opinioni e del pensiero delle due autrici genera in Cixous un assorbimento della carica del pensiero di Lispector. Come afferma Arrojo, «nel suo incessante sforzo di sovvertire una contrapposizione così pervasiva e onnipresente, che lei ritiene sia alla base di tutte le forme di oppressione, in particolare il patriarcato e il colonialismo, Cixous cerca di individuare modi di rapportarsi all'altro/a che vadano oltre la ricerca del potere e del dominio, lasciando integra l’alterità».

 

Si stabilisce infatti, tra le due autrici, quasi un'unione omosessuale che viene portata all'estremo: come asserisce Arrojo, non traspaiono più due autrici, bensì una soltanto, ovvero Hélène Cixous, la quale finisce per esercitare dunque quella “messa a tacere” tanto denunciata e condannata. Ecco il paradosso dell'amore possessivo, ecco la contraddittoria devozione di Cixous, che a causa della sua passione viscerale per la scrittura di Lispector opera una riscrittura del testo, finendo per mettere in atto un violento desiderio di possesso e costringendo Lispector a diventare un fantasma nelle sue opere, come sostengono Arrojo e Barthes.

 

In particolare, riprendendo la metafora della “mela” presentata ad inizio articolo, Arrojo spiega come questa rappresenterebbe per metafora Lispector, mentre l'aranc-io rappresenterebbe Cixous, che gode del frutto dell'albero, lo digerisce e lo trasforma, facendolo suo e piegandolo ai propri interessi. In altre parole, come sostiene Arrojo, si tratterebbe di «un atto di colonizzazione, per cui i soggetti e gli oggetti che cadono sotto l'altrui dominio sono costretti a sposarne gli interessi e a cedere totalmente il controllo».

 

In conclusione, se la traduzione è un atto per dare maggiore diffusione alla parola che un soggetto X ha espresso in una lingua Y, ossia per diffondere il suo messaggio e il suo pensiero, Hélène Cixous applica questo stesso metro, utilizza la traduzione per silenziare con prepotenza la voce e le parole di Lispector. Se è vero che per Cixous lo stile maschile produce forme «asciutte, ridotte all'osso», mentre lo stile femminile è alla «ricerca di un significato non mediato, libero dalle costrizioni della traduzione e potenzialmente diverso dalla lingua maschile che traduce tutto in se stessa, [che] non comprende nulla se non in traduzione», in altre parole, uno stile che mira a «trattare l'altro “con delicatezza, in punta di parola, senza schiacciarlo”», allora, forse, ci troviamo davvero a un’evidente situazione di paradosso.

 

Le traduzioni sono tratte dal libro curato da Elena Di Giovanni e Serenella Zanotti, Donne in traduzione, Milano, Bompiani, 2018.

 

 

Per saperne di più:

Per approfondire l'argomento, si consiglia la lettura del saggio Interpretation as possessive love - Hélène Cixous, Clarice   Lispector   and   the   ambivalence   of fidelity di Rosemary Arrojo.  Inoltre, si consigliano i testi: La passione secondo G.H. di Clarice Lispector (tradotto da Adelina Letti) e di Acqua Viva, sempre della stessa autrice (tradotto da Roberto Francavilla). Infine, si consiglia la lettura di Vivre l'orange di Hélène Cixous.

 

Immagini originali:
Set of cats (felidae) isolated on white background - Vettoriale. Crediti: laraslk Shutterstock.com 
Lioness and male lion lying down. Vector illustration isolated on the white background - Vettoriale. Crediti: Hennadii H / Shutterstock.com

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La cultura delle gang in "The Outsiders" di S. E. Hilton

Dovevo fare molta strada prima di arrivare a casa e non avevo nessuna compagnia, ma mi capitava spesso di camminare da solo. […] Andavo verso casa, pensando al film e, d'improvviso, volevo che ci fosse qualcuno accanto a me. […] I Greasers non possono camminare da soli a lungo o ci attaccano. […] I Socs ci attaccano. […] Siamo più poveri rispetto a loro e alla classe media. E credo che siamo pure più arrabbiati.

Questo è uno dei primi passi tratti dal romanzo d'esordio dell'autrice americana contemporanea Susan Eloise Hilton, The Outsiders. La genesi dell'opera risale a quando, ancora al liceo, la scrittrice cominciò ad interessarsi ai fenomeni sociali legati alle cosiddette gang, ovvero i gruppi che popolano le periferie delle città statunitensi. Pubblicata per la prima volta nel 1967, The Outsiders è un'opera che mette a nudo gli spaccati taciuti della società americana; l’assenza dei genitori, la violenza delle gang, il fumo e l’uso di alcolici sono solo alcuni dei motivi presenti, per i quali tra l'altro il libro subì una "censura", venendone appositamente evitata la lettura nelle scuole, quasi fosse un tabù, come lo erano, del resto, le tematiche che affrontava.

 

Va sottolineato di nuovo come il romanzo sia frutto non della penna di una scrittrice adulta, quanto, piuttosto, di quella di un’adolescente che descrive la realtà dei ragazzi che la circondano, quella dell'Oklahoma della seconda metà del Novecento.

 

I Socs e i Greasers sono le due gang che si affrontano nel romanzo. I primi, di famiglia benestante, sono un gruppo costruito su una forza sociale evidente e preminente; la seconda gang, invece, è formata da ragazzi la cui aggregazione sociale è basata sul loro essere soli, sul costruirsi essenzialmente da sé. Dal loro desiderio di trovare un sistema che li accolga, i Greasers hanno formato la loro famiglia:

Portiamo i capelli lunghi e, di solito, indossiamo dei jeans blu e delle magliette, portiamo le camicie fuori dai pantaloni e indossiamo giacche di pelle con scarpe da tennis o stivaletti. Non sto dicendo che i Socs sono meglio dei Greaser o viceversa; è semplicemente come stanno le cose.

Ecco come Ponyboy, protagonista e narratore in prima persona della storia, descrive l'ambiente che vive tutti i giorni. Quattordici anni e ottimi voti a scuola, questi vive una crisi di esclusione: dopo la morte dei genitori, vive con i fratelli Sodapop e Darell, anch'essi Greasers. Con Darell condivide un bel rapporto, mentre, al contrario, con Sodapop sente di non condividere un vero rapporto da fratelli: non si sente all'altezza, ritiene che il fratello maggiore non si prenda cura di lui, come se dovesse prima meritare il rispetto di quest'ultimo. Del gruppo dei Greasers fanno parte altri personaggi, tra cui Johnny Cade, miglior amico di Ponyboy, ma anche Dallas, Two-Bit e Steve.

 

La trama del romanzo trova un punto di snodo in uno scontro tra Socs e Greasers, nel quale Bob, leader dei Socs, viene ucciso da Johnny. Quest'evento rappresenta il punto di massima tensione nel romanzo: da qui prende il via una crisi d'identità dei Greasers, in cui i membri cominciano a porsi domande su loro stessi, sul loro essere come individui singoli e non come parte di un gruppo. I ragazzi iniziano a rendersi conto che le proprie azioni non si riflettono soltanto sul loro microcosmo, ma hanno delle conseguenze pesanti a livello macrosistemico: nella società ogni atto/azione ha un peso e ne devono rispondere. In questo sistema dicotomico di rivalità tra le due gang, si possono ravvisare alcuni fenomeni che si hanno anche a livello macrosistemico nei gruppi sociali: fenomeni di esclusione, di vendetta, di rivalsa, di rivendicazione.

 

Disorientati e circondati da una serie di eventi che si avvicendano e che si intrecciano tra loro, i ragazzi di periferia si trovano di fronte alla rottura dell'equilibrio delle tre "B": being ("essere"), belonging ("appartenere") e becoming ("diventare"). Queste tre "B" rispecchiano perfettamente passato, presente e futuro: being riguarda l'identità del ragazzo sulla base delle esperienze vissute in passato; belonging fa riferimento alla loro appartenenza attuale, al fatto di essere parte di un gruppo; infine, becoming rappresenta le prospettive di un immaginarsi in futuro.

 

In questo equilibrio, i ragazzi, proprio come in The Outsiders, possiedono una sola e unica sicurezza, rappresentata dalla prima B, il belonging, poiché il passato è alle loro spalle e, date le loro esperienze di vita, lo rifiutano, mentre il futuro non lo immaginano neppure. Nella cultura delle gang, tutto ciò che è vero, tutto ciò che importa è il gruppo: la prospettiva si esaurisce in esso. I ragazzi diventano i catalizzatori di energie che poi esplodono in lotte e scontri corpo a corpo. Il gruppo, la gang, è il luogo in cui abitano i ragazzi, a cui sentono di appartenere. All'interno del gruppo essi vengono accettati e investiti di ruoli: a loro vengono affidate delle "missioni". La gang è quindi vissuta come un sistema di società: tutto inizia e finisce nella gang e nelle sue "azioni".

 

Ciononostante, alla fine, la realtà si rivela essere ben altra da quella semplicemente circoscritta alle gang: l'uccisione di Bob ha un’eco maggiore rispetto a quanto si potesse immaginare. I Greasers sentono cadere sulle proprie spalle un macigno: le responsabilità e le conseguenze dell'atto compiuto. In questo cocktail di eventi forti dal punto di vista emotivo, la chiesa del quartiere prende fuoco: nell'incendio rimangono coinvolti Ponyboy e Johnny; il primo perde i sensi a causa del fumo, mentre il secondo subisce un violento colpo alla schiena a causa della caduta di una trave.

 

Negli ultimi capitoli, il romanzo ritrae una realtà aspra, quanto mai vera, secondo un artificio della narrazione che la rende cruda e vivida nella mente del lettore, il quale viene spinto fino al sentire e provare l'angoscia, la paura, lo spaesamento e la fine. Appena prima di morire, sul letto d'ospedale dove viene ricoverato dopo l'incendio, Johnny dedica un'ultima frase al suo fedele ed eterno amico Ponyboy. In questa frase, facendo riferimento alla poesia di Robert Ford Nothing Gold Can Stay, Johnny racchiude tutta la loro rivincita, la rivincita di ragazzi di periferia, ragazzi ai margini, ragazzi dimenticati, che possono, comunque, entrare nel mondo, che possono, comunque, uscire dalla periferia, rimanendo sempre e per sempre degli Outsiders. «Stay gold, Ponyboy, stay gold». Non sfiorire, Ponyboy, non sfiorire.

 

 

Per saperne di più:


Per approfondire l'argomento, si consiglia la lettura dell'opere opere sopracitate, ovvero The Outsiders di S. E. Hilton e Delinquent Boys: Culture of the gang di Albert Cohen. Inoltre, si consiglia la visione del film The Outsiders del 1983 diretto da Francis Ford Coppola.

 

Immagine di corredo: frame tratto dal film The Outsiders (1983), diretto da Francis Ford Coppola

 

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Erasmus? Un'avventura di apprendimento esperienziale

Dal Grand Tour a "Jacques le Fataliste et son maître" ai giorni nostri

Come si erano incontrati? Per caso, come tutti. Come si chiamavano? Che ve ne importa? Da dove venivano? Da un luogo vicinissimo. Dove andavano? Sappiamo dove andiamo/ci dirigiamo?

Così si apre uno dei libri più significativi della letteratura francese: Jacques le Fataliste et son maître, un metaromanzo scritto da Denis Diderot e pubblicato per la prima volta nel 1796. I protagonisti? Jacques e il suo padrone, due viaggiatori che, sulla scia di altri intellettuali europei di quell’epoca, intraprendono un viaggio verso una meta ignota, partendo da un punto ignoto collocato in uno spazio altrettanto ignoto. Quello di cui narra il romanzo è un viaggio che, di fatto, non condurrà i protagonisti in nessun luogo, ma che al contempo genererà un processo di approfondimento, di riflessione nonché di apprendimento dell’universo umano e di molteplici tematiche ad esso collegate: satira nei confronti della religione, contestazione sociale, promozione di ideali e di esperienze di vita.

 

Si tratta davvero di un libro che apre gli occhi e la mente, che conduce a riflessioni profonde e a prese di coscienza autentiche, oppure si tratta, semplicemente, del piacere dello scrivere senza seguire uno schema fisso? Cosa ha ancora da insegnarci quest’opera ambientata in un luogo indefinito e in un’epoca lontana? Nonostante l’apparente scarsa connessione con l’epoca contemporanea, nella quale globalizzazione e nuove tecnologie sono i denominatori di un mondo che viaggia ad una velocità sempre maggiore, questo libro richiama un’esperienza che molti studenti europei si ritrovano a vivere, ovvero quella dell’Erasmus.

 

Come già enunciato in precedenza, Jacques e il suo maestro intraprendono un viaggio in Europa secondo la tradizione settecentesca del Grand Tour. Cos'era il Grand Tour? Tra il Settecento e l’Ottocento, in Europa, era abbastanza comune che uomini benestanti intraprendessero viaggi in giro per il continente al fine di accrescere il proprio sapere e la propria consapevolezza del mondo. Sete di conoscenza, voglia di sperimentare l'esotico, il fascino di un'avventura di esplorazione o, più semplicemente, una moda del tempo? Che dir si voglia, il Grand Tour era comunque un’esperienza impegnativa che poteva durare da qualche mese a diversi anni. Tra i testimoni di questo tipo di esperienza si trovano anche alcuni dei più grandi letterati europei, quali il tedesco Goethe e i francesi Montaigne e Stendhal, per citarne alcuni.

 

In Jacques le Fataliste et son maître, i veri protagonisti della storia non sono Jacques e il suo padrone, bensì le loro esperienze: esperienze che parlano, esperienze che acquistano uno status e una carica che rimane impressa nella mente del lettore. Ne è prova il fatto che, data la struttura complessa dell'opera, quest’ultimo probabilmente non si ricorda dei singoli personaggi o della successione di eventi, ma piuttosto del singolo episodio che fa storia a sé. In realtà, travestito da romanzo picaresco, il viaggio intrapreso da Jacques e dal suo padrone si rivela profondamente legato alle dinamiche contemporanee e attraversa tutte le principali tematiche sociali dell'epoca; protagonisti e lettore sono spinti a comprendere e apprendere attraverso la “tecnica della didattica delle risposte”, secondo cui è ponendo gradualmente domande che si arriva a scoprire e ad apprendere meglio: è il mettersi in gioco, l'intraprendere un viaggio che permette all'individuo di diventare spugna e specchio, di assorbire e di respingere, sempre filtrando e analizzando ogni singolo evento, ogni singola tematica.

 

Il titolo Jacques et son maître si può tradurre “Jacques e il suo padrone”, ma anche “Jacques e il suo maestro". Qui i due piani asimmetrici di maestro e studente trovano il punto di connessione che trasforma questo incontro da asimmetrico a simmetrico, nel quale i due personaggi si posizionano allo stesso livello: la conoscenza dell'uno fluisce sull'altro e viceversa, i due sono allo stesso tempo “affluente” e “fonte”. Il tutto è reso possibile da questo apprendimento esperienziale che avviene sul campo e che è dato dalla ricerca e dalla scoperta personale. Come si riflette tutto ciò nel mondo odierno? Siamo così distanti da quei secoli, da quel modo di apprendere? Forse non così distanti come si può pensare.

 

L'acronimo Erasmus sta per European Region Action Scheme for the Mobility of University Students, un progetto promosso dall’Unione Europea dal 1987. Vi sono diversi tipi di Erasmus offerti: l’Erasmus +, grazie al quale uno studente universitario residente in uno dei paesi dell’UE può seguire un semestre oppure un intero anno presso un’università estera; l’Erasmus Traineeship, grazie al quale è possibile fare un’esperienza di tirocinio presso un ente estero; l’Erasmus Buddy, che permette di fare da guida agli studenti Erasmus in entrata presso l’Università a cui si è iscritti. A livello universitario, nonché professionale, l’Erasmus offre numerose opportunità per l’arricchimento personale e per una migliore formazione a livello internazionale, continui spunti per apprendere gli usi e i costumi, la storia, la lingua e la cultura del paese di destinazione: è una tipologia di formazione a carattere esperienziale.

 

Stando alle statistiche fornite dal sito ufficiale dell’Unione Europea, il programma ha offerto opportunità ad oltre 4 milioni di persone, tra i quali 2 milioni di studenti. L’Erasmus vanta oltre 500 mila opportunità di scambi culturali per studenti, ma anche possibilità di mobilità per lavoratori (oltre 800.000 opportunità per insegnanti, lettori, ecc.), corsi e master all’estero, lauree a doppio titolo. In breve, un mix di esperienze che fa assaporare al partecipante il gusto di un viaggiare più pieno, reale, intenso, dove si vive la realtà di ogni giorno e si apprende facendo esperienza. Soprattutto grazie all'Erasmus Traineeship, studente e maestro (ovvero il tutor dell'ente presso il quale si partecipa al progetto) si trovano a stretto contatto e, potenzialmente, in un rapoorto nel quale ognuno insegna all'altro: il maestro perché possiede l'arte, lo studente perché porta una ventata di novità dovuta alla sua età e alla sua provenienza. In altre parole, l'Erasmus offre quel tipo di apprendimento esperienziale che rimane indelebile e impresso nella vita di ogni studente.

 

In conclusione, nel presente troviamo eco del passato, nonché la sua evoluzione: nei secoli il viaggio ha svolto (e svolge oggi) una funzione di apprendimento di vitale importanza. L'apprendimento è un'elaborazione di un messaggio che, se ottenuto e acquisito sotto altre forme di input, e quindi tramite esperienze vive e reali, può riuscire veramente ad essere una risposta efficace e a sedimentare meglio informazioni che altrimenti sarebbero acquisite in maniera parziale. L’apprendimento esperienziale ha proprio come connotato caratteristico il vissuto, cioè il vivere l'esperienza, in quanto apprendere significa anche "fare proprio", "elaborare", "connotare", "dare un proprio e personale significato" a un'esperienza. Del resto, non tutte le classi hanno soltanto quattro mura.

 

 

Per saperne di più:

Per approfondire l'argomento, si consiglia la lettura dell'opera Denis Diderot, Jacques le fataliste et son maître, Carpentier, Line, 1989. Inoltre, per raccogliere ulteriori informazioni sulla situazione attuale e sui dati, si consiglia la consultazione del seguente link https://ec.europa.eu/programmes/erasmus-plus/node_it e https://ec.europa.eu/programmes/erasmus-plus/about/statistics_it.

 

Immagine originale: Top world famous landmark for travel poster and postcard, France,England,Spain,Italy in paper origami style vector illustration. Crediti: ChonnieArtwork / Shutterstock.com

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Scrittura in movimento: Georges Perec, L'infra-ordinaire e Espèces d'espaces

I giornali parlano di tutto, tranne che del giornaliero. [...] Quello che succede ogni giorno e che ritorna, il banale, il quotidiano, l'evidente, il comune, l'ordinario, il rumore di fondo, l'abituale, come renderne conto, come interrogarlo, come descriverlo? [...] Si tratta forse di fondere l'antropologia di noi stessi: quella che parla di noi, quella che cercherà in noi ciò che abbiamo saccheggiato da tempo negli altri. Non l'esotico, ma l'endotico.

Georges Perec è uno degli scrittori francesi della seconda metà del Novecento, membro dell'OuLiPo, ovvero il movimento Ouvroir de Littérature Potentielle, un gruppo di scrittori e matematici francesi che si poneva come obiettivo quello di organizzare la scrittura secondo giochi combinatori di parole e schemi matematici. Contraddistinto da un gusto e da un senso particolare, Perec veste le sue opere di una scrittura singolare, che si muove in maniera del tutto inedita nello spazio. In Perec, infatti, il movimento non è solo dato dall'occhio dello scrittore, ma scaturisce anche e soprattutto dalla scrittura: una scrittura in movimento che parte da una posizione più che statica, addirittura immobile. Due sono le opere che più incarnano ed esprimono questa scrittura: L'infra-ordinaire e Espèce d'espaces.

 

Espèces d'espaces è stata pubblicata nel 1974. In quest'opera Perec mette in atto una strategia di descrizione dello spazio del tutto nuova. L'autore siede infatti per tre giorni al café della piazza Saint-Sulpice a Parigi e comincia il suo tentativo di esaurire la realtà descrivendo ogni singolo oggetto che riempie quello spazio, attraversato da migliaia di persone e immerso nel flusso caotico di Parigi. Per far ciò, l'autore si serve della tecnica dell’«emboîtement», per la quale ogni spazio ne rivela un altro in cui è contenuto, quasi fosse una matrioska: ogni spazio finisce dunque con il rivelare uno spazio più grande e ogni cosa viene descritta nei suoi minimi particolari.

 

È così che la scrittura, in Perec, si mette in viaggio. Questo viaggio, che attraversa lo spazio e il mondo, inizia dal tavolino della piazza Saint-Sulpice al quale è seduto. Si parte dallo spazio del foglio su cui l'autore scrive, per poi passare, capitolo dopo capitolo, a spazi sempre più ampi: la scrittura di Perec si muove dalla camera all'appartamento, dall'edificio alla via, dal quartiere alla città, dalla città alla campagna, dalla campagna alla Paese, dal Paese all'Europa, dall'Europa al mondo e dal mondo allo spazio intero. Il tavolino di un "café" parigino e uno scrittoio: sono questi i due laboratori che permettono a Perec di viaggiare e di portare la sua scrittura a muoversi in maniera precisa e diretta, riuscendo sempre, in poche pagine, ad esaurire lo spazio del reale.

 

Scrive Claude Burgelin in Georges Perec, opera frutto di un suo incontro con l'autore, riprendendo le parole di Perec stesso:

Questi spazi [...] li abbiamo trasformati in una scrittura plurale [...] Di una tale "geografia" "abbiamo dimenticato che siamo noi ad esserne gli autori" [...] Geroglifici, con dei pittogrammi parlanti [...] Significanti di cui abbiamo perso il significato. La quotidianità [...] impone dei percorsi [...] che dovrebbero far di noi dei semiologi meno negligenti: "Vivere significa passare da uno spazio all'altro, cercando il più possibile di non sbattere".

Un’altra opera altrettanto significativa dell'autore è L'infra-ordinaire, uscita postuma nel 1989. In essa si delinea una scrittura che tende alla descrizione particolareggiata di ciò che si vede, concentrandosi su quel infra-ordinario che tanto ha catturato l’attenzione di Perec. In questo suo tentativo, la scrittura in movimento dell'autore continua ed è ancor più presente: questa volta lo scrittore francese non descrive lo spazio in generale, ma lo spazio che attraversa, facendo muovere i suoi lettori tra quelle vie, tra quelle pieghe, per l'appunto, dell'infra-ordinario.

 

Nel suddetto quadro, particolare attenzione acquista il capitolo dedicato a Italo Calvino: Deux cent quarante-trois cartes postales en couleurs véritables ("Duecentoquarantatré cartoline illustrate a colori autentici"). L'autore parte da Ajaccio in Corsica per attraversare man mano luoghi sempre più assurdi: Formentera, Cipro, la Costa Smeralda, Ulster, Knokke-Le Zoute sul Mar Baltico e così via. Persec li descrive solo con qualche tratto, ma non per questo viene compromesso il colore della cartolina: per quanto, stranamente, ogni luogo sia descritto in poche righe, è comunque vivo e tratteggiato secondo i suoi colori parlanti, in grado di portare con sé l'anima del posto. In altre parole, la scrittura in movimento di Perec si muove nello spazio seguendo il principio di “toccata e fuga”, per il quale la descrizione della città rimane comunque vivida nella scrittura e finisce per colorare l'immagine mentale dei vari luoghi che il lettore si fa in poche righe.

 

È interessante notare come la scrittura di Perec, dopo il suddetto capitolo, scenda sempre di più nel dettaglio: si passa, infatti, a spazi sempre più circoscritti, quali Beaubourg e Londra, sino al capitolo finale, che, per il suo titolo, si pone in netto contrasto con tutto il movimento precedente generato dalla scrittura dell'autore. Difatti, nel capitolo conclusivo Still lyde/Style leaf ci si accorge subito di come lo spazio venga ridimensionato e si torni al piccolo scrittoio di Perec. Questi ne descrive ogni minima imperfezione, ogni minimo oggetto postovi sopra, con la cura di chi vede in quello scrittoio il proprio mondo. Il gioco letterario si basa tutto sul contrasto: dal movimento della scrittura di Perec si passa al suo laboratorio di scrittura, la sua culla, lì dove nasce, in un luogo statico e immobile. Ecco che le due forze si pongono in netta opposizione: la scrittura che viaggia e l’autore, Perec, che siede al suo scrittoio, fermo, statico e immobile.

 

Ciononostante, per quanto sia statico e immobile, tutto si muove dalla penna dello scrittore. Perec è colui che, dallo scrittorio, fermo nella sua staticità, scrive, viaggia e va:

In primo piano, a distaccarsi nettamente dalla tovaglietta nera dello scrittorio, si trovano un foglio di carta a quadretti piccoli, di formato 21 x 29,7, quasi tutto scritto con una scrittura eccessivamente stretta, e una penna di metallo dorato, sul cui corpo e tappo si estendono per tutta la loro lunghezza delle raffinate scanalature.

 

Le traduzioni sono a cura dell'autrice dell'articolo.

 

 

Per saperne di più:

Per approfondire l'argomento, si consiglia la lettura dell'opera L'infra-ordinaire edito da Édition du Seuil, 1989. Inoltre, per un'analisi più attenta si consiglia la lettura del testo George Perec di Claude Burgelin, edito da Édition du Seuil, 1990.

 

Immagine via Wikimedia CommonsTerras in Parijs, 1960. Autore: Willem van de Poll. This is an image from the Natonaal Archief, the Dutch National Archives, donated in the context of a partnership program. This file is made available under the Creative Commons CC0 1.0 Universal Public Domain Dedication. The person who associated a work with this deed has dedicated the work to the public domain by waiving all of his or her rights to the work worldwide under copyright law, including all related and neighboring rights, to the extent allowed by law. You can copy, modify, distribute and perform the work, even for commercial purposes, all without asking permission.

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Un viaggiatore visionario e i suoi sogni: "Le città invisibili" di Italo Calvino

È delle città come dei sogni: tutto l’inimmaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra.

Con queste parole di Marco Polo inizia la terza parte de Le città invisibili di Italo Calvino. Questa affermazione non sembra destabilizzare più di tanto Kublai Khan, interlocutore dell’esploratore veneziano e imperatore dei Tartari, che risponde con un netto e sicuro «io non ho desideri né paure […] e i miei sogni sono composti dalla mente o dal caso». Di composizione regolare nell’opera del grande autore italiano ce n’è ben poca.

 

Membro dell’Oulipo, ovvero dell’Ouvroir de Littérature Potentielle, gruppo di scrittori sperimentali francesi, Italo Calvino dedicò parte della sua produzione letteraria alla scrittura “costretta” secondo alcuni schemi. Le città invisibili è una delle opere in cui il gioco combinatorio dell’autore si manifesta in maniera più marcata. La struttura dell’opera ne è infatti un esempio evidente: se da una parte si snoda il racconto di Marco Polo a Kublai Khan sui numerosi viaggi nelle città dell’Impero, dall’altra si riscontra una struttura particolare, nella quale ogni capitolo (in tutto nove nell’opera) è aperto e chiuso da un dialogo tra i due che funge da cornice. All’interno di ogni capitolo, però, è presente un gioco combinatorio complesso di cui Calvino stesso ci parla: «ho deciso di fissarmi su 11 serie di 5 pezzi ciascuna, raggruppati in capitoli formati da pezzi di serie diverse che avessero un certo clima in comune». In altri termini, lo schema ideato dall’autore poggia su undici serie di città: Le città e la memoria, Le città e il desiderio, Le città e i segni, Le città sottili, Le città e gli scambi, Le città e gli occhi, Le città e il nome, Le città e i morti, Le città e il cielo, Le città continue, Le città nascoste. Ogni serie è suddivisa in cinque pezzi, che coincidono con i racconti/descrizioni di cinque città diverse. I pezzi di ogni serie sono stati poi mescolati e ricomposti in ordine sparso a formare i nove capitoli del libro. Il risultato di questa operazione è una struttura organizzata come un poliedro, in cui la conclusione è presente, allo stesso tempo, in tutti capitoli e in nessuno.

 

A ogni lettore è quindi lasciata la possibilità di percorrere il proprio viaggio, di seguire la propria mappa, di visitare le città che preferisce e di scoprire i posti più reconditi, gli oggetti più strani, i dettagli più inimmaginabili. In ciò egli accompagna Marco Polo, viaggiatore visionario, che lo invita a seguirlo e a far fronte ai propri desideri di scoperta e ai propri sogni, ma anche ad affrontare tutte le proprie paure e ansie. Ogni lettore, dunque, co-costruisce il proprio percorso insieme all’esploratore veneziano: è possibile infatti aprire il libro e scegliere di leggere un capitolo a caso, il quale verte su una tematica enunciata nella cornice – questa rimane sottesa a ogni singolo racconto – e che finisce per richiudersi sempre nella cornice stessa, quasi a comporre un anello, una struttura circolare. In altre parole, un universo di pensieri, di azioni e di emozioni che si affollano, si avvicendano, si mostrano e si nascondono dietro un velo diafano, davanti agli occhi e alla fantasia del lettore.

 

Quale labile confine si cela tra visione e sogno? Marco Polo è un viaggiatore visionario o un sognatore? E noi, suoi lettori e compagni di viaggio, cosa siamo? Visione e sogno assumono due significati differenti. Il secondo termine indica un desiderio recondito e profondo che il lettore è conscio di avere, mentre il primo rappresenta una realtà generata dalla mente a partire dal dato reale: è osservando un determinato luogo che si viene colpiti da un altro mondo di oggetti creati dall’immaginazione e staccati dalla realtà, in un processo dettato dalla fantasia. In particolare, ne Le città invisibili, è proprio questo il motore principale che intesse l'opera: è la fantasia a muovere l’esplorazione di Marco Polo nelle città più svariate: città continue, come la città di Cecilia; città nascoste, come la città di Berenice; città sottili, come la città di Ottavia; in tutti questi luoghi i sogni, espressione dei più reconditi desideri del lettore/viaggiatore, danno forma alle parole. In altri termini, questo meccanismo fa attivare la fantasia creativa e costruttiva che genera la città nella mente di chi legge, dando forma, colori e volti ad una foresta di sogni, desideri, ansie e inquietudini. Ne Le città invisibili i sogni di ogni lettore si realizzano, ma non sempre questo porta a conseguenze positive: i sogni generano una realtà che segue una via propria, un proprio cammino, esattamente come il cammino del lettore, ed è proprio qui che egli si perde: nel seguire ognuno il nostro viaggio finiamo col farci condurre da esso.

 

Città deserte, città dimenticate, città invisibili, generate sicuramente nella nostra mente, certamente dal caso; ma la fonte primordiale dell’immaginazione del lettore rimane il sogno: è questo che dirige, è questo che conduce, è questo che seguiamo e che rincorriamo: il sogno che, realizzato, diventa altro. E così non è più il lettore ad essere padrone del proprio sogno e a perseguirlo, ma è il sogno che, manifestatosi, mostra entrambe le facce della medaglia: il bene e il male, la realtà fattuale che contrasta con la realtà immaginata. Non a caso Marco Polo porta l’esempio di Isidora, la città dei sogni per l’uomo che cavalca a lungo e ha desiderio di giungere in una città che raggiungerà solo quando la sua vita volgerà al termine, ovvero nella vecchiaia: «Isidora è dunque la città dei suoi sogni: con una differenza. La città sognata conteneva un lui giovane; a Isidora arriva in tarda età. Nella piazza c’è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con loro. I desideri sono già ricordi». Qui si risolve un altro nodo importante: i sogni sono di chi progetta, di chi vede un futuro, di chi ha desideri. La loro realizzazione è la denaturazione del sogno secondo un processo irreversibile: il sogno diventa realtà, ma non come nelle fiabe dove tutto è esattamente come lo si era "sognato"; il sogno diventa altro da sé, mostrando quanto desiderato e quanto non lo è.

 

Ciononostante, ne Le città invisibili sarà il lettore a trovare le proprie conclusioni, proprio come è stato lui a trovare e a cominciare il suo cammino. Il sogno non ha fatto altro che generare e dare voce a quanto di più nascosto e intimo sia nella mente del lettore, offrendogli, poi, ciò che gli si prospetta davanti. Non a caso la città dei sogni è la città di coloro che hanno raggiunto i propri obiettivi e che non hanno più nulla da attendere né da cercare: hanno esaurito la loro giovinezza, caratterizzata anche e soprattutto da questa ricerca instancabile di raggiungere il proprio obiettivo, per l'appunto il proprio sogno.

 

I sogni, sia nei loro risvolti positivi che negativi, fanno riflettere il sognatore, generando in questo un processo di verifica di quanto realizzato. Egli si chiede: è davvero ciò che volevo? Sono davvero così felice come immaginavo? Oppure ho nuovi dubbi, nuove inquietudini, nuove domande da cercare? Il sognatore è un cercatore, è colui che non si ferma, ma che è in continuo movimento, sempre in viaggio verso nuove mete, verso nuove città, verso nuovi orizzonti, spinto da nuovi dubbi e domande. E così Marco Polo ribatte all’affermazione espressa da Kublai Khan riportata all’inizio dell’articlo:

Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. O la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere.

 

 

Per saperne di più:

Per approfondire la suddetta tematica si consiglia la lettura del testo originale: Le città invisibili di Italo Calvino, edito da Oscar Mondadori. Inoltre, per meglio contestualizzare il libro da un punto di vista storico e sociale, si consiglia come testo di riferimento Il nuovo la scrittura e l’interpretazione, vol. 6, opera edita da G.B. Palumbo Editore.

 

Fonte immagine: Pexels.com (https://www.pexels.com/photo/architecture-buildings-business-city-325185/)

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La rivoluzione delle lingue minoritarie: i casi dell'Irlanda e della Corsica

«Il problema relativo alla traduzione e alle lingue minoritarie non è un problema secondario. (...) L'egemonia della lingua inglese nel campo dello sviluppo tecnologico che cresce a ritmi più elevati sta a significare che tutte le altre lingue diventano, in questo contesto, 'lingue minoritarie'», scrive Michael Cronin nel saggio The Cracked Looking Glass of Servants: Translation and Minority Languages in A Global Age. L'avvento di Internet, lo sviluppo delle nuove tecnologie e la moda dei social network sono solo alcuni dei fattori che hanno permesso e permettono tuttora alla lingua inglese di imporsi oltre i termini di lingua veicolare.

 

L'egemonia dell'inglese in moltissimi ambiti, tra i quali l'informatica, la robotica, lo sport e la cronaca, è causa di un altissimo numero di prestiti linguistici nelle varie lingue. Questi possono essere di due tipi: il prestito linguistico di necessità, ovvero quel prestito che si ha per mancanza di un referente corrispondente nella propria lingua (come nel caso della parola “caffè” o “patata”, alimenti che non esistevano prima della loro importazione dall'America); e il prestito linguistico di lusso, quando invece si preferisce l'uso di termini stranieri per ragioni di brevità, comodità o di maggiore utilizzo, come nel caso della parola "goal" che in italiano corrisponde a "rete", o ancora della parola "corner", "angolo", e infine "businessman" per "uomo d’affari".

 

In alcuni Stati, negli ultimi anni, si è assistito ad una costante ricerca del valore della lingua nazionale, perseguita tramite l’incoraggiamento all’uso di termini della lingua nazionale piuttosto che dei prestiti linguistici. Un esempio di questa politica è il caso della Francia: in particolare, la legge Toubon del 1994 tenta di stabilire la supremazia e l'importanza della lingua francese nelle pubblicazioni governative, ministeriali, commerciali e pubbliche, con lo scopo di promuovere l'arricchimento della lingua francese, contrastare l'avvento della lingua inglese e difendere la cultura della Francia. Si ha così l'aumento esponenziale dei neologismi, soprattutto in ambito informatico: al termine "software" si sostituisce il termine francese "logiciel"; al termine "computer", "ordinateur"; "digital", "numérique"; "net", "réseau" e così via.

 

In quest'ottica, le lingue minoritarie non sono solo quelle lingue parlate da una stretta comunità di parlanti in un'area geografica ristretta, ma sono tutte quelle lingue che sentono la pressione di una lingua "altra", che esercita una certa influenza sulla lingua nazionale e investe vari campi d’azione. Secondo Cronin, una lingua minoritaria può andare incontro a due possibili strade: la traduzione-assimilazione, quando i parlanti di una lingua fanno uso del termine della lingua straniera, assimilandosi così alla lingua egemone; la traduzione-diversificazione, quando i parlanti resistono alla pressione linguistica della lingua egemone cercando di sviluppare e mantenere intatta la loro lingua nazionale. Nella suddetta ottica, i traduttori giocano un ruolo centrale: questi sono chiamati a trovare in tutte le aree di ricerca un termine corrispondente che non si pieghi al prestito linguistico ma che stabilisca, ancor di più, la differenza. Da chi deve, dunque, partire la politica di rivoluzione linguistica?

 

Proprio dai traduttori: difatti, sono questi ultimi ad avere in mano le armi per attuare una vera e propria rivoluzione nel suddetto campo. Secondo Cronin, il traduttore è predatore e liberatore, nemico e amico. Prendiamo come esempio il caso dell’Irlanda: pare che nel sedicesimo secolo il 90% degli irlandesi parlasse l'irlandese, mentre oggi solamente il 10% lo parla fluentemente, registrando così una mancanza di monoglotti nella suddetta lingua. Per ristabilire l'importanza dell'irlandese, la Ireland Literature, ex Ireland Literature Exchange, fondata nel 1994, ha adottato una politica di traduzione della letteratura irlandese in altre lingue, ma ha fallito nel sussidiare la traduzione di un titolo straniero inglese. Tra le altre organizzazioni che si prefiggono questo obiettivo possiamo fare riferimento anche alla Bord na Leabhar Gaeilge.

 

Per quanto riguarda, invece, il caso della Corsica, la traduzione dell'opera teatrale Knock ou le Triomphe de la médecine avvenuta nel 1989 ha destato particolare scalpore soprattutto in riferimento alle politiche linguistiche e a come queste potessero essere leva di una rivoluzione storico-sociale. La traduzione in corso fatta dallo scrittore e traduttore corso Jean-Joseph Franchi ha nuovamente messo sotto i riflettori la questione delicata della resistenza corsa al dominio culturale e linguistico francese. Come afferma Alexandra Jaffe «Per un qualsiasi scrittore corso, qualsiasi scelta creativa nel processo della scrittura è anche una scelta di presa di posizione politica e ideologica sulla natura dell'identità corsa». In particolare, nel contesto corso la traduzione assume una duplice importanza: rende accessibile il prodotto per la popolazione locale e assume un rilievo politico, ideologico e culturale importante. Jaffe pone l'accento sulla questione della diglossia nel contesto corso, dove la lingua francese è utilizzata nel pubblico, mentre il corso è relegato al contesto familiare e informale. Per attuare una vera sovversione e rivoluzione dei ruoli è necessario che questa situazione venga completamente ribaltata in quanto, come spiega Alexandra Jaffe, «scrivere in corso gioca il ruolo simbolico di destituire l'esclusivo dominio francese nel campo letterario, nella sfera pubblica e contesti ufficiali». La rivoluzione, infatti, non si può ottenere solo su un piano orale, ma rimane come traccia indelebile solo se attuata in forma scritta.

 

In conclusione, la lotta tra lingue minoritarie e lingue maggioritarie si combatte su vari fronti: dal campo dell'informatica, al campo dei mezzi di comunicazione di massa, al campo letterario. Negli ultimi anni, i tentativi di sovvertire quest'ordine sono stati diversi e, in particolare, hanno riguardato quelle culture che sono cresciute all'ombra di grandi Stati. Inoltre, la strategia della difesa – ovvero la strategia della resistenza del parlante all'intromissione di termini stranieri nella propria lingua – non è sembrata una soluzione efficace, bensì una forma di resistenza soltanto passiva. Per evitare che un pallido "se" si trasformi in rimpianto, in riferimento al caso corso, ma applicabile a qualsiasi lingua minoritaria, la risposta della traduzione deve essere una risposta attiva. In altre parole, essa deve presentarsi come «un modo per mostrare fiducia nei confronti della lingua e identità corsa comportandosi come se fosse una lingua di potere», sostiene Alexandra Jaffe. A livello macrosistemico, nel contesto degli studi sulla traduzione, si parla della metafora del vetro per spiegare la sua doppia essenza di trasparenza e riflesso: la trasparenza che assorbe l'influsso e lo assimila, adattandolo alla propria lingua; e il riflesso che lo rigetta, lo mantiene straniero. All'interno del sistema, sembra opportuno che il lavoro del traduttore si attui al livello del diafano, mantenendo quell'equilibrio di mezzo tra ricezione e riflessione.

 

 

Per saperne di più:

Per un ulteriore approfondimento si consiglia la lettura dei seguenti saggi: Michael Cronin, The Cracked Looking Glass of Servants: Translation and Minority Languages in Global Age, in Mona Baker (edit. by), Critical Readings in Translation Studies, New York, Routledge, 2010; e Alexandra Jaffe, Locating Power: Corsican Translators and Their Critics, in Mona Baker (edit. by), Critical Readings in Translation Studies, New York, Routledge, 2010. Inoltre, per quanto riguarda il campo degli studi di traduzione, si consiglia il seguente testo: Jeremy Munday, Introducing Translation Studies: Theories and Applications, New York, Routledge, 2016.

 

Note: tutte le traduzioni presenti nell'articolo sono di chi scrive.

 

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Il percorso di presa di coscienza del sé in età infantile – What Maisie Knew di Henry James

«She took refuge on the firm ground of fiction, through which indeed there curled the blue river of truth» scrive Henry James in What Maisie Knew (1897). Il romanzo segue il percorso di formazione della piccola Maisie: dal punto di vista di una bambina si osserva lo scorrere degli eventi, primo tra tutti il divorzio dei suoi genitori, Beale e Ida Farange. Lontano dalle atmosfere fantastiche e incantate dei racconti per bambini, il romanzo è destinato agli adulti. Infatti, si concentra sulla discussione di tematiche contemporanee, spinose nell'America di fine Ottocento: i temi trattati dall’autore sono il divorzio, la mancata responsabilità genitoriale, l’educazione e l'istruzione del bambino, mettendo sempre in questione le responsabilità del genitore nei confronti del bambino.

 

A una prima lettura, l'opera di Henry James sembra rientrare perfettamente nel genere del romanzo di formazione: il lettore sembra seguire i momenti più salienti e critici della maturazione della bambina. A una lettura più attenta, però, è possibile accorgersi di come la situazione presentata sia di gran lunga più complessa. Non si tratta, infatti, della maturazione – se di maturazione è possibile parlare – di Maisie,  ma di quella dei suoi genitori; in tutto il romanzo appare chiaro come la comprensione degli errori commessi non si verifichi in Maisie, ma proprio nei suoi genitori. Di conseguenza, si tratta di una maturazione genitoriale, in cui entrambi i genitori, alla fine del romanzo, capiscono davvero la loro incapacità e irresponsabilità nell'accompagnare la figlia nella crescita. Dopo aver condiviso la custodia di Maisie per periodi di sei mesi ciascuno, Beale e Ida Farange capiscono di non essere in grado di gestire la sua educazione e decidono così di affidarla all’istitutrice Mrs Wix.

 

Appare, quindi, evidente come Maisie non viva una maturazione personale, ma la veda scorrere davanti ai suoi occhi. Alla luce della suddetta affermazione, Maisie “legge” gli eventi così come farebbe un lettore esterno leggendo il romanzo, osserva la realtà degli adulti e cerca di decifrarla con il suo sguardo di bambina. A lei si presentano diversi personaggi: Maisie conosce Sir Claude, un uomo elegante, che rivela però un carattere debole e sottomesso alle figure femminili; Miss Overmore – che diventerà Mrs Beale dopo il matrimonio con il padre di Maisie – una donna molto sensibile al fascino maschile tanto che, dopo il divorzio con il signore Beale, intraprende una relazione anche con Sir Claude; Mrs Wix, seconda istitutrice di Maisie, che rappresenta l’unica figura con la quale la bambina si troverà in sintonia. Maisie stabilisce con loro dei rapporti sociali, minacciati da una serie di avvenimenti (le nuove relazioni sentimentali dei genitori, il rapporto di astio reciproco che intercorre tra i due, le continue richieste di trasferimento), ed è proprio quando queste relazioni sembrano stabilizzarsi che questo (dis)equilibrio relazionale tende a spezzarsi: quando Sir Claude e Miss Overmore intraprendono una relazione sentimentale, questo fatto porta nuovamente disordine nella sfera affettiva di Maisie.

 

È proprio su questo punto che si concentra l'attenzione dello scrittore: nel corso della narrazione, Henry James pone al centro del romanzo un’aspra critica nei confronti della società e, soprattutto, nei confronti degli adulti. Il divorzio ha ridisegnato le possibilità di mobilità degli adulti nella società: i legami all'interno della famiglia, prima incorruttibili e indissolubili, ora risultano non essere così definitivi come si credeva. Nell'America di fine Ottocento, questa possibilità viene interpretata come illimitata libertà di stabilire e dissolvere legami pseudo-stabili. Tuttavia, se da un lato è vero che giuridicamente il divorzio è accettato, dall’altro lato questo non legittima i genitori a sottoporre il bambino a continui cambiamenti emotivi, potenzialmente nocivi per la crescita del bambino stesso.

 

Con questo romanzo, Henry James intende criticare il mondo degli adulti, richiamare l'attenzione su quei soggetti che, pur non essendo colpevoli, subiscono più di tutti. Premendo proprio sulla potenza aggressiva del divorzio, James non ragiona sul tema in sé, ma sugli effetti che esso può determinare: il divorzio sfiora i genitori per colpire invece direttamente l'animo del bambino, che vede nella famiglia il nucleo centrale delle sue certezze, la prima comunità con cui si trova a interagire e nella quale crescere. Il bambino è dunque esposto a uno scombussolamento psicologicamente forte e potenzialmente devastante.

 

Ed è proprio il bambino (nel romanzo Maisie) a rivelare la verità di fondo. L'analisi dei personaggi conduce il lettore alla scoperta di una verità che non emerge dalle azioni della protagonista, ma dal suo sguardo. Lo sguardo interpretativo di Maisie agisce sul lettore, che legge la storia attraverso le sue lenti colorate. Come scrive Walter Isle: «Maisie's structural role is that of the center of consciousness, the point-of-view character», affermando, di conseguenza, che l'intenso percorso di formazione di Maisie non raggiunge una maturazione, bensì una presa di coscienza: durante tutto il racconto «Maisie sees more than she understands of her experience».

 

Tutti i nodi verranno al pettine nel finale quando, alla Maisie ormai adolescente, tutto apparirà più chiaro e limpido per risolvere l'enigma della sua infanzia. Dopo le varie esperienze vissute, Maisie ha ottenuto gli strumenti per decodificare il linguaggio e la falsità dietro alcuni comportamenti, le mancate responsabilità e la pretesa di una presunta maturità. Dopo cambiamenti e abbandoni da parte dei genitori biologici, quando infine viene chiesto a Maisie di scegliere dove vivere, se con Sir Claude e Miss Overmore, o solamente con la sua istitutrice, Mrs Wix, è proprio nel momento della scelta che Maisie osserva con sguardo critico e mette a fuoco il mondo degli adulti con gli stessi occhi di quando era bambina: sarà proprio allora che completerà la sua presa di coscienza, vera e profonda, vissuta e sentita, sofferta e desiderata. «"Oh I know!" the child replied. Mrs Wix gave a sidelong look. She still had room for wonder at what Maisie knew».

 

 

Per saperne di più:

Per la lettura, si consiglia il testo in lingua originale What Maisie Knew di Henry James, edito dalla Oxford World's Classics. Per la lettura dell'opera in italiano si rimanda al testo Che cosa sapeva Maisie, traduzione di Sergio Baldi e Aldo Celli, edito da Bompiani. Per ulteriori approfondimenti, si consiglia la lettura del testo Experiments In Form - Henry James's Novels, 1896-1901 di Walter Isle, edito dalla Harvard University Press, edizione del 1968.

 

Image by Aaron Burden on Unsplash - CC0 Creative Commons, libera per usi commerciali; attribuzione non richiesta.

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Il confine tra immaginario e immaginifico - The Rime of the Ancient Mariner di Samuel Taylor Coleridge

«It is an ancient Mariner, / And he stoppeth one of three». È lui: il vecchio Marinaio di Samuel Taylor Coleridge, è lui che trascina nel racconto della sua storia le persone che incontra sul suo cammino, è dai suoi «glittering eyes» che vengono attirati gli uomini. Primo testo poetico delle Lyrical Ballads, La ballata del vecchio Marinaio è uno dei più famosi testi poetici del romanticismo inglese.

 

Al contrario di William Wordsworth - un altro importante esponente di questo movimento - che si concentra sul racconto dell'ordinario, Coleridge pone la sua attenzione sul soprannaturale, che riscopre tra immaginario e immaginifico. L’articolo indagherà quale confine flebile si celi dietro l'apparente coincidenza di significato di questi due termini, quale manifestazione poetica essi abbiano nella ballata e da quali personaggi siano rappresentati.

 

Dopo aver avuto “percorsi di vita” differenti in gioventù, Samuel Taylor Coleridge e William Wordsworth si incontrano: entrambi gli autori hanno colto l'entusiasmo, ma anche la successiva delusione e disillusione del Romanticismo francese. Ciononostante, è proprio da queste basi che i due gettano le fondamenta per un movimento letterario di gusto inglese, che lasci da parte le ragioni politiche. Nonostante l'immaginazione fosse la loro Musa ispiratrice, Wordsworth e Coleridge l’hanno interpretata ciascuno in maniera differente.

 

L’immaginazione di Wordsworth scaturisce dall'ordinario: il poeta riporta questa immaginazione al lettore per permettergli di rivivere le sue emozioni. Coleridge, al contrario, vede il profilarsi di un'immaginazione con due sfaccettature: un'immaginazione primordiale che, date le sue caratteristiche di spontaneità e sensorialità, è presente in ogni individuo e che è dettata dalla percezione reale delle cose (il freddo, il caldo, ecc..) e un’altra immaginazione volontaria, ricercata dal poeta e volta all’indagine del "soprannaturale". Di conseguenza, il poeta si ritrova a viaggiare tra gli infiniti mondi dell'immaginare, collettivo e individuale - che appartiene esclusivamente alla sua forza poetica e creativa - determinando così la scissione tra immaginario e immaginifico: l'immaginario che pre-esiste e l'immaginifico che viene creato.

 

Secondo la definizione dell’Enciclopedia Treccani, l'immaginario è inteso come «la sfera dell’immaginazione quale si costituisce e si può riconoscere attraverso i miti, la produzione letteraria e cinematografica, la pubblicità». Questo termine, dunque, si ricollega a una concezione di immaginario legata alle conoscenze culturali preesistenti e insite all'interno di una determinata comunità. In altre parole, l'immaginario riconosce la tradizione di una realtà culturale, i miti tramandati di padre in figlio e i valori collettivi: esso non appartiene a un singolo individuo, ma alla collettività. L'immaginario è, dunque, lo specchio della comunità, che non produce, ma riceve questa eredità di immagini e ne risente l’eco sotto il profilo culturale.

 

Al contrario, l'immaginifico viene creato. Secondo la definizione dell’Enciclopedia Treccani, l'immaginifico porta con sé il significato di «creatore d'immagini, riferito quasi esclusivamente a scrittore o a stile». L'immaginifico scaturisce, dunque, dal singolo, dalla sua forza creativa che lo porta, a volte, a superare il confine del "possibile" e a spingersi oltre. Dal viaggio in mare di una nave che si spinge al di là dell'Equatore e si imbatte in un albatros, la narrazione si sposta verso orizzonti più lontani dall'immaginario collettivo, quali, ad esempio, l'apparizione di una nave fantasma che porta con sé passeggeri come la Morte e la Vita-nella-Morte, due personaggi che si giocano a dadi la vita del Marinaio e del suo equipaggio, e, infine, serpenti marini che si agitano nel mare. Samuel Taylor Coleridge fa scaturire l'immenso mondo di creature e mostri marini che popolano la sua mente di poeta inglese dell'Ottocento. Questa potenza creativa porta l'autore al confine dei mondi, tra il reale, l'immaginario verosimile e l'immaginifico soprannaturale. L'immaginazione di Coleridge segue la direzione della nave del racconto e va dritta verso l'orizzonte, là dove la linea del mare e del cielo si toccano, dove il confine tra immaginario e immaginifico si assottiglia.

 

In un punto particolare del racconto avviene un incontro/scontro metaforico fra immaginario e immaginifico, nel dialogo fra il vecchio Marinaio e un invitato al matrimonio: il primo crea e racconta, il secondo ascolta e riceve. Posti l'uno di fronte all'altro, l’immaginario e l’immaginifico – l'immaginazione collettiva e l’immaginazione individuale – si completano e si compenetrano. La società e l’individuo sono due facce del Romanticismo che si scontrano a più riprese in diversi ambiti, in particolare nell’ambito letterario e politico. Il mondo esterno è rappresentato dalla società, il mondo interno dal poeta ed essi entrano in relazione secondo quello che Attilio Brilli definisce “principio della reciprocità”. Superando la filosofia sensistica e le regole stilistiche settecentesche del Neoclassicismo, la mente del poeta non si limita a percepire ma, scrive Brilli, «ribellandosi al ruolo di inerte ricezione, rivendica quello attivo del percepire e del plasmare essa stessa il mondo che le è d'intorno». La potenza creatrice del poeta diventa, così, arte del disegnare immagini attraverso la scrittura e lo stile: l'immaginifico è la vela della nave che Samuel Taylor Coleridge spiega per solcare mari che vanno oltre l'eredità dell'immaginario collettivo, verso il soprannaturale.

 

Ad ogni modo, l'immaginifico resta forza appena creata e che non smette di ricreare a sua volta: l'immaginifico non è una realtà statica e immodificabile, ma viene accolta all'interno dell'immaginario, che si reinventa e si ricrea. Il vecchio Marinaio è simbolo della forza dell'immaginifico, che viene trasmessa all'invitato al matrimonio, espressione dell'immaginario, attraverso il racconto di una storia circolare a cui l’invitato prenderà parte nel finale con un certo turbamento: «He went like one that hath been stunned, /And is of sense forlorn: / A sadder and wiser man, / He rose the morrow morn» (Se n'andò come chi sia stordito, / caduto fuori dai sensi: / e più triste e più saggio / si levò al mattino seguente).

 

 

Per saperne di più:

La traduzione dei quattro versi finali presenti nella conclusione dell'articolo è da attribuirsi a Tommaso Pisanti. Per approfondire l'argomento, si consiglia la consultazione del testo: David Daiches, A Critical History of English Literature, vol. III, Bungay, Richard Clay (The Chaucer Press) Ltd, 1983. Come testi di riferimento sono stati usati: l'edizione curata da Tommaso Pisanti, con testo originale a fronte, La Ballata del vecchio Marinaio e altre poesie, Roma, Tascabili Newton, 1995 e Ballate liriche, traduzione a cura di Attilio Brilli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1979. Si consiglia la lettura integrale delle Lyrical Ballads per immergersi completamente nelle forme e suggestioni di questo movimento letterario ai suoi primi albori.

 

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Un'esistenza rotta. Mrs Dalloway di Virginia Woolf

«Mrs Dalloway said she would buy the flowers herself», così si apre una delle opere più significative della letteratura inglese del Novecento: Mrs Dalloway di Virginia Woolf. Il leitmotiv di questo romanzo sono le pressioni della società sull’individuo, che vanno a perturbare l’equilibrio interiore del singolo e comportano una frattura dell’io. La storia narrata è il racconto di un’esistenza spezzata, forse in parte autobiografica, racchiusa nell’arco di una giornata. La protagonista, Clarissa Dalloway, apre le danze acquistando un mazzo di fiori per la festa che darà la sera.

 

Questi fiori diventano il simbolo della sua progressiva consapevolezza interiore nei confronti del carattere opprimente di queste pressioni sociali. Infatti, la sua vita, seppur apparentemente serena, le si rivelerà svuotata di significato, come dei fiori ormai appassiti. Chi è, dunque, la vera Clarissa? Come e quanto ha agito il peso della società sulla sua vita? Come si risolve la contrapposizione tra armonia e distruzione dell'io in questo importante romanzo inglese del Novecento?

 

Clarissa conduce una vita tranquilla e conforme alle convenzioni sociali dell'epoca vittoriana. La società prevedeva, infatti, che una donna di una determinata classe sociale andasse in sposa a un uomo dello stesso rango, ed è per questo motivo che Clarissa diventa la signora Dalloway, moglie del signor Richard Dalloway, un uomo di governo. Ottempera ai propri doveri sociali, ma a causa di un matrimonio "dovuto" e "voluto" dalle norme sociali conduce una vita sentimentale complicata.

 

Dopo aver percorso tutte le tappe necessarie per realizzarsi in società, Clarissa non riesce a identificarsi con la "signora Dalloway": percepisce il matrimonio come una conquista vuota, una realizzazione che, sotto il profilo personale, non la soddisfa. L'artificialità delle richieste sociali la intrappola in una vita in cui non si riconosce, ne è prova la percezione che ha degli avvenimenti mondani, che le appaiono svuotati di significato. Clarissa finisce dunque per esistere, piuttosto che vivere. L'organizzazione di una festa e l'incontro con il passato, tra amici e vecchie conoscenze, rappresentano l’assaggio di una vita più autentica, che lascia però un retrogusto amaro: è la vita che ha sacrificato, preferendone una più tranquilla e "normale", regolata e conforme alle norme sociali.

 

Nonostante lei riesca a non lasciar trasparire questi suoi pensieri, Clarissa si sente comunque sola in mezzo alla gente e ai suoi invitati. Soltanto alla fine della giornata torna a sentirsi di nuovo viva: l'incontro con un altro personaggio, Septimus Smith, e la notizia del suicidio di quest'ultimo la scuotono nel profondo e le permettono di riscoprire sensazioni a lungo sopite. Come Clarissa, Septimus Warren Smith, si sente prigioniero della società, che esercita su di lui un potere frustrante. Dopo essersi sposato con Lucrezia, Septimus ha perso ogni contatto con la realtà e vive all'interno del suo mondo interiore. Secondo lo psichiatra Sir William Bradshaw, il modo migliore per curare l’esaurimento nervoso di Septimus sarebbe quello di farlo ritornare nella sua città. Purtroppo, però, sarà proprio questo ritorno e la costringente necessità di conformarsi alle convenzioni sociali che lo porteranno al suicidio, che rappresenterà per lui l’unico modo per evadere da quella prigione sociale.

 

Il suo suicidio costituisce la causa ultima del cosiddetto moment of being di Clarissa. Infatti, al contrario di quanto accade per la protagonista, i convitati alla festa si limitano a considerare il suicidio di Septimus come uno spunto conversazionale come tanti altri. Per questo motivo, Clarissa nota ancora di più il distacco che la allontana dalla società, dalle persone che ne fanno parte, e sperimenta quindi la piena realizzazione del suo essere, il suo momento di vita. In altre parole, Clarissa avverte la scissione della sua esistenza: la vita mondana della signora Dalloway, tipica dell'alta società inglese, e la vita di Clarissa che, nell'arco di questa giornata, rivive le memorie del passato, ponendosi domande esistenziali sul presente e sul futuro.

 

Septimus non è l’unico personaggio a risvegliare questi pensieri nella protagonista: per tutto il romanzo Clarissa incontra frammenti di proiezioni di un suo possibile vissuto, che la portano, nel finale, a realizzare il suo moment of being, la sua piena realizzazione e accettazione di sé. Clarissa smette di esistere e comincia a vivere, ristabilendo l’armonia del suo io.

 

In questa combinazione di passato, presente e futuro si percepisce che l’indole di Clarissa è vicina a quella di Septimus, il quale, come suggerisce Sergio Perosa, «si muove [...] fra la stanca proiezione verso un futuro che egli rifiuta e le aperture improvvise, i terribili abissi che si aprono nel suo ricordo». Entrambi sperimentano la frattura profonda tra la vita "autentica" e la vita sociale, colma di costrizioni e convenzioni che limitano l'espressione dell'io, ed è in questo incontro-scontro che le proprietà dei due protagonisti si richiamano anche a quelle dell'autrice dell'opera.

 

Infatti, la protagonista nascosta dietro la storia è Virginia Woolf. L’autrice attribuisce alla scrittura una funzione che potrebbe essere definita catartica, volta alla liberazione dalle catene che la tengono imprigionata nella società vittoriana. La società di Virginia e la società di Clarissa si riflettono così in modo speculare con le rispettive costrizioni e restrizioni sociali che soffocano e opprimono la loro esistenza. Se Clarissa, al termine della storia, riesce finalmente a liberarsi da quelle catene, andando verso una maggiore consapevolezza e accettazione di sé, ciò non accade, invece, a Virginia Woolf, che non riuscirà nel suo intento. La vita pubblica e la vita interiore, la vita "dell'anima", si scontrano incessantemente, rivelando una disarmonia di fondo che ha il sapore del rimpianto. Tutto il romanzo è pervaso da oggetti che innescano, come «atomi [...] (che) cadono sulla mente», riflessioni sull'incontro-scontro tra il vivere sociale imposto e il vivere dell'essere in libertà.

 

 

Per saperne di più:

Per approfondire l'argomento trattato, si consiglia la consultazione del testo: David Daiches, A Critical History of English Literature, vol. IV, Bungay, Richard Clay (The Chaucer Press) Ltd, 1983. Come libro di base per la redazione dell'articolo è stato usato il testo di Rosa Marinoni Mingazzini, Luciana Salmoiraghi, A Mirror of the times, vol. II, Napoli, Morano Editore, 1992. Inoltre, il saggio di riferimento utilizzato è l'introduzione a cura di Sergio Perosa nella versione del romanzo inglese tradotta da Alessandra Scalero (Virginia Woolf, La signora Dalloway, Cles, Oscar Mondadori, 1984). Riguardo all'opera, è stata utilizzata l'edizione della Grafton Books del 1986 (Virginia Woolf, Mrs Dalloway, London, Grafton Books, 1986). Infine, si consiglia la lettura dell'opera The hours di Michael Cunningham che analizza, approfondisce e riscopre il mondo di Virginia Woolf attraverso la figura di Clarissa Dalloway.

 

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