Il Chiasmo

Lucia Copparoni

Redattrice (novembre 2020 - in corso)

Lucia Copparoni è allieva al primo anno della Scuola di Studi Superiori Giacomo Leopardi e studia Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Macerata. Fin da piccola coltiva la passione per la scrittura e nel tempo ha conseguito alcuni premi e riconoscimenti per le sue produzioni (Concorso Internazionale di Poesia e Teatro Castello di Duino, Concorso Nazionale Letterario «Riviera Adriatica», Premio Internazionale di poesia e narrativa «Poesia Onesta»). Ama immergersi nella lettura di Calvino, Leopardi e Pavese e negli studi futuri intende focalizzarsi sugli autori del secondo Novecento. Nel tempo libero si dedica alla sua altra grande passione, l’equitazione. Non saprebbe mai rinunciare a stare in mezzo alla gente, a ridere e a sorridere.

Pubblicazioni
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E poi saremo salvi. Conversazione con Alessandra Carati

 

E poi saremo salvi (Mondadori, 2021) è una storia di guerra e di famiglia, di malattie, dolori, speranze di salvezza e rinascite. All’inizio del romanzo, Aida è una bambina che fugge con la famiglia dalla guerra in Bosnia e che si trova a doversi costruire una nuova vita in Italia. In un ponte continuo tra le due nazioni si svolgono le vicende e le emozioni del romanzo: la nascita del fratello di Aida, Ibro, l’apprendimento di cosa significhi essere esule, accettare un destino, abbandonare lo stato di sopravvivenza per abbracciare la vita.

Andrea Vitali così presenta impeccabilmente il primo romanzo di Alessandra Carati: «La storia che narra è una catena priva di anelli deboli o se si preferisce un rosario laico dove ciascun grano va tenuto tra le dita il tempo necessario per meditare ciò che gli spazi bianchi lasciano intendere. Il lettore goloso di novità vi trova di che soddisfare il suo appetito, il neofita potrebbe usare E saremo salvi come viatico per entrare con stupore nel mondo in cui una penna riesce a raccontare il bello e il brutto della vita, i ricatti dei sentimenti, la necessità dell’egoismo quando si sta per affogare. Anche la pace di chi riesce a salvarsi pagando il debito di scelte inevitabili destinate a diventare cicatrice dell’anima».

 

Alessandra Carati è la quinta ospite della rubrica L'ora dello Strega, una serie di conversazioni settimanali incentrate sui dodici libri candidati alla LXXVI edizione del premio.

 

 

Lucia Copparoni: E poi saremo salvi è un romanzo d’esordio, già vincitore del premio Opera prima per il Viareggio-Rèpaci 2021, per cui immagino che la selezione allo Strega si inserisca in una fitta rete di emozioni.

Alessandra Carati: Questo romanzo mi sta restituendo letture commoventi e regalando grandi soddisfazioni. Ciò che più ripaga, al di là dei premi, è il fatto che la comunità dei lettori e quella editoriale riconoscono valore al libro. Tra l’altro, è stato scelto dall’Istituto Italiano di Cultura di Amburgo per rappresentare l’Italia al Festival di Kiel, a cui partecipano scrittori ed editor da tutta Europa. Niente è mai scontato quando si tratta di editoria ogni scrittore lavora in solitudine tentando di fare del suo meglio e non sempre si ha una risposta nell’immediato. 

 

LC: Per quanto tempo hai lavorato al romanzo?

AC: A fondamento del romanzo, tra il 2008 e il 2016, c’è stata una lunga raccolta di materiale e contemporaneamente di frequentazione di una comunità bosniaca in Italia. La prima stesura risale al 2016 e poi da lì ci sono state progressive riscritture fino ad arrivare alla forma attuale.

 

LC: Quindi prima della collaborazione con Nardi.

AC: Il lavoro con Daniele Nardi è stato una prova del fuoco, dura e segnante per via delle vicende. Il progetto era partito insieme e così pensavamo si sarebbe concluso – insieme -, invece la vita è diventata più forte di tutto e ha rischiato di travolgerlo, polverizzarlo. Eppure Daniele era stato previdente, aveva fissato un ancoraggio – l’email con cui mi chiedeva di portare a termine il lavoro – che disegnava una direzione chiara e mi sosteneva. E poi saremo salvi mi ha dato il tempo di ascoltare, di riflettere, di contemplare, di lasciare che il dolore dei personaggi arrivasse a toccarmi in profondità, senza sopraffarmi. È un libro paradossalmente più dolce, meno strappato. È un libro sulla dolenza e sulla solitudine.

 

LC: La storia di E poi saremo salvi è carica di ferite profonde. Come sei riuscita a restituirle?

AC: Durante tutta la stesura del libro, mi sono spesso interrogata su come raccontare la separazione più grande che possa esistere, la morte, che è presente nella sua espressione più caotica, disordinata, crudele e dolorosa – la guerra. Una grande parte di lavoro è consistitita nel trovare una misura per offrire questa esperienza al lettore, in modo tale che non ne fosse né brutalizzato né respinto. A chi incontra il romanzo, chiedo un’apertura verso qualcosa che è scomodo, doloroso, anche lontano da noi.

 

LC: Una lontananza, d’altronde, relativa: viene raccontata la Bosnia di una trentina di anni fa. Il romanzo mi ha commossa: ho viaggiato in Bosnia qualche anno fa e nel tornare ho avuto la sensazione come di esser stata in guerra. L'ho ritrovata nel tuo libro, insieme con tutto ciò che le può stare attorno: l’idea di un ritorno impossibile, la percezione di una volontà di resistere e di sperare, e in particolare quella di una salvezza in senso lato. Anche per questo, il titolo mi sembra azzeccatissimo.

AC: L’anima del libro è proprio questa: la volontà di resistere, la tensione desiderante verso una casa che ormai si è trasferita dalla realtà nel ricordo. Resistenza è la parola che più mi viene in mente quando penso a E poi saremo salvi: la speranza di una salvezza che resta viva nonostante le difficoltà. In queste pagine i personaggi resistono continuamente all’urto delle onde: non c’è un adattarsi lento e dolce, ma una spinta violenta che tentano di contrastare per mantenersi saldi.

 

LC: Infatti ho notato che nella storia, anche nella dimensione familiare, i personaggi rimangono molto soli, pur nell’intrecciarsi delle loro relazioni: ognuno sbatte contro queste onde ogni volta da solo e da solo ogni volta si rialza, forse proprio per lo shock del trovarsi in un luogo altro, con persone altre, diventando essi stessi altri.

AC: La solitudine è un filo che lega questo libeo a quelli che ho cofirmato, La vita perfetta con Nardi e Bestie da vittoria con Danilo Di Luca. In E poi saremo salvi ogni membro della famiglia vive un fortissimo stato di isolamento. Lo shock della guerra è talmente forte da far saltare la condizione fondamentale di qualsiasi relazione, l’ascolto. Ed è ancora più vero per i genitori, che arrivano a mancare al loro compito educativo: non riescono a capire bisogni, difficoltà, desideri di Aida e di suo fratello Ibro. Lo sconquasso che la guerra ha portato nelle loro vite è troppo perché possa essere digerito e trasformato.

 

 

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Di argini e di soglie. Conversazione con Veronica Galletta

 

Nina sull'argine (minimum fax, 2021) è un romanzo “fluviale”: di matematiche e calcoli per domare un corso d’acqua che può causare danno, di fiumi di sentimenti, di flussi di vite sul letto del lavoro. In uno stile che riflette questa condizione, presentandosi “acquatico” e sospeso, Veronica Galletta costruisce una storia in cui i fiumi del romanzo - quello concreto, reale, e quello metaforico dei personaggi - vivono in rapporto ad argini a loro volta fisici e intimi. Caterina “Nina” Formica, la protagonista, è un’ingegnera al suo primo incarico fuori dagli uffici e dalle carte: nell’immaginario abitato di Spina, attraversato da un fiume, è necessario costruire un argine. Nell’intraprendere l’incarico, Nina scopre la fatica, il fango, il sudore del cantiere, il quale diventa metafora anche della sua intimità e vita privata di cui cerca di tenere insieme i pezzi che vanno sgretolandosi.

Come scrive Gianluca Lioni, che ha presentato il romanzo al Premio Strega, «fra le pieghe di un’umanità fatta di politiche contrastanti, ruoli da mantenere, tematiche spinose e abitudini da scardinare, […] Nina scava e riemerge, distrugge e assembla, cercando quell’equilibrio indispensabile per portare a termine un progetto, nel lavoro come nella vita».

 

Veronica Galletta è l'undicesima ospite della nostra rubrica L'ora dello Strega, una serie di conversazioni settimanali incentrate sui dodici libri candidati alla LXXVI edizione del Premio. 

 

 

Lucia Copparoni: La proclamazione della cinquina è alle porte: come sta vivendo l'esperienza del Premio Strega?

Veronica Galletta: Con molta curiosità. In questi mesi sono stati organizzati diversi incontri con il pubblico, che mi hanno permesso di conoscere meglio il mio lavoro, e anche gli altri candidati. Parlare di libri, di film, di serie. Perché questo fanno gli scrittori quando si incontrano: alla fine parlano sempre di libri.

 

LCNina, la protagonista, è una donna volenterosa, a volte insicura, riflessiva, di mestiere ingegnera. Come è nato questo personaggio? Qual è il fascino profondo che l’ha condotta a raccontare l'ingegneria fluviale?

VG: Il personaggio, e quindi il racconto che ne deriva, è nato da un desiderio doppio. Da una parte quella di raccontare la complessità di un certo tipo di lavori, dall’altra l’amore che ho sempre avuto per l’idraulica e l’ingegneria fluviale, il cui fascino principale è rappresentato dalla polisemanticità della parola singola (argine, pressione, depressione), ma anche dalla possibilità di raccontare il mondo delle relazioni e dei sentimenti, facendosi metafora. 

 

LC: Leggendo, si ha la sensazione che l'argine presentato già dal titolo assuma rilevanza non solo fisica, ma anche metaforica. Assocerebbe il tema della solitudine - ugualmente molto presente nel romanzo - a questa doppia natura dell’argine?

VG: L’argine per sua caratteristica intrinseca protegge, ma separa. Mette al riparo, ma toglie la visuale sul resto. Quindi sì, può rappresentare bene la solitudine, forse più di tutto quella autoimposta, in cui ci si struttura barricandosi. Per questo per la mia protagonista, per il suo mondo più intimo, che è rappresentato da Nina - il suo nomignolo -, io immagino una posizione diversa. Sull’argine, a cavallo fra i due mondi, già a partire dal titolo.

 

 

 

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Diventare un altro tramite la scrittura. Conversazione con Claudio Piersanti

 

Nel presentare il nuovo romanzo di Claudio Piersanti candidato al Premio Strega, Renata Colorni scrive: «Anche in questo libro, insomma, così breve e strano, a tratti improbabile per chi non ha dimestichezza con i puri di cuore, una specie di favola dolce e sinistra attraversata da cima a fondo da un brivido allarmante, Claudio Piersanti dà senso e spazio al mistero del silenzio e della solitudine, dimensioni fondative dei rapporti umani. Tutto questo grazie alla raffinatezza del suo intuito psicologico e alle risorse stilistiche innate della sua scrittura, che derivano da una lingua che ha la limpidezza del cristallo e da una straordinaria naturalezza e versatilità espressiva».

Quel maledetto Vronskij è la storia di un tipografo di mezza età, Giovanni, e di sua moglie, Giulia, segretaria e appassionata di giardinaggio. Vivono un amore semplice, racchiuso nei piccoli gesti quotidiani, all’apparenza imperturbabile. Un giorno, però, Giovanni trova un laconico biglietto di Giulia, che lo getterà in un lungo stato di dolore: “non cercarmi (cit)”. Preso dall’afflizione, chiuso nel suo negozio, Giovanni inizia a trascrivere Anna Karenina, con la speranza di farne dono, un giorno, a Giulia. Pagina dopo pagina, nella mente del tipografo compare il fantasma di un Vronskij, incarnazione della gelosia, di ciò che può esservi di marcio e di doloroso in una sparizione inspiegata e in un’attesa dolorosa.

 

Claudio Piersanti è l'ottavo ospite della rubrica L’ora dello strega, una serie di conversazioni con gli autori dei libri selezionati per la dozzina del Premio Strega. Questa intervista è nata al tavolo di un caffè, al termine dell’evento Macerata Racconta.

 

  

Lucia Copparoni: Domanda incipitaria di rito in questa rubrica: come vive il Premio Strega?

Claudio Piersanti: All’inizio non avrei nemmeno voluto partecipare, perché mi sento in parte incompatibile con il Premio. Qualche anno fa sono stato fra i giurati, ma mi sono dimesso dopo pochi mesi. Questa volta, alla fine, ho fatto la scelta di rimettermi in gioco.

 

LC: Ho letto e apprezzato molto il suo romanzo. Nelle prime pagine, il lettore è catturato da una costruzione vividissima del protagonista, Giovanni, intensificata senz’altro da una scrittura cristallina che sembra permettere di incontrare concretamente il personaggio. Mi chiedevo come fosse nata la storia di questo tipografo del ventunesimo secolo e se essa sia in qualche modo legata a come lei vive il rapporto con i suoi personaggi.

CP: Ho un rapporto distaccato e al contempo molto stretto con le mie storie e i miei personaggi. Una volta terminato un libro, lo licenzio, lo do alle stampe e non lo rileggo più. I personaggi, però, continuano far parte della mia vita: a volte li sogno in mezzo ai miei amici, sono parte del mio inconscio. Come in tutti i miei romanzi, anche in questo i personaggi non nascono da mie esperienze personali. Per esempio, la scelta della figura del tipografo non deriva da una qualche mia esperienza lavorativa, anche se ho vissuto l’ambiente delle case editrici. In realtà, io appaio nei miei libri per strade secondarie e involontarie: ciò che mi spinge è la volontà di essere un altro, o meglio, tanti altri. Credo che questo sia il vero compito di uno scrittore.

 

LC: A questo proposito, Italo Calvino era convinto che lo scrivere bene fosse inscindibile da un non interporsi del diaframma della persona tra sé e il foglio di carta. Quella dell’uscita dall’io è una sua ricerca costante?

CP: Molti sostengono che sia il narcisismo l’elemento che veramente spinge gli scrittori a produrre le loro opere. Io, invece, sono convinto che i veri scrittori siano quasi privi di narcisismo: si occupano dell’Altro, della mimesis. Nei miei libri, il mio io è scomparso, quasi inesistente: mi piace diventare tipografo, contabile, avvocato. Avendo ormai una certa età e una certa esperienza alle spalle, mi hanno chiesto se avessi in programma di scrivere autobiografia: non penso che la realizzerò mai, mi annoierei a morte.

 

LC: Su questa scia, ha mai scritto in prima persona? Se sì, come ha affrontato la scelta di dire “io” indossando un personaggio?

CP: Ho scritto pochissimo in prima persona, ma anche nelle poche occasioni in cui l’ho fatto è stato per me puramente un modo per proporre un personaggio: la prima persona è per me pur sempre una terza persona camuffata. Ciò che mi infastidisce, di fatto, non è l’io in sé, ma il contenuto narcisistico che può veicolare, il rimanere fissati in una immagine. Ciò che mi interessa veramente è raccontare la molteplicità del reale, vivere altre vite, abbandonarmi per incontrare l’altro. Se riesco a trasmettere questo, ho raggiunto il mio obiettivo. Dei miei libri non mi interessa la trama, sì i percorsi e i personaggi. In particolare, ciò che mi premeva in quest’ultimo era mostrare il groviglio di un uomo che vive un’attesa dolente, ma anche inaspettatamente perseverante nell’amore, consapevole del fatto che non si può costringere nessuno ad amare.

 

 

 

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Ricordare e sbiadire

Versi di dissipazioni, vacanze, sfumature, rarefazioni: Indice sommario di sbiadimento (peQuod, 2022) è un esordio poetico di una ricchissima finezza lessicale, semantica, evocativa. La sua articolata struttura, il suo coagulo di senso e il suo aperto - ma non invasivo - richiamo ad esperienze poetiche soprattutto novecentesche dà voce ad una penna consapevole, autonoma e originale, quella di Pietro Polverini.

Il libro sarà presentato ad Ancona martedì 21 giugno p.v. nell’ambito del festival “La punta della lingua”.


Pietro Polverini è laureato magistrale in Filosofia presso l’Università degli Studi di Macerata e laureando in Filologia moderna. Ha all’attivo contributi accademici dedicati a Patrizia Valduga, Vivian Lamarque, Pier Vittorio Tondelli. Svolge l’attività di redattore per la rivista «Mediumpoesia». Alcuni suoi versi sono apparsi su «La Repubblica» nell’ambito della rubrica a cura di Gilda Policastro, La bottega della poesia. 

 

 

Lucia Copparoni: Indice sommario di sbiadimento non è una raccolta di poesie, ma un vero e proprio libro di poesia. Al lettore è infatti subito manifesto il progetto macrotestuale che va a tracciare nell’opera un raffinatissimo gioco di intarsi: le pagine mostrano sia scopertamente, sia in filigrana una struttura sottile, trasparente alla maniera del cristallo ma anche compatta, capace di restituire un flusso di senso. Cosa ti ha condotto a tutto questo?

Pietro Polverini: Fin dalle prime prove di composizione, riconducibili oramai a una decade fa, durante i primi anni universitari in Filosofia, il desiderio embrionale era di scrivere un libro di poesia, cercando di valicare il perimetro della raccolta. Per molto tempo ho accatastato con solerzia lacerti, testi, componimenti ma ne riconoscevo la natura eterogenea e sincretica. Poi, due anni fa, in una circostanza avulsa dagli uffici letterari, in me si è condensata in maniera non deliberata la locuzione “indice sommario di sbiadimento”. L’appuntai su un foglietto e lo lasciai in tasca. Più in là mi resi conto che questa sequenza sintagmatica aveva aperto, forse spalancato, un nuovo “campo di senso”, una regione semantica da perlustrare. Da qui è sorto un numero ponderoso di testi, poi selezionato e collocato nella serie triadica delle sezioni, secondo una precisa dispositio. Concluso il lavoro di scrittura, ho individuato il soggetto del libro: si potrebbe parlare della zona di intersezione tra “perdita” e “memoria”. Sicuramente, negli anni di scrittura, ha agito in me, sottotraccia, la lettura di un passo dell’Ontologia della libertà di Luigi Pareyson in cui si parlava di memoria come di «un’immensa necropoli in cui son sepolte le inerti e defunte creature del tempo» ma anche come «uno smisurato forziere colmo di ignorate ricchezze, una pullulante vita sotterranea pronta a rigermogliare con intatto vigore».

 

LC: L’elemento macrotestuale che hai iniziato a sviscerare si palesa fin dai titoli. Indice sommario di sbiadimento è una locuzione piuttosto criptica e disarmante, che evoca una compattezza soffusa di ciò che si troverà raccontato nei versi. Anche le sezioni interne sono aperte da titoli: Claritate novi sideri, La storia delle nostre vacanze, Ingrediamur in caliginem. In che modo i titoli raccontano e raccolgono il libro?

PP: Come già accennato, il libro abbozza un’ipotetica morfologia della memoria. In Claritate novi sideris la centralità è stata assegnata al ricordo eveniente, tracimante, mai a disposizione del soggetto che lo subisce. In questo caso ho scelto come epigrafe per un componimento un verso di Betocchi che dice «scegli la rosa della tua memoria». Di fatto, nel covone infittito dei ricordi, alcuni hanno la forza di interrogarci in maniera anomala: metaforicamente ne ho parlato come di uno “stelo” che “perde liquore”, un “piccolo punto” che ci chiede di ritornare là, “dove si era tutto”. In questo caso c’è come silente ipotesto il celebre sonetto di Giovanni Della Casa, O dolce selva solitaria, amica. La seconda sezione, La storia delle nostre vacanze, nasce dalla fusione di tre esperienze letterarie: Un posto di vacanza di Vittorio Sereni, Preparativi per la villeggiatura di Remo Pagnanelli e Belluno di Patrizia Valduga. Il ricordo, in questo caso, diventa esperienza della mancanza, recuperando l’etimo originario del verbo latino vacare. La terza sezione prende il titolo da un’espressione di Bonaventura da Bagnoregio: “ingrediamur in caliginem” ossia “ingresso in ciò che è oscuro”. È la forma più ampia di sbiadimento perché si oltrepassa la boa del futuribile e si riflette sulla perdita della memoria, quindi delle parole – senza sapere quali saranno le ultime che vivranno in noi - fino a giungere alla dissoluzione del soggetto.

 

nulla per me avresti potuto fare
tu che tutto hai tentato di fare.
non nerissima quiete, nonnulla,
lumeggiatura portata al principio
nell’ampio compasso di riso
null’annulla il sopore, il cuore
annotato a notte sul nucleofiore
di spettro, l’atrio annerito dal
mancato oblivione de’ nostri cari.
Annerito dal nero che avanza
nulla per me avresti potuto fare
tu che tutto hai tentato di fare.

 

LC: Hai citato alcune esperienze poetiche che hanno tracciato un solco nella tua opera. Nel corso dei tuoi studi hai approfondito molto l’opera di Amelia Rosselli e di Antonella Anedda: Quale impatto hanno avuto nel tuo modo di far poesia? In generale, quali sono le esperienze poetiche che maggiormente riverberano nella tua produzione?

PP: L’incontro con l’opera di Amelia Rosselli è stato fondamentale. Con nitore ricordo il momento in cui avvenne: in un piovosissimo pomeriggio di una decina di anni fa, stavo leggendo un’antologia di poesia del Novecento sul letto. Lessi questi versi: «C'è come un dolore nella stanza, ed è |superato in parte: ma vince il peso degli oggetti, il loro significare | peso e perdita». Di lì uno spalancamento o un’intensificazione dell’essere. Ho frequentato così per anni la sua opera tanto da farne oggetto della mia tesi di laurea magistrale in Teorie dell’arte, indagando la connessione tra forma e ossessione. La sua è una poesia inusitata e aurorale per la lingua italiana: da apolide “alla ricerca di un linguaggio universale”, Rosselli sottopone la lingua a torsioni morfologiche e fonologiche, la costringe a deragliare dalle grammatiche, accoglie un numero vertiginoso di forestierismi, crea fiotti di neologismi proprio per «rinchiudersi nelle alchimie di un linguaggio buono a ogni altitudine», come dice nel Diario in tre lingue.

Di Antonella Anedda ammiro lo sguardo coraggioso e tacitiano sulla storia, l’intelligenza di una versificazione nuova, la figuralità debitrice della poesia russa di inizio Novecento. Un’altra autrice fondamentale è Patrizia Valduga: da lei viene, in maniera irreplicabile, una percezione diacronica e stratificata del fatto letterario. Grazie a lei mi sono dedicato a due numi tutelari come Giovanni Prati per l’Ottocento, e Clemente Rebora per l’inizio del Novecento.

Altre letture decisive, per rimanere nell’alveo italiano dell’ultimo secolo, sono state Camillo Sbarbaro, Carlo Betocchi, Maria Luisa Spaziani, Franco Matacotta, Giovanni Raboni, Vittorio Sereni, Elio Pagliarani, Sandro Penna, Giovanna Sicari, Piero Bigongiari, Andrea Zanzotto, Dario Villa, Mario Luzi. Scendendo nel dimenticatoio dei secoli, ricordo le letture dei madrigali di Torquato Tasso, poi Chiara Matraini, Giacomo Lubrano, Federico Della Valle, Gabriello Chiabrera, Giambattista Zappi, Niccolò Tommaseo, Giovanni Camerana (autore pubblicato postumo). Non ho tratto alcunché invece dalla lettura di Ungaretti. Scarso è l’interesse per gli epigoni della neoavanguardia. Fondamentale poi è stato lo studio della tradizione letteraria latina: Virgilio, Properzio, Lucano e infine Ovidio, di cui propongo, all’interno del libro, una personale traduzione di un passo tratto dai Tristia. Altre esperienze decisive sono state la lettura di Alfred Tennyson, Anne Sexton e Charles Olson per l’area anglofona.

 

LC: Per tornare al libro, il fil rouge che cuce insieme le poesie, come si è detto, è soprattutto il tema della memoria, il quale è accompagnato da un senso di rarefazione in perpetuo sottofondo. Come presenteresti il binomio sbiadimento-memoria?

PP: Ho pensato allo sbiadimento, in rapporto alla memoria, in maniera duplice: da una parte come una forma non patteggiabile di perdita, dall’altra come esperienza abnorme di accumulo, come ricordavo citando Luigi Pareyson. Probabilmente questa diade trova una buona esplicazione grazie a un passo noto della Recherche di Proust dove si dice che «quando niente sussiste d'un passato antico, dopo la morte degli esseri, la distruzione delle cose, soli, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l'odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l'immenso edificio del ricordo» (La strada di Swann, p. 53).

 

non essere nessuno se
non il nessuno che hai
sempre voluto alla stregua
 
di un volto estinto talvolta
presente di quella presenza
che è luce, ma di più luce
 
senza nevischio d’ombra.

 

LC: Nel libro, l’elemento autobiografico affiora ma non si svela, mantiene il suo pudore e il suo segreto. Tanti rivoli attraversano e filtrano le pagine, tracce sottili segnano i loro solchi capillari: immagini vivide, come quelle legate ad un elemento acquatico, ad un senso religioso, ai colori, al sogno e al sonno, ma anche la presenza del latino. Si tratta di declinazioni dello “sbiadimento”?

PP: È plausibile pensare che l’accentuata presenza del latino sia una declinazione dello sbiadimento in termini linguistici. Questa lingua risulta barbara, sottrae dalla contingenza del secolo e ricolloca in un osservatorio più ampio. In alcuni casi mi è venuta incontro per le sue peculiarità morfo-sintattiche: nella prima sezione, una triade di poesie prende il titolo dai verbi di memoria memini e obliviscor. Questi reggono i cosiddetti “genitivi partitivi”, dal momento in cui si può recuperare solo una parte del ricordo, una sezione monca. La questione cromatica, invece, è interna al titolo stesso dell’opera perché sbiadimento deriva dall’unione del prefisso s-  dal valore sottrattivo e “biado”, forma arcaica per designare una specie di blu. Di qui perdita di blu, scolorire. Per questa ragione ho scelto come epigrafe che apre il libro una poesia di Amelia Rosselli, tratta da Documento, in cui si legge: «un blu che non è nemmeno blu o comunque | è un blu chiaro chiaro chiaro». Questi versi compendiano una forma con cui si fa esperienza dello sbiadimento.

 

LC: Il libro disegna un itinerario verso la parola, o meglio il nulla della parola, verso qualcosa che la preceda, che venga prima del senso. Come dire, una voce, dei significanti che precedano il significato.

PP: La domanda intercetta un punto focale del libro, vale a dire il processo che conduce dalla parola al nulla, dalla memoria all’oblio, dal ricordo alla cancellazione del soggetto. L’ultima poesia cerca di cesellare analiticamente l’ipotesi dello sbiadimento linguistico, l’estinzione totale della parola per approssimarsi a ciò che Heidegger definiva “essenza del fondamento” o il teologo francese Stanislas Breton “il principio”. Questo percorso, nella poesia contemporanea, è stato seguito in parte da Silvia Bre, nel recente libro Le campane, dove si può notare una pervicace ricerca dell’origine del suono: «È da lontano che viene, e non per noi | arriva e fa pensare che fosse qui | da prima | […] | è l’origine» (p. 7). Sulla stessa linea, a tratti, si pone il recente Nessuno veda nessuno di Bianca Maria Frabotta: «Ho sognato che a nostra insaputa | sfiorasse il nulla che eravamo | e siamo, uno sciame di molecole | una materica memoria senza ricordi. | Un’afona voce mai udita pronunciò | senza tatto l’annunzio ferale» (p. 9).

 

LC: Dove la parola tace, bisbigliano le immagini. Il libro infatti, a partire dalla copertina stessa, è corredato da numerose di esse, soprattutto tavole entomologiche e una peculiare fotografia finale. Quale dialogo intendono suggerire con i testi?

PP: Il motivo entomologico è un contraltare di tutto il percorso testuale. Gli insetti in copertina – una serie di formiche e una sola vespa a sparigliare lo sciame – stanno a indicare una presenza fantasmatica che emerge da una bica invisibile: un foro, uno zwischen che abita parola e memoria e da cui brulicano in maniera fitta, senza ordine geometrico. Le tavole entomologiche sono state inserite per evocare la simmetria tra scomposizione anatomica, ad uso d’illustrazione scientifica, e il sezionamento a cui tentiamo di sottoporre il fastello dei ricordi. In conclusione c’è una fotografia dello scrittore francese Hervé Guibert, coevo del nostro Pier Vittorio Tondelli, dove si legge in didascalia “autoportrait de lieu et date totalement oubliés”. Questa foschia rarefatta che cancella e smembra i lineamenti del volto, ricorda “l’ingresso in ciò che è oscuro” di cui parla l’ultima sezione del libro.

 

Per saperne di più

 

Polverini, Pietro, Indice sommario di sbiadimento, Ancona, peQuod, 2022.

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Scegliere l’eccellenza: abbracciare la sfida delle Scuole Superiori Universitarie

La scelta universitaria è un momento molto delicato nella carriera di ogni studente che si affaccia al mondo accademico e che inizia ad esplorarne l’ampio ventaglio di offerte e possibilità. Fra queste si distinguono delle realtà peculiari, dei percorsi universitari di altissimo livello di formazione e ricerca: le Scuole Universitarie di Eccellenza.

Si tratta di istituti universitari che si affiancano al corso di studi scelto all’interno dell’Ateneo di appartenenza e a cui si accede unicamente sulla base del merito tramite concorso pubblico. Gli Allievi selezionati – ai quali sono richiesti elevati standard di rendimento a livello universitario – usufruiscono di vari vantaggi, fra cui la gratuità di vitto e alloggio e bonus economici.

 

Fra gli obiettivi principali delle Scuole, quello di fornire una formazione accademica di spessore e dettaglio: ciò viene garantito attraverso seminari a carattere altamente interdisciplinare tenuti da docenti di fama nazionale e internazionale. Fondamentale è il valore del dibattito che si viene a creare nelle dinamiche di relazione docente-studente e che stimola i ragazzi all’approfondimento e alla ricerca, qualità che già affondano le loro radici nel fertile terreno della curiosità. Centrale risulta pertanto il clima di scambio e condivisione di idee ed esperienze che contribuisce alla vivacità e al fervore culturale ed intellettuale che si respira all’interno di queste realtà di studio.

Proprio nell’ottica di far conoscere questi percorsi d’eccezione e nella volontà di un’ampia condivisione dell’esperienza che si vive nel circuito delle Scuole d’Eccellenza, alcuni studenti hanno dato vita ad un’idea che si concretizzerà nel corso di questo mese: il Festival delle Scuole Universitarie di Eccellenza. Si tratta di un’imperdibile occasione di orientamento universitario mirato a presentare questi istituti di pregio e rivolto a tutti gli studenti di terzo, quarto e quinto anno delle scuole secondarie di secondo grado. Ad organizzare l’evento, gli Allievi delle seguenti Scuole di Eccellenza:

 

Il Festival occuperà quattro giornate, dal 24 al 27 agosto p.v., e si svolgerà unicamente in modalità telematica sulla piattaforma Zoom. Per la partecipazione è stato predisposto un bando con scadenza prorogata al 14 agosto p.v.

Il programma delle varie giornate è stato stilato in maniera tale da consentire ai partecipanti di vivere l’esperienza assaporando l’atmosfera tipica di queste Scuole sia dal punto di vista di relazioni interpersonali sia a livello didattico. Nella prima giornata di Festival si presenteranno i componenti della Commissione Coordinamento (il cui compito nell’organizzazione dell’iniziativa è stato appunto quello di coordinare, supervisionare e mettere in relazione l’attività delle singole Commissioni), poi i Direttori di ogni Scuola e infine la Coordinatrice della RIASISSU (Rete Italiana degli Allievi delle Scuole e degli Istituti di Studi Superiori Universitari). I tre giorni successivi saranno invece strutturati in direzione di una piena immersione nelle realtà di eccellenza. Le mattinate saranno dedicate a lezioni tenute da docenti altamente qualificati: si spazierà dalla linguistica alla biologia evoluzionistica, al diritto costituzionale comparato, a tanto altro ancora. Sarà dunque possibile scegliere, assistere e partecipare a lezioni delle tre macro-aree di ricerca interne alle Scuole: Scienze Umanistiche, Scienze Naturali e Scienze Sociali. Il pomeriggio ospiterà invece momenti di confronto di carattere informale fra gli studenti partecipanti e gli Allievi delle Scuole, i quali saranno disponibili per domande, dubbi, consigli e per raccontare la loro esperienza.

 

Da tutto ciò già risulta evidente come, nonostante l’inevitabile modalità telematica, gli organizzatori dell’evento abbiano particolarmente a cuore garantire un’interazione quanto più attiva possibile: oltre ai già menzionati incontri pomeridiani con gli Allievi, largo spazio sarà riservato agli interventi al termine di ognuna delle lezioni.

Accogliere la sfida delle Scuole d’Eccellenza è dunque ben più di un invito, ben più di una scommessa: è una porta aperta che ospita e che accoglie menti accese dalla passione per il sapere, volenterose di arricchirsi a livello tanto accademico quanto – e forse ancor di più – umano e tese a coltivare e a condividere il proprio talento attraverso reti di legami duraturi e formativi.

Proprio questi legami sono ciò che ha fatto sì che gli Allievi delle varie Scuole si riunissero per elaborare l’idea del Festival. Organizzando il tutto interamente su loro iniziativa, gli studenti delle Scuole hanno colto in ogni aspetto un’ulteriore opportunità di sviluppo personale e soprattutto collettivo, nella bellezza del crescere insieme e dell’andare oltre il semplice apparato organizzativo dell’evento.

Dunque, occasione di nuovo dialogo e arricchimento anche per gli ideatori, il Festival è il vero e proprio risultato di una vasta e articolata collaborazione nell’ottica di un progetto comune. Ogni specifico ambito del Festival ha visto crearsi delle Commissioni apposite: Coordinamento per la gestione generale e ampia del lavoro delle altre Commissioni, Didattica per la scelta dei docenti e l’organizzazione delle lezioni, Orientamento per l’individuazione degli studenti che presentino le Scuole e indirizzino i ragazzi nella scelta universitaria, Pubblicità per la grafica e l’aggiornamento delle pagine Social, Valutazione per la stesura del bando e la selezione degli iscritti.

Coordinati in un lavoro di squadra in cui è immediato percepire il brulichio d’energia, gli Allievi delle Scuole d’Eccellenza sono pronti ad abbracciare questa nuova esperienza e rinnovano il loro invito a prendere parte a questa iniziativa che sarà sicuramente indimenticabile.

 

 

Per saperne di più:

Si rinvia nuovamente al bando del Festival: link.

Per maggiori informazioni relativamente al Festival e alla Rete Italiana degli Allievi delle Scuole e degli Istituti di Studi Superiori Universitari (RIASISSU) si rimanda alle seguenti pagine Facebook (link1; link2) e Instagram (link3; link4), dove vengono caricati aggiornamenti relativi alle numerose iniziative delle Scuole.

 

Immagine fornita dalla Commissione Coordinamento, logo del festival.

 

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Scegliere l’eccellenza: abbracciare la sfida delle Scuole Superiori Universitarie

La scelta universitaria è un momento molto delicato nella carriera di ogni studente che si affaccia al mondo accademico e che inizia ad esplorarne l’ampio ventaglio di offerte e possibilità. Fra queste si distinguono delle realtà peculiari, dei percorsi universitari di altissimo livello di formazione e ricerca: le Scuole Universitarie di Eccellenza.

Si tratta di istituti universitari che si affiancano al corso di studi scelto all’interno dell’Ateneo di appartenenza e a cui si accede unicamente sulla base del merito tramite concorso pubblico. Gli Allievi selezionati – ai quali sono richiesti elevati standard di rendimento a livello universitario – usufruiscono di vari vantaggi, fra cui la gratuità di vitto e alloggio e bonus economici.

 

Fra gli obiettivi principali delle Scuole, quello di fornire una formazione accademica di spessore e dettaglio: ciò viene garantito attraverso seminari a carattere altamente interdisciplinare tenuti da docenti di fama nazionale e internazionale. Fondamentale è il valore del dibattito che si viene a creare nelle dinamiche di relazione docente-studente e che stimola i ragazzi all’approfondimento e alla ricerca, qualità che già affondano le loro radici nel fertile terreno della curiosità. Centrale risulta pertanto il clima di scambio e condivisione di idee ed esperienze che contribuisce alla vivacità e al fervore culturale ed intellettuale che si respira all’interno di queste realtà di studio.

Proprio nell’ottica di far conoscere questi percorsi d’eccezione e nella volontà di un’ampia condivisione dell’esperienza che si vive nel circuito delle Scuole d’Eccellenza, alcuni studenti hanno dato vita ad un’idea che si concretizzerà nel corso di questo mese: il Festival delle Scuole Universitarie di Eccellenza. Si tratta di un’imperdibile occasione di orientamento universitario mirato a presentare questi istituti di pregio e rivolto a tutti gli studenti di terzo, quarto e quinto anno delle scuole secondarie di secondo grado. Ad organizzare l’evento, gli Allievi delle seguenti Scuole di Eccellenza:

 

Il Festival occuperà quattro giornate, dal 24 al 27 agosto p.v., e si svolgerà unicamente in modalità telematica sulla piattaforma Zoom. Per la partecipazione è stato predisposto un bando con scadenza prorogata al 14 agosto p.v.

Il programma delle varie giornate è stato stilato in maniera tale da consentire ai partecipanti di vivere l’esperienza assaporando l’atmosfera tipica di queste Scuole sia dal punto di vista di relazioni interpersonali sia a livello didattico. Nella prima giornata di Festival si presenteranno i componenti della Commissione Coordinamento (il cui compito nell’organizzazione dell’iniziativa è stato appunto quello di coordinare, supervisionare e mettere in relazione l’attività delle singole Commissioni), poi i Direttori di ogni Scuola e infine la Coordinatrice della RIASISSU (Rete Italiana degli Allievi delle Scuole e degli Istituti di Studi Superiori Universitari). I tre giorni successivi saranno invece strutturati in direzione di una piena immersione nelle realtà di eccellenza. Le mattinate saranno dedicate a lezioni tenute da docenti altamente qualificati: si spazierà dalla linguistica alla biologia evoluzionistica, al diritto costituzionale comparato, a tanto altro ancora. Sarà dunque possibile scegliere, assistere e partecipare a lezioni delle tre macro-aree di ricerca interne alle Scuole: Scienze Umanistiche, Scienze Naturali e Scienze Sociali. Il pomeriggio ospiterà invece momenti di confronto di carattere informale fra gli studenti partecipanti e gli Allievi delle Scuole, i quali saranno disponibili per domande, dubbi, consigli e per raccontare la loro esperienza.

 

Da tutto ciò già risulta evidente come, nonostante l’inevitabile modalità telematica, gli organizzatori dell’evento abbiano particolarmente a cuore garantire un’interazione quanto più attiva possibile: oltre ai già menzionati incontri pomeridiani con gli Allievi, largo spazio sarà riservato agli interventi al termine di ognuna delle lezioni.

Accogliere la sfida delle Scuole d’Eccellenza è dunque ben più di un invito, ben più di una scommessa: è una porta aperta che ospita e che accoglie menti accese dalla passione per il sapere, volenterose di arricchirsi a livello tanto accademico quanto – e forse ancor di più – umano e tese a coltivare e a condividere il proprio talento attraverso reti di legami duraturi e formativi.

Proprio questi legami sono ciò che ha fatto sì che gli Allievi delle varie Scuole si riunissero per elaborare l’idea del Festival. Organizzando il tutto interamente su loro iniziativa, gli studenti delle Scuole hanno colto in ogni aspetto un’ulteriore opportunità di sviluppo personale e soprattutto collettivo, nella bellezza del crescere insieme e dell’andare oltre il semplice apparato organizzativo dell’evento.

Dunque, occasione di nuovo dialogo e arricchimento anche per gli ideatori, il Festival è il vero e proprio risultato di una vasta e articolata collaborazione nell’ottica di un progetto comune. Ogni specifico ambito del Festival ha visto crearsi delle Commissioni apposite: Coordinamento per la gestione generale e ampia del lavoro delle altre Commissioni, Didattica per la scelta dei docenti e l’organizzazione delle lezioni, Orientamento per l’individuazione degli studenti che presentino le Scuole e indirizzino i ragazzi nella scelta universitaria, Pubblicità per la grafica e l’aggiornamento delle pagine Social, Valutazione per la stesura del bando e la selezione degli iscritti.

Coordinati in un lavoro di squadra in cui è immediato percepire il brulichio d’energia, gli Allievi delle Scuole d’Eccellenza sono pronti ad abbracciare questa nuova esperienza e rinnovano il loro invito a prendere parte a questa iniziativa che sarà sicuramente indimenticabile.

 

 

Per saperne di più:

Si rinvia nuovamente al bando del Festival: link.

Per maggiori informazioni relativamente al Festival e alla Rete Italiana degli Allievi delle Scuole e degli Istituti di Studi Superiori Universitari (RIASISSU) si rimanda alle seguenti pagine Facebook (link1; link2) e Instagram (link3; link4), dove vengono caricati aggiornamenti relativi alle numerose iniziative delle Scuole.

 

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L’annichilimento della parola: silenzi in Beckett e Montale

Ci sono brandelli di vita e di Storia in cui la parola diventa nulla; il mondo, incomunicabile: compito della letteratura è di raccontare la rinuncia al narrabile ed esplorare i meandri dell’indicibile.

Fra fine ‘800 e inizio ‘900 la parola letteraria ha subìto uno sconvolgimento radicale che l’ha condotta a rivestire nuovo senso e significato e anzi a svestirsi, spogliarsi di senso e significato: se da una parte il primato della parola e della sua forza creatrice è ribadito da esperienze intellettuali e artistiche dannunziane con l’aforismatico «il verso è tutto», dall’altra la riflessione poetica si inserisce anche su un diverso binario, quello dell’incomunicabilità, del non senso della parola, del silenzio.

 

Lo svuotarsi della parola trova già i primi sintomi in Leopardi, nel cui caso è forse più appropriato parlare non di annullamento bensì di assottigliamento della parola. Questo, infatti, si presenta nella forma di una sottrazione di peso individuabile in maniera evidente già nella poetica del «vago e indefinito»: per il poeta recanatese, infatti, le parole “lontano”, “antico”, sono poeticissime proprio perché non dicono ma evocano e in virtù di questo «in luogo della vista lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale». Leopardi dunque scarnifica, toglie concretezza e corpo alla parola, la alleggerisce e così al contempo la apre ad una gamma vastissima di possibilità.

 

Più avanti nel tempo questo fenomeno dell’annullamento della parola andrà accentuandosi fino a presentare i risvolti più negativi e pessimistici in Montale: la poesia è «un prodotto assolutamente inutile», afferma il poeta nel discorso per il Nobel il 12 dicembre 1975, a sottolineare appunto il vuoto e l’insensatezza della parola. Nella sua produzione, infatti, Montale fa poesia di silenzio:

 

«Se un’ombra scorgete, non è / un’ombra ma quella io sono».

 

Parlare per negazioni e per immagini di negazione, come appunto un’ombra (la quale non è una presenza fisica, ma solo la sua proiezione), consente di esprimere il silenzio – ossimoricamente – attraverso le parole. Ciò è ancora più evidente nel momento in cui si considera la lirica Non chiederci la parola, vero e proprio manifesto di poetica di Montale, in particolare nell’ultima strofa:

 

«Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.»

 

Si affollano qui avverbi di negazione e allitterazioni: di rilievo la scelta nell’autografo del corsivo dei non nell’ultimo verso, suggestivo il ripetersi della s (storta-sillaba-secca) che suggerisce un fruscio nello spazio del silenzio. E certamente questa esigenza di silenzio e di abbandono della parola è consequenziale ad un contesto storico, sociale e culturale di incomunicabilità, di impossibilità di espressione, di stravolgimenti tali da paralizzare anche la parola. Effetto che si ricava da tutto ciò è un senso di sospensione e insieme di avvilimento, di fragilità cristallina. Espressione di ciò si può ritrovare in Forse un mattino andando: il poeta scopre e vede l’indicibile, «il miracolo», ma non può far altro che andare «tra gli uomini che non si voltano» con il suo segreto inconfessabile e impossibile da condividere che in fondo consiste nel fatto che tutto ciò in cui viviamo è un infinito nulla. Riflesso inevitabile di questa condizione, dunque, non può essere altro che l’annichilimento totale della parola.

 

Stesso fenomeno è poi in fin dei conti quello che si verifica nel teatro inglese di Beckett: a mano a mano che procede nella sua produzione, infatti, Beckett riduce sempre più personaggi, ambientazioni, gesti, dialoghi. Il suo capolavoro, Waiting for Godot, è il trionfo della nothingness, il senso di nulla, di vuoto, di infinitamente periferico che pervade l’esistenza e l’essenza umana.

 

«Nothing to be done»

 

Con la parola “niente” esordisce Estragon nella rappresentazione. Non c’è bisogno di parole, non c’è bisogno di gesti. Il gioco scenico è costruito tutto su movimenti privi di senso (Estragon che tenta di togliersi lo stivale, Vladimir che guarda all’interno del cappello in continua ripetizione), parole a caso, dette con il solo scopo di tentare di riempire il vuoto e il silenzio del tempo, risposte che esulano del tutto dalle domande e viceversa.

 

Beckett costruisce un teatro di vuoti, di attese, di silenzi, di luoghi aridi o putridi o dimenticati, di personaggi che incarnano la più profonda miseria umana. In linea con ciò, l’evoluzione teatrale di Beckett è segnata da un amplificarsi del silenzio, segno inequivocabile dell’impossibilità di voce e parola. Ultimo ed estremo esperimento dell’autore in questo campo è lo scandaloso Breath: nessun attore, nessun copione, solo minime indicazioni; il palcoscenico è ingombro dei rifiuti più vari indicati espressamente da Beckett. Una luce che si intensifica e che batte sugli oggetti sparsi a terra, poi un grido, un'ispirazione, silenzio, un’espirazione, un altro grido, la luce si affievolisce, silenzio. Il tutto per un totale di 35 secondi.

Questo respiro angosciante è probabilmente una delle forme d’espressione più riuscite del dramma umano dell’incomunicabile e dell’annichilimento della parola. Questa passa infatti da suono a semplice emissione di fiato, priva di ogni articolazione o modulazione di voce ma pregna delle ansie, delle inquietudini, del non detto.

 

Si può dunque dire che nell’arco di circa un secolo e mezzo si sia formato un particolare senso del silenzio in letteratura: dagli «interminati spazi e sovrumani silenzi» leopardiani alla negazione della parola in Montale al silenzio assurdo e assoluto in Beckett. La linea che si viene a tracciare pertanto prende avvio da un silenzio che c’è ma è pieno, colmo, trabocca di infinito; procede per il vuoto, ma ancora nonostante l’inutilità dell’azione c’è la voce che si sforza di raccontare il peso del nulla; approda all’unica soluzione del lungo respiro agghiacciante.

 

Per saperne di più:

Per approfondire l’argomento si consiglia la lettura dei seguenti testi: Iulia Luca, The Nothingness in Samuel Beckett’s Prose Writing. How It Is as an Aesthetic Concept, Philologica Jassyensia, anno XI, n1, 2015, pp 199–205; Richard Robinson, An Umbrella, a Pair of Boots, and a ‘Spacious Nothing’: McGahern and Beckett, Irish University Review, anno 44 n2, 2014; Roberto Celada Ballanti, L’estasi della soglia e il Nulla. Intorno a un «Osso» Montaliano, Bollettino Filosofico 32, 2017, pp. 194-217, Italo Calvino, Letture montaliane in occasione dell’80° compleanno del Poeta, Bozzi, Genova 1977, pp. 35-45

 

 

 

Immagine di brenkee, da Pixabay, https://pixabay.com/it/photos/scale-niente-architettura-3187981/. Libera per usi commercialil, attribuzione non richiesta

 

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Italo Calvino: meditazioni e lontananze a Parigi

Relazioni, punti di vista, prospettive, orizzonti: spazi e luoghi plasmano e intessono la geografia fisica e interiore di ognuno. Dimensioni spaziali intrecciano i nastri di una filosofia, di una semiotica dell’abitare; i luoghi svelano motivi nascosti e profondi del rapporto sotteso con noi nel momento in cui ci sforziamo di spogliarli e percepirne l’essenza, il sostrato comune, latente e magmatico che poi indossa l’abito – la forma, l’odore, il sapore – di tutti i luoghi particolari di cui facciamo esperienza.

 

Questo approccio ai luoghi trova una particolare sensibilità in Italo Calvino: infatti, nella diffusa riflessione sulla spazialità rintracciabile in moltissime opere e saggi, l’autore offre la sua prospettiva, il suo rapporto con i luoghi – reali, immaginari, astratti – al tempo stesso viscerale e distaccato, interno ed esterno, in linea con quella che si può definire una “poetica della lontananza”. In Calvino è proprio la capacità di «guardare le cose dall’alto», con una certa distanza, a far sì che si possa partecipare ad esse e di esse in maniera più piena, più indirizzata all’essenza. È ciò che si può individuare, fra gli esempi più noti ed eclatanti, in Cosimo, il barone rampante, che si relaziona con il mondo guardandolo dagli alberi, a metà fra terra e cielo; nelle Città Invisibili, che rappresentano la scarnificazione e il viaggio verso il senso profondo della città in quanto simbolo; nella prima delle Lezioni Americane, in cui la «Leggerezza» è eletta a fondamentale chiave di lettura per il nuovo millennio proprio come qualità di ampiezza di sguardo e di respiro nei confronti del reale.

 

La riflessione sui luoghi e sullo spazio è però per Calvino anche quasi una necessità biografica, a partire da quella «instabilità geografica» che egli stesso ammette averlo accompagnato fin dalla nascita. Così scrive in un “ritratto su misura” per la rivista «Gran Bazar» nel 1980:

Sono nato nel segno della Bilancia: perciò nel mio carattere equilibrio e squilibrio correggono a vicenda i loro eccessi. Sono nato mentre i miei genitori stavano per tornare in patria dopo anni passati nei Caraibi: da ciò l’instabilità geografica che mi fa continuamente desiderare un altrove.

Di “altrove” Calvino ne ha assaporati e vissuti tanti – la nascita a Cuba, l’infanzia e la giovinezza a San Remo, l’editoria a Torino e Roma, il viaggio in America (da cui il Diario Americano 1959-1960), gli anni nella capitale francese e i legami con il gruppo dell’Oulipo… – tanto che, per lo scrittore, «il luogo ideale […] è quello in cui è più naturale vivere da straniero», e questo luogo è proprio Parigi.

 

Di Parigi Calvino scrive poco, anzi quasi nulla, e nondimeno questa città assume per lui dei caratteri peculiari: invita allo stimolo, al raccoglimento, all’eremitaggio. Proprio Eremita a Parigi è il titolo di un testo del 1974 pubblicato in tiratura limitata a Lugano presso Edizioni Pantarei e tratto da un’intervista a Calvino dello stesso anno per la televisione della Svizzera Italiana, a cura di Valerio Riva. Il testo è stato poi inserito nell’omonima raccolta di vari pezzi autobiografici (fra cui il già citato Diario Americano 1959-1960) Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche pubblicata per la prima volta da Mondadori nel 1994. Brani e scorci sulla vita di Calvino che sotto certi punti di vista sono di una qualche nostra irriverenza verso un autore che con la scrittura autobiografica ha sempre ammesso di avere un rapporto piuttosto inquieto, anzi «nevrotico», come scrive nella lettera a Claudio Milanini del 27 luglio 1985, ma possiamo sperare che Calvino ci perdoni di questa intrusione nel suo vissuto che comunque, proprio come in Eremita a Parigi, è ben più di una biografia.

 

Come già accennato poco sopra, Parigi per Calvino non si limita ad essere una grande metropoli, ma si rivela un universo segnico, un contenitore di mondi da consultare e in cui smarrirsi, un luogo da ascoltare e interrogare, in definitiva uno spazio dove essere, appunto, eremiti.

Di fatto, nel farsi “eremita” a Parigi, Calvino si pone nei confronti della città in una prospettiva che è a un tempo esterna e interna, di partecipazione al brusio metropolitano e di riflessione raccolta e distaccata. Di questo isolarsi nel pieno della frenesia Calvino dice con elegante ironia:

Uso dire, e ormai l’ho ripetuto tante volte che mi è un po’ venuto a noia, che a Parigi ho la mia casa di campagna, nel senso che facendo lo scrittore una parte del mio lavoro la posso svolgere in solitudine, non importa dove, in una casa isolata in mezzo alla campagna, o in un’isola, e questa casa di campagna io ce l’ho nel bel mezzo di Parigi.

Essere “eremita” nel tempo e nello spazio contemporaneo della città significa saperla inquadrare e vivere in una prospettiva di meditazione, un’ottica capace di sfondare la superficialità delle cose e scandagliarne il senso più profondo. Parigi è, agli occhi di Calvino, luogo interiore, città plasmata dalle letture sulla città stessa, occasione di anonimato, deposito e creazione del molteplice. Tutte queste prospettive sulla medesima città derivano dalla fusione sincronica di una dimensione interna e di una esterna, armonizzate nella lucidità dello sguardo e dell’analisi di Calvino: meditazione e lontananza.

 

Entrambi questi aspetti si presentano già nell’incipit di Eremita a Parigi, e nell’intervista da cui il testo nasce provoca una certa emozione sentire la voce dell’autore pronunciare con una quieta sicurezza queste parole:

Forse per poter scrivere di Parigi dovrei staccarmene, essere lontano: se è vero che si scrive sempre partendo da una mancanza, da un’assenza. Oppure esserci più dentro, ma per questo dovrei averci vissuto fin dalla giovinezza: se è vero che sono gli scenari dei primi anni della nostra vita che danno forma al nostro mondo immaginario […]. Dirò meglio: bisogna che un luogo diventi un paesaggio interiore, perché la immaginazione prenda ad abitare quel luogo, a farne il suo teatro.

Dunque, Parigi come meditazione si rende occasione di spazio interiore, intimo, che si indaga, si consulta e si costruisce come un libro inesauribile, una “storia infinita”. In effetti, una delle prime prospettive dalle quali conoscere Parigi è proprio quella di lettore, come sottolinea Calvino stesso. Si percorre l’anima della città camminando in sottile equilibrio sulle lame delle spade dei tre moschettieri, perdendosi in foreste di corrispondenze baudelairiane, inzuppando una petite madelaine in compagnia di Proust. In altre parole, i libri come primo ingresso in un luogo, i libri e quella «specie di spazio interiore che essi formano», ma la «biblioteca ideale» non è mai completa né può limitarsi ai soli scaffali, e allora Calvino consulta Parigi: «Potrei dire allora che Parigi, ecco cos’è Parigi, è una gigantesca opera di consultazione, è una città che si consulta come un’enciclopedia». La “leggibilità del mondo” (per rifarsi al titolo dell’opera di Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt) assume dunque, in Parigi, i tratti della molteplicità del potenziale rintracciabile proprio in un sistema di sapere circolare in cui tutto si lega. Proprio nella Lezione Americana sulla «Molteplicità» Calvino scrive dell’approccio enciclopedico «come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo»: è anche con questo tipo di sguardo che l’autore si pone nella ricerca della struttura, dell’essenza profonda di Parigi, della città sottesa insomma, con tutto ciò che si nasconde dietro a un bancone dei più vari tipi di formaggi, dietro ad ogni collezionismo o sapore museale per cui «non c’è soluzione di continuità tra le sale del Louvre e le vetrine dei negozi».

 

La dimensione della Molteplicità risulta, di fatto, come trait-d’union fra la prospettiva della meditazione e quella della lontananza: da un lato, Calvino si cala negli spazi più minuti di Parigi, nei suoi “paragrafi” e “sottoparagrafi”; dall’altro, proprio nell’atto di consultare la città se ne astrae, si solleva rispetto ad essa. Di fatto, lo scrittore stesso riconosce in sé questo tipo di atteggiamento nei confronti dei luoghi: «Ma forse io non ho la dote di stabilire dei rapporti personali con i luoghi, resto sempre un po’ a mezz’aria, sto nelle città con un piede solo», e questo perché «il mondo è un insieme di dati che è lì, indipendentemente da me, dati che posso confrontare, combinare, trasmettere, magari ogni tanto, moderatamente, goderne, ma sempre un po’ dal di fuori».

 

Nel relazionarsi con questo mondo tramite il distacco e lo sguardo lucido, Calvino dissolve il legame della città con la sua visibilità, con i suoi significanti, e altrettanto sogna per se stesso, cioè di sparire, di sciogliere il legame con la visività della sua persona: «Il sogno d’essere invisibile… quando mi trovo in un ambiente in cui posso illudermi d’essere invisibile, io mi trovo molto bene». Si tratta di una cifra che in moltissimi momenti emerge in Calvino, come ad esempio, lampante, in Al di là dell’autore:

Come scriverei bene se non ci fossi! Se tra il foglio bianco e il ribollire delle parole e delle storie che prendono forma e svaniscono senza che nessuno le scriva non si mettesse di mezzo quello scomodo diaframma che è la mia persona!

Di fatto, Calvino informa se stesso nel medesimo modo in cui si pone rispetto a Parigi: guardarsi da dentro e da fuori, spogliarsi fino all’essenza. Così, in definitiva, anche la prospettiva su Parigi risulta in un ampliamento verticale, stratigrafico, verso terra e verso il cielo della città stessa che non è più – non è mai stata – solo città, ma uno scrigno del molteplice, del potenziale, del leggibile, dove potersi scoprire eremiti fra pagine e strade, fra meditazioni e lontananze.

 

 

 

Per saperne di più:

Calvino, Italo, Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, Milano, Mondadori, 2018.

Calvino, Italo, Lezioni Americane, Milano, Mondadori, 2017.

Lavagetto, Mario, Dovuto a Calvino, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.

 

 

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