Il Chiasmo

Matteo Comerio

Matteo Comerio si è laureato in Letteratura italiana contemporanea nel 2017, con una tesi sulle intertestualità virgiliane nei romanzi partigiani di Beppe Fenoglio (da una parte di essa ha ricavato un articolo, in corso di stampa). Attualmente studia Italianistica all’Università di Udine. Nel corso dei suoi studi alla Scuola Superiore, ha approfondito la poesia di Montale, l’opera di Fenoglio e la letteratura pavana. Appassionato di poesia, negli anni del liceo si era cimentato nella scrittura, ma la maggiore età e un briciolo di saggezza gli hanno suggerito di smettere.

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L’«armonia del mondo» secondo Leo Spitzer

Che cos’è l’“armonia del mondo”? E come è stata espressa dalle varie lingue europee nella storia? Quale percorso ha compiuto questo concetto dalle origini della cultura occidentale sino alla modernità? Se lo chiedeva quasi ottant’anni fa uno dei più grandi studiosi novecenteschi di linguistica e stilistica, Leo Spitzer (Vienna 1887 - Forte dei Marmi 1960), in un libro divenuto celebre: Classical and Christian Ideas of World Harmony, uscito postumo nel 1963 (ma preceduto da due articoli preparatori dati alle stampe negli anni Quaranta) e tradotto in Italia nel 1967, con il titolo L’armonia del mondo. Storia semantica di un’idea.

 

Si tratta di una lettura affascinante, ma complessa: poco meno di trecento pagine, in cui il grande linguista viennese si interroga in cinque capitoli sulla nascita dell’idea di Stimmung, di “armonia del mondo”, prima da un punto di vista concettuale, e quindi, dal capitolo IV, sui «fatti linguistici in se stessi» – cioè sulle realizzazioni scritte di questa nozione. Ripercorrere l’intero percorso in questo spazio sarebbe ancora più complicato, perciò proviamo a considerare solo qualche esempio dei modi in cui l’idea in questione è stata trasmessa, fino alla modernità, in alcuni testi letterari di fama mondiale: così facendo ci sarà più facile comprendere il metodo e le finalità di Spitzer.

 

Il primo esempio ci riporta al Medioevo. Nel canto XXX del Purgatorio, dopo che il carro trionfale ha fatto la sua comparsa nel Paradiso terrestre, Beatrice appare «proterva» a Dante e gli rivolge severi rimproveri; se quest’ultimo riesce a riprendersi dal rimorso che sta per sopraffarlo, è grazie all’intercessione degli angeli (vv. 91, 94-99):

 

così fui sanza lacrime e sospiri […];

ma poi che ’ntesi nelle dolci tempre

lor [= gli angeli] compatire me, più che se detto

avesser: «Donna, perché sì lo stempre»,

lo gel, che m’era intorno al cor ristretto,

spirito e acqua fessi, e con angoscia

de la bocca e de li occhi uscì del petto.

 

Tra i vocaboli in rima, fissiamo l’attenzione sulla coppia tempre-stempre: il primo verbo proviene da “tempra”, con il significato di “accordi, armonie”, “accordi di suoni”, e “stemprare”, che è il suo contrario, vale invece "struggere, consumare". Dante vuole dirci che la severità di Beatrice ha avuto il potere di escluderlo da qualsiasi rapporto armonico con ciò che lo circondava, e che da questa situazione ha potuto riscattarsi solo per effetto delle «dolci tempre» degli angeli, vale a dire grazie al loro canto benefico. In questo passo della Commedia, quindi, come in tanti altri testi letterari delle più diverse epoche che Spitzer cita nel suo libro, l’accordo dell’individuo con il mondo e l’armonia del Creato sono veicolati dal gruppo di parole che fa capo al verbo temperare (e ai suoi derivati). Ma questo – ci ricorda lo studioso viennese – non è l’unico modo in cui il concetto di “armonia” ha potuto essere espresso.

  

Il secondo esempio ci fa avanzare nel tempo di tre secoli. Nella prima scena dell’atto V del Mercante di Venezia di Shakespeare, ci imbattiamo nuovamente nell’idea in questione, tematizzata però attraverso una diversa scelta lessicale. Ma leggiamo il testo. Lorenzo, innamorato di Jessica, figlia dello spietato Shylock, le sussurra al chiaro di luna:

Questa soave calma e la notte ben s’addicono agli accenti della più squisita armonia. […] Nemmeno la più piccola stella fra quelle che tu contempli s’astiene, nel suo moto, dal cantare come un angelo, in perpetuo accordo con i cherubini dallo sguardo eternamente giovane.

Entrano dei musicanti, ma la ragazza è in un primo momento refrattaria all’incanto delle loro melodie; Lorenzo la invita allora a lasciarsi trascinare da esse, mettendola in guardia:

«Colui che non può contare su alcuna musica dentro di sé, e non si lascia intenerire dall’armonia concorde di suoni dolcemente modulati, è pronto al tradimento […]. E ora fa’ attenzione alla musica».

Il testo inglese parla significativamente di «concord of sweet sounds», esprimendo quindi il concetto di “armonia universale” mediante una famiglia verbale diversa rispetto a quella del termine “temperare”: quella che si fa ricondurre al termine latino concordia, e che nelle lingue romanze ha dato vita al diffusissimo *accordare. È ancora il Purgatorio di Dante a darcene esempio quando, all’inizio del canto XVI, vv. 19-21, viene descritto il coro degli spiriti iracondi, armonioso perché intonato in modo unitario:

 

Pur Agnus Dei eran le loro essordia [= gli inizi dei loro canti];

una parola in tutte era ed un modo,

sì che parea tra esse ogne concordia.

 

Grazie a questi percorsi testuali abbiamo toccato con mano il modo di procedere di Spitzer: il suo sguardo si volge dalle origini della cultura occidentale (i pitagorici, gli autori greci, latini, cristiani) sino alla modernità (ad esempio Goethe), passando per Dante, Shakespeare, Tasso, Milton. E la ricerca è costantemente condotta sul doppio binario della storia delle idee e della storia linguistica.

 

Ma a questo punto possiamo chiederci: cosa doveva significare, per un intellettuale come Spitzer, porsi questi quesiti nel pieno imperversare della seconda guerra mondiale, con alle spalle la fuga dalla Germania nazista a Istanbul, nel 1933, e di lì negli Stati Uniti, nel 1936? È lo stesso autore a rispondere, nello svolgimento del capitolo IV dell’Armonia del mondo: dopo aver fissato il proprio oggetto di studio sulle «due principali famiglie verbali» costituite da «temperare e *accordare», e dopo averne accertato la tenuta nella longue durée della cultura europea, il ragionamento raggiunge una provvisoria, ma fondamentale acquisizione: l’unità e la solidarietà delle culture d’Europa nelle modalità d’espressione dell’«armonia universale».

 

Per dirla con le parole dell’autore, ciò che viene affermato è la «continuità della tradizione patristica, medievale e rinascimentale, nonché l’effettivo parallelismo riscontrabile nella contemporanea poesia romanza». Le prove non mancano: nel canto XVI della Gerusalemme liberata, per esempio, Spitzer sa ravvisare l’«agostiniana equazione amore=ordine=musica», così come nel Riccardo II di Shakespeare lo studioso è capace di scorgere legami con l’alto e il basso Medioevo di Agostino e di Dante, ma anche affinità con le antiche teorizzazioni di Archita e di Cicerone sull’«ordine politico e ordine musicale […] interdipendenti». E nella sua sintesi fitta e concentratissima, Spitzer non manca di mettere a frutto, all’occorrenza, la sua sensibilità di filologo (quando, dall’analisi del testo di At a Solemn Music di John Milton, affianca uno sguardo sulle varianti d’autore), e di filologo romanzo: penso alle pagine sul genere del discordo provenzale (un tipo di componimento caratterizzato dal cambio di metro e melodia da strofa a strofa), interpretato dal critico austriaco come canto «fuori tono», un’«opera d’arte in apparenza disordinata» e in realtà tutta calibrata su una «disarmonia voluta dall’armonia». Ma tutti questi riferimenti, sviluppati singolarmente, richiederebbero troppo spazio: è sufficiente, per il momento, aver dato un ulteriore assaggio delle direzioni in cui si muove l’indagine di Spitzer.

 

Il nostro sguardo, guidato attraverso la letteratura italiana, francese, spagnola, inglese, si mantiene così entro i confini di un’«ininterrotta tradizione linguistica», di un’unica «storia semantica». Ne risulta un percorso tanto affascinante quanto stimolante: perché se, in un primo momento, la disarmante varietà delle citazioni sembra esaurire tutti i possibili rimandi, talvolta resta invece lo spazio per qualche integrazione, vale a dire per una collaborazione attiva del lettore. A chi si interessa di poesia italiana, per esempio, leggendo che dietro la parola concordia si cela il rimando a «cor, cordis “cuore” […], ma anche a chorda “corda”», e che quindi la parola richiama «sia “un consenso di cuori, pace, ordine” […], sia “un’armonia di corde, l’armonia universale”», non può non sorgere spontaneo il ricordo di uno dei componimenti d’apertura degli Ossi di seppia di Eugenio Montale, Corno inglese, dove la condizione disforica del soggetto – cioè l’ineluttabile disarmonia, il disagio esistenziale dell’Io lirico nei confronti del mondo che lo circonda – è comunicata da una metafora (vv. 14-18) che rientra, appunto, nel campo lessicale della concordia, ma che riunisce in se stessa entrambi i poli di significato ricostruiti da Spitzer:

 

[…] il vento che nasce e muore

nell’ora che lenta s’annera

suonasse te pure stasera

scordato strumento,

cuore.

 

Vale la pena di ricordare, inoltre, che questa lirica degli Ossi è stata recuperata, da Montale, da una precedente raccolta di sette testi, stampata nel 1922 su rivista e significativamente intitolata, non a caso, Accordi.

 

Continuità, unità, tradizione, dalla cultura cristiana alla poesia del Novecento: il filo rosso, linguistico e concettuale, dell’«armonia universale» funge insomma da straordinario collante fra le più disparate sponde delle letterature d’Europa. E Spitzer non era il solo a riflettere sul legame che ancora legava il mondo occidentale alle proprie origini, nell’imminenza della Seconda guerra mondiale.
Nel 1929, ad esempio, moriva ad Amburgo il noto storico dell’arte Aby Warburg (n. 1866), lasciando incompiuto il suo Mnemosyne Bilderatlas, l’«atlante della Memoria»: in esso, Warburg aveva iniziato a raccogliere tavole e immagini di diverse epoche, che dimostrassero come certe strutture fisse delle emozioni fossero capaci di propagarsi, nello spazio e nel tempo, attraverso le arti figurative, in perfetta continuità. Nel 1960, spegnendosi a Forte dei Marmi, l’«emigrato esterno» Spitzer (l’espressione è di Roberto Antonelli) lasciava incompiuto il libro che seguiva queste orme. Non solo, ma in una direzione del tutto simile si erano orientate le ricerche di un altro grande intellettuale tedesco, Ernst Robert Curtius (Thann, Alsazia, 1886 - Roma 1956). Nella sua opera monumentale, Letteratura europea e Medio Evo latino (pubblicato a Berna nel 1948, all’indomani del disastro della guerra), Curtius aveva setacciato la letteratura occidentale per individuarvi alcuni nuclei permanenti che, fissatisi nell’antichità greco-romana, sarebbero stati tramandati alla modernità dalla cultura latina medievale.
Non molto diverso quanto alla finalità complessiva, infine, era stato anche Mimesis di Erich Auerbach (Berlino 1892 - New Haven, Connecticut, 1957), uscito nel 1946, il cui campo d’indagine si estendeva dalla Genesi e da Omero fino al modernismo di Virginia Woolf e Marcel Proust.

 

Abbiamo visto, quindi, quanto l’Armonia del mondo di Spitzer sia solidale con l’orientamento culturale dei più grandi studiosi tedeschi della prima metà del Novecento: dal punto di vista non solo intellettuale, ma anche biografico, se è vero che sia Auerbach che Spitzer condivisero infatti la sorte dell’esilio a Istanbul e poi in America, unica alternativa possibile alla Germania nazista.
Quando la disgregazione dell’Europa neolatina sembrava imminente e il «tramonto dell’Occidente» pareva sul punto di realizzarsi, i maggiori accademici tedeschi reagirono opponendo l’integrità della cultura alle rovine della Storia. Tra di essi, in particolare, Leo Spitzer ci ha lasciato in eredità il proprio studio sulla World Harmony, concepito, come ha notato Corrado Bologna, «proprio nel momento in cui la frattura fra nazioni sembrava […] infrangere per sempre un’ormai del tutto virtuale e utopica armonia del mondo».

 

 

Per saperne di più:

L’edizione italiana di riferimento è L. Spitzer, L’armonia del mondo. Storia semantica di un’idea, trad. it. di V. Poggi, Bologna, il Mulino, 2006: una prima lettura “esplorativa”, specie per i non specialisti, si può svolgere escludendo le note, per seguire il complesso discorso di Spitzer senza interruzioni o sovrabbondanza di rimandi. Utile a comprendere il clima culturale in cui hanno operato Curtius, Spitzer e Auerbach, con interessanti precisazioni sulle differenze di metodo e di pensiero dei tre intellettuali, è il saggio di R. Antonelli, Filologia e modernità, premesso a E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, trad. it., Firenze, La Nuova Italia, 1992 (il volume, da tempo fuori commercio, si trova facilmente nelle biblioteche): a tali pagine, e all’introduzione di C. Bologna al volume di Spitzer, intitolata Storia semantica di un titolo, questo articolo deve molto.
L’asterisco preposto a *accordare è intenzionale: in questo modo Spitzer indica, come si usa in linguistica, una forma non attestata ma ricostruibile in linea teorica.

 

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La "frontiera" di Vittorio Sereni: tra confine politico e confini nell’Io

Verso la fine del febbraio 1941 appare, per le edizioni della rivista «Corrente», fondata tre anni prima a Milano da Ernesto Treccani, la prima raccolta poetica di Vittorio Sereni (Luino, 1913 - Milano, 1983). Il libretto, intitolato Frontiera (1935-1940), è stampato entro la collana di poesia curata da Luciano Anceschi, che era stato compagno di studi di Sereni all’Università di Milano; l’opera comprende, in tutto, ventisei poesie, composte a partire dal 1935 e ripartite in tre sezioni numerate.

 

Un anno più tardi, nel dicembre 1942, esce una seconda edizione della silloge, per i tipi del ben più noto editore fiorentino Vallecchi, con alcune modifiche strutturali che riguardano, da un lato, la composizione interna, con l’aggiunta di due poesie nelle tre sezioni già esistenti e di un’intera nuova sezione, composta di quattro liriche; dall’altro lato, viene ritoccato il titolo: rispetto a Frontiera, «diletto ma troppo preciso», Sereni opta per quello più «generico e antologico» – come lui stesso afferma nella nota introduttiva – di Poesie, perché «era necessario assicurargli [al libro] una veste più duratura che fosse anche – eventualmente – definitiva».

 

Questa urgenza si deve alle inquiete circostanze biografiche del momento: già nel 1940 Sereni era stato inviato al fronte francese (a Garessio, in provincia di Cuneo); quindi, nell’inverno 1941-1942, era passato a Bologna, in attesa di unirsi alla Divisione Pistoia; nel 1942 era stato trasferito in Grecia, da dove la Divisione avrebbe dovuto raggiungere il fronte africano; nell'ottobre dello stesso anno, infine, lui e i suoi compagni erano stati provvisoriamente ricondotti in Italia. Si capisce allora perché la Nota premessa affidasse le Poesie «alla cordiale memoria degli amici», da parte di un uomo in procinto «di andare lontano e di mettere in gioco le proprie sorti di creatura», con parole presaghe, si direbbe, della drammatica prigionia patita dall’autore in Algeria e in Marocco negli ultimi due anni della guerra (24 luglio 1943-28 luglio 1945).

 

Seguono altre celebri raccolte: il Diario d’Algeria (1947) e, soprattutto, Gli strumenti umani (1965), vero punto di svolta della carriera poetica dell’autore, così determinante da imporgli una sostanziosa risistemazione di quanto scritto fino ad allora.

 

Nello stesso ’65, per Mondadori, vede la luce una nuova edizione del Diario, mentre, nel 1966, con la restaurazione dell’antico titolo, viene pubblicata la ristampa riveduta di Frontiera (Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro). I testi ammontano ora a 39, organizzati in quattro sezioni: Concerto in giardino, Frontiera, Versi a Proserpina e Ecco le voci cadono. Di queste, la prima ingloba le sezioni I e II delle precedenti Poesie del ’42, pure riordinate secondo un più fedele criterio cronologico; la terza propone parte di un’inedita silloge composta in gioventù (inclusi i due testi giovanili, La sera invade il calice leggero e Te n’andrai nell’assolato pomeriggio, che erano già stati inseriti nel Diario d’Algeria del 1947), quasi per la volontà, da parte di Sereni, di dar conto di tutte le fasi della propria maturazione poetica. Significativamente, l’unica partizione a non aver subìto modifiche nell’edizione del 1966 (salvo la rimozione dell’ultimo testo, Ecco le voci cadono e gli amici…, collocato da solo nella sezione finale eponima) è proprio quella centrale, che per la seconda volta si incarica di prestare il nome all’intero libro: Frontiera.