Il Chiasmo

Emanuele D'Amario

Emanuele D’Amario è nato a Pescara il 19 Novembre 1996. Studia Lettere e Storia all’Università di Macerata e fa parte della classe di Scienze Umanistiche della Scuola di Studi Superiori Giacomo Leopardi. È fortemente orientato verso la Storia Contemporanea e sta indirizzando i suoi studi sulla scelta del passaggio lotta armata nei movimenti di contestazione successivi alla Seconda Guerra Mondiale in Occidente. È appassionato di letteratura, filosofia, arte e neuroscienze, oltre ad essere scout da sempre.

Pubblicazioni
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La guerra fredda in Italia

 

Mirco Dondi è professore associato di Storia Contemporanea presso il dipartimento di Storia cultura e civiltà dell'Università di Bologna. Nel corso dei suoi studi si è occupato di conflitti sociali nelle campagne e della storia della Resistenza ed è autore di diverse sintesi della storia dell'Italia repubblicana, con particolare attenzione agli anni Sessanta e Settanta del Novecento, alla Strategia della Tensione ed al rapporto fra stampa, terrorismo e opinione pubblica.

 

Emanuele D’Amario: Professore, nel corso dei suoi studi lei si è occupato a lungo dell’eversione nera in Italia nel corso degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. All’interno della sua ricerca ha avuto modo di affrontare il tema della cosiddetta Strategia della tensione. Questa espressione, coniata per la prima volta dal giornale britannico “The Observer” nel 1969, indica una strategia comprendente una serie di attentati terroristici, i quali avevano il fine, attraverso l’uso della stampa e dei mezzi di comunicazione di massa, di influenzare e radicalizzare il clima politico del paese. Questo quadro d’azione, perseguito da settori conniventi dello Stato e dei Servizi Segreti che si servivano di militanti dell’estrema destra neofascista nel ruolo di esecutori materiali, aveva in primo luogo il fine di attribuire all’estrema sinistra questi attentati al fine di isolarla politicamente. Un altro fine era quello di iniettare paura nel corpo sociale in modo tale da influenzare e radicalizzare settori politici anche moderati che avrebbero così appoggiato, se non un ritorno ad un regime autoritario che stroncasse il pericolo terrorista e comunista, quantomeno una democrazia “protetta” che fosse capace di autosospendersi selettivamente per meglio combattere i propri nemici. Nel suo libro  L’eco del boato lei afferma che questa strategia sia intimamente connessa con quello che lei chiama, riprendendo proprio il titolo, “L’eco del boato”, ossia con l’effetto che l’attentato terroristico sortisce sulla stampa e sulla società dopo la deflagrazione della bomba. Cosa può dirci della relazione fra la bomba ed il suo eco, qual è il meccanismo che agisce dietro questa strategia? 

 

Mirco Dondi: La strategia della tensione e l’eco del boato hanno un rapporto molto stretto. L’obiettivo è creare consenso attraverso la paura. Quando si parla di terrorismo si indica, di solito, una strategia di lotta per la quale un movimento con rivendicazioni politiche persegue i suoi obiettivi attraverso le tattiche della guerriglia o attraverso l’attentato. Il terrorismo colpisce due volte: la prima volta materialmente, con la bomba, e la seconda volta attraverso l’informazione. I giornali di destra strumentalizzarono gli attentati al fine di ottenere un cambiamento politico o addirittura un cambiamento istituzionale. Questo clima si esprime in forma più ampia con la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 dove anche il “Corriere della Sera”, espressione dell’opinione pubblica moderata, costruisce la trappola della paura, radicalizzando i suoi titoli e le istanze di cui si faceva portatore, influenzando in profondità il dibattito pubblico.

 

D’A.: Si può dire dunque che la strategia della tensione fu una sorta di teatralizzazione della violenza attraverso la stampa?

 

D.: Si tratta di una teatralizzazione non paragonabile a quanto accade oggi. Negli anni Sessanta e Settanta l’immagine non ha ancora quel ruolo preponderante che ha al giorno d’oggi. Si pensi ad esempio al telegiornale che documentò i fatti già citati del 12 dicembre del 1969. Oggi ci aspetteremmo lunghe dirette dando un grande spazio in video ai testimoni. Al tempo la RAI realizzò pochi minuti di riprese. L’impatto vero si ebbe sulla stampa, con approfondimenti sulle indagini e costruite rivelazioni su personaggi chiave, come il tassista milanese Cornelio Rolandi che, indirizzato dal questore Marcello Guida, accusò ingiustamente l’anarchico Pietro Valpreda di essere stato autore dell’attentato.

 

D’A.: D’altronde, le tattiche da lei descritte si riscontravano nel nostro Paese quando il mondo sperimentava le logiche della Guerra Fredda. La strategia della tensione si inscrive dopotutto all’interno della lotta globale all’espansione del comunismo che, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, non aveva subito battute d’arresto. Eggardo Beltrametti, scrivendo la prefazione al volume dell’agente del Sid (il Servizio Informazioni per la Difesa, ossia il nostro servizio segreto) Guido Giannettini implicato nella strage di Piazza Fontana, affermò che il comunismo stava conducendo una vera e propria opera di accerchiamento nei confronti dell’Europa prendendo piede in Asia, in Africa ed in America Latina. Con questa consapevolezza, nei primi anni Sessanta inizia a diffondersi negli ambienti che appoggeranno la strategia della tensione un interesse verso le tattiche dei movimenti comunisti e anticolonialisti. Che relazione esiste fra queste considerazioni tattico-militari e la categoria più ampia della Guerra Psicologica?

 

D.: La Guerra Psicologica fa riferimento alla lotta, attraverso la parola e la propaganda, per la conquista delle menti e dei cuori degli uomini, per parafrasare il presidente statunitense Dwight Eisenhower. Tuttavia, questa è rivolta più verso il nemico interno che verso il nemico esterno. Per quanto riguarda la Guerra Rivoluzionaria, lo spartiacque per il caso italiano è il convegno all’Istituto Pollio, tenutosi nel maggio 1965 a Roma all'hotel Parco dei Principi. In questa sede uomini vicini agli alti gradi dell’esercito, giornalisti e uomini politici si diedero appuntamento per riflettere sulle tecniche rivoluzionarie “rosse”, che tanto successo stavano riscuotendo in tutto il mondo, per poterle utilizzare in chiave autoritaria.

 

D’A.: Quanto fu forte, a questo proposito, lo shock indocinese? Vedere per la prima volta un esercito professionale occidentale sconfitto da movimenti di guerriglieri deve aver influito molto sulle loro riflessioni.

D.: Senza dubbio lo shock indocinese fu forte. Tuttavia, la sconfitta di Dien Bien Phu in Vietnam subita dai francesi avvenne nel 1954. Dieci anni più tardi la guerra in Vietnam coinvolge gli Stati Uniti e non si preannuncia vittoriosa. C’era poi la guerra condotta dal Fronte di Liberazione Nazionale algerino contro gli occupanti francesi, la vittoriosa rivoluzione a Cuba di Fidel Castro e i movimenti di liberazione nazionale africani. Ciò che attira l’attenzione del gruppo del Pollio è la natura di un successo che giunge non grazie alla forza militare ma soprattutto attraverso la guerriglia e la propaganda legata però (e questo aspetto venne sottovalutato) a un seguito reale fra le popolazioni.

D’A.: Ma qual era in definitiva il risultato che gli strateghi della tensione volevano raggiungere?

D.: Comprimere il seguito del Partito Comunista e delle istanze riformatrici. Una democrazia “protetta”, nel disegno atlantista, o uno Stato autoritario sul modello greco nell’intento dei gruppi neofascisti.

D’A.: Ma se questo era il piano, per quale ragione la fase stragista della Strategia della tensione nel 1974 si ferma per poi riapparire negli anni Ottanta? Perché c’è questa falla? Lei crede che l’arrestarsi del terrorismo nero nel ’74 e l’insorgenza del rosso nello stesso anno possano essere visti sostanzialmente come un continuum di una stessa strategia tesa a colpire la sinistra in Italia?

D.: Le stragi si fermano nel 1974 sia perché progressivamente cambia lo scenario internazionale con le dimissioni del presidente statunitense Richard Nixon e la fine dei regimi autoritari nel Mediterraneo, sia perché le stragi non sortiscono l’effetto sperato dagli strateghi della tensione. Le stragi che avrebbero dovuto isolare la sinistra stavano in realtà rafforzandola con una larga parte dell’opinione pubblica che maturava una chiara coscienza antifascista. Il terrorismo rosso che cresce di intensità a partire proprio dal 1974 logora molto di più il Partito comunista rispetto a quanto non sia accaduto con le stragi nere.

D’A.: A sinistra esiste un atteggiamento ambiguo nei confronti del terrorismo rosso?

D.: Inizialmente l’opinione pubblica stentava a credere a movimenti terroristici di matrice rossa perché l’inversione delle responsabilità che ci si prefiggeva di raggiungere con la strategia della tensione attribuendo attentati non commessi all’estrema sinistra, rende il pubblico scettico. Nei primi tempi si parla delle sedicenti Brigate rosse. Quando la matrice rossa dei terroristi appare chiara, a sinistra e soprattutto nell’estrema sinistra, c’è chi dice che i brigatisti sono “compagni che sbagliano”. Il Pci assumerà una linea di netta condanna dei movimenti terroristici rossi e fornirà un importante contributo a combattere e a isolare il terrorismo rosso. 

 

Per saperne di più:

Mirco Dondi, 12 dicembre 1969, Laterza, Roma-Bari, 2021.

Mirco Dondi, L'eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Laterza, Roma-Bari, 2015.

Angelo Ventrone, La strategia della paura. Eversione e stragismo nell'Italia del Novecento, Milano, Mondadori 2019

 

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Intervista a Matteo Re

 

Matteo Re, italiano d’origine e madrileno d’adozione, ha conseguito un dottorato di ricerca in Storia Contemporanea presso la Universidad Rey Juan Carlos di Madrid e, non appena dottoratosi, ha iniziato la sua attività di docente presso la stessa istituzione. È stato anche docente presso l’Istituto di Cultura Italiano a Madrid e nella Scuola Diplomatica. È inoltre docente nel corso Actitudes sociales hacia el terrorismo nel master di Análisis y prevención del terrorismo della Universidad Rey Juan Carlos di Madrid. Il focus della sua ricerca è la violenza politica, e si è occupato sia dei casi di studio europei sia spagnoli e sudamericani.

 

D’Amario: Professore, nel corso degli anni lei si è occupato della violenza politica nell’età contemporanea ed ha approfondito sia le realtà terroristiche europee quanto quelle sudamericane. Com’è noto, i movimenti guerriglieri dell’America Latina ebbero una notevole influenza sui movimenti terroristici europei che seguirono la stagione del Sessantotto tanto in Italia quanto in Europa. Volendo restringere la conversazione all’Italia, il caso più famoso che viene in mente è ovviamente quello delle Brigate Rosse con i Tupamaros. Il primo simbolo tangibile dell’influenza dei guerriglieri uruguayani sulle Brigate Rosse è senza dubbio la stella a cinque punte che divenne il simbolo di entrambe le organizzazioni. Ovviamente, l’influenza dei Tupamaros va molto più a fondo...

 

Re.: Ovviamente. Influenze che vengono dai movimenti guerriglieri sudamericani sono visibili nei documenti prodotti dalle Brigate Rosse fin dall’inizio della loro storia. C’è un documento dei primi anni Settanta…

 

D’A.: Intende l’Autointervista del settembre del 1971?

 

R.: Esatto, proprio quella. Sia in quella sede che in altri documenti le BR affermano di essere debitrici nei confronti dei movimenti armati sudamericani. Ciò, in sé, non è affatto strano. In quegli anni infatti era più che mai di moda il mito della grande rivoluzione cubana. L’epopea di poche decine di guerriglieri che, sbarcati dal Granma, erano stati poi guidati sulla Sierra Maestra da Che Guevara e Fidel Castro fino ad entrare all’Avana e a cacciare un esercito al soldo del dittatore filostatunitense Batista, era diventata una pietra miliare dell’immaginario della Nuova Sinistra europea. Tuttavia, mentre la rivoluzione del Che e di Castro era famosa, lo stesso non si può dire per l’esperienza dei Tupamaros. Per questa ragione il fatto che le BR li citino all’inizio della loro storia è sorprendente. Fondamentalmente, le BR potevano fare il loro “debutto in società” rifacendosi ad un’esperienza condivisa da molti nell’estrema sinistra ed invece scelgono i Tupamaros, quasi degli sconosciuti.

 

D’A.: Effettivamente, se si pensa a quegli anni, soprattutto tra la fine degli anni Sessanta ed i primissimi anni Settanta la maggior parte delle formazioni armate europee guardava a Cuba, come i GAP (Gruppi Azione Partigiana) legati a Feltrinelli o l’ETA (Euskadi ka Askatasuna ossia, in basco, Paese Basco e Libertà), ed anche l’IRA (Irish Republican Army).

 

R.: Le BR invece guardano a Montevideo, capitale dell’Uruguay e, ovviamente, primo epicentro delle azioni dei Tupamaros. Intendiamoci, non è che gli uruguayani rappresentassero il loro unico punto di riferimento. Guardarono per ovvie ragioni anche ad altre esperienze, come i guerriglieri urbani dell’italo-brasiliano Carlos Marighella.

 

D’A.: L’autore del mini-manuale sulla guerriglia urbana che fu pubblicato in Italia da Feltrinelli?

 

R.: Proprio lui. Le BR guardarono con interesse anche alla sua esperienza, e non furono certo le uniche formazioni armate a farlo. Le ragioni della fortuna di queste formazioni presso i rivoluzionari europei sono abbastanza facili da intuire. Le teorie guerrigliere di Guevara, il cosiddetto guevarismo, non erano applicabili alla lotta armata in Europa. Il Che aveva combattuto a Cuba, in Bolivia, in paesi in via di sviluppo dove esistevano ancora zone estremamente selvagge nelle quali era possibile dare via alla guerriglia. Nell’Europa che aveva conosciuto i vari boom economici successivi alla Seconda Guerra Mondiale, l’Europa che era ora profondamente urbanizzata, le tecniche del Che non potevano essere applicate con successo. Potevano essere però interessanti le metodologie sviluppate da tutti quei gruppi guerriglieri che avevano scelto nella metropoli il loro campo di battaglia.

 

D’A.: Tuttavia, le metropoli sudamericane non erano certo le metropoli europee…

 

R.: Verissimo, ed i movimenti armati europei ne faranno poi le spese. Ad ogni modo, il riferimento ai Tupamaros sorprende anche per altri aspetti. Rifacendosi a questo gruppo, le BR si ispirano ad un’esperienza che, militarmente, muore proprio quando le BR iniziano a compiere le loro azioni più significative. Nel 1970 i Tupamaros sono quasi tutti in carcere e nel 1973, con l’avvento della dittatura a Montevideo, muoiono definitivamente come formazione terroristica. Inoltre, le BR prendono ad esempio i guerriglieri uruguayani in quanto pionieri della guerriglia urbana ignorando, o preferendo ignorare, il fatto che in realtà i Tupamaros nascono come difensori del mondo rurale dell’Uruguay, vessato dal mercato internazionale (e soprattutto dalle imprese statunitensi).

 

D’A.: Infatti il loro leader, Raul Sendic Antonaccio, nel 1962 organizzò la prima marcia a Montevideo dei cañeros, i poverissimi tagliatori di canna da zucchero.

 

R.: Esatto. Dopo alcuni anni, nel biennio 1967-1968 per la precisione, Sendic ed i suoi si “urbanizzarono”, per così dire, e la loro retorica prese più accenti antiamericani. Solo a seguito di questa mutazione i Tupamaros diventano i guerriglieri urbani cari alle BR.

 

D’A.: Dunque, a livello di quadro complessivo, potremmo dire che il successo dei movimenti di guerriglia latinoamericani in Europa è dovuto in primis al clamoroso successo della rivoluzione cubana che, in un certo senso, apre la strada a livello mediatico; in seguito, una volta che i movimenti in Europa “scoprono” il Centro ed il Sud America, individuano nei guerriglieri urbani le esperienze di quel mondo che sono però più vicine alle loro possibilità di lotta.

 

R.: Sì, a grandi linee potremmo sintetizzare così.

 

D’A.: Vorrei farle un’altra domanda, questa volta più incentrata sulle esperienze dell’America Latina. In Italia per diversi anni sono rimaste nel dimenticatoio molte osservazioni fatte invece da attenti osservatori dell’epoca, i quali misero l’accento sul sostrato quasi religioso delle ragioni che spinsero molti militanti dell’estrema sinistra a radicalizzarsi. Oltre a ciò, si parla poco di come moltissimi brigatisti, o membri di spicco di Lotta Continua, di Prima Linea o Potere Operaio, avessero iniziato il loro percorso politico all’interno dell’associazionismo cattolico. Diversi studi recenti, fra cui quello dello storico Guido Panvini, hanno per così dire “disseppellito” queste osservazioni, mettendo in luce la grande contaminazione che in quegli anni era avvenuta fra il pensiero cattolico e quello marxista. Questa contaminazione, favorita dal Concilio Vaticano II che accelerò il confronto fra marxisti e cattolici, ci fu ovviamente anche in America Latina. È famoso il caso di Camilo Torres, prete cattolico guerrigliero e apologeta della cosiddetta “Teologia della Liberazione”. A parte questo caso emblematico, cosa può dirci di questa commistione fra il marxismo e l’area del pensiero cattolico più attenta al “sociale” presente in Meso e Sud America?

 

R.: Come ha appena detto, il caso del prete Camilo Torres è senza dubbio il più emblematico, ma non fu certo l’unico uomo di chiesa o fedele ad abbracciare anche il marxismo o la “Teologia della Liberazione”. La commistione fra questi due sistemi di pensiero nelle esperienze americane è molto più accentuata, a mio parere. Inoltre, in America Latina tale argomento non è mai caduto nel dimenticatoio anzi, è un qualcosa di molto più “sdoganato”, se mi passa l’espressione, all’interno del dibattito pubblico. Pensi che in Argentina per diversi anni è stata stampata una rivista che ha avuto una certa diffusione il cui nome, abbastanza emblematico, era “Cristianismo y Revolución”, curata da Juan García Elorio, stampata dal 1966 fino al 1971. Ancora, non dimentichiamo che Fidel Castro, il vincitore assieme al Che della grande Rivoluzione Cubana, era cresciuto nelle giovanili dell’azione cattolica e che anche i rivoluzionari argentini, i famosi Montoneros, avevano al loro interno fortissimi componenti cattoliche. Per quanto riguarda il caso della radicalizzazione all'interno dei gruppi della sinistra extraparlamentare, io stesso ho intervistato moltissimi militanti di Lotta Continua e moltissimi di loro hanno iniziato la loro militanza all’interno del mondo cattolico. Personalmente credo che ciò che ha un po' fuorviato una certa storiografia sia stata l’eccessiva importanza data agli slogan gridati nelle piazze o scritti nei documenti prodotti dalle formazioni armate. Questi si rifacevano, per ovvie ragioni, molto di più al marxismo-leninismo che non al pensiero cattolico e si è quindi pensato che questo fosse scomparso e che tutta la sinistra extraparlamentare fosse composta da marxisti-leninisti duri e puri, ignorando invece che il pensiero cattolico agiva in questi movimenti un po' come un fiume carsico…

 

D’A.: Mi viene in mente, a questo proposito, l’uso che fecero della violenza le BR. In fin dei conti il loro mettere in atto i processi popolari, l’attacco al cuore dello stato dopo la campagna di primavera del 1978 sono molto più vicini alla concezione della violenza propria della dottrina cattolica. Quest’ultima infatti legittima la violenza come strumento necessario per spodestare il “malvagio” e metterlo sotto giudizio, o per spodestare un tiranno. Sotto questa luce, sembra che l’operato delle BR - all’inizio della loro storia e durante il processo Moro - possa essere accostato più a tale concezione della violenza, piuttosto che a quella del marxismo-leninismo, il quale invece concepiva l’uso della forza come un mero strumento per abbattere il sistema ed i suoi sostenitori, senza la necessità di imbastire processi.

 

R.: Mi trova d’accordo con questa visione e, d’altra parte, questo uso “giustizialista” della violenza è presente anche nelle prime azioni dei Tupamaros, che si concentrarono contro individui invisi agli ultimi della società, o contro beni al fine di redistribuire ricchezza fra gli ultimi delle campagne o dei quartieri popolari di Montevideo. D’altra parte, una delle ragioni della grande fortuna dei movimenti guerriglieri sudamericani in Europa, e soprattutto in Italia, può risiedere proprio nella affinità culturale che queste due aree del mondo condividevano. Entrambe erano profondamente influenzate dalla cultura cattolica tout-court, ed entrambe negli ultimi centocinquant’anni avevano subito il fortissimo fascino del marxismo e non sorprende, data questa base di partenza, la facilità con la quale uno dei due abbia potuto rivedersi nell’esperienza dell’altro. 

 

 

Per saperne di più:

Ventrone, Angelo (a cura di), I dannati della rivoluzione. Violenza politica e storia dell’Italia negli anni Sessanta e Settanta, Macerata, EUM, 2010.

 

 

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Gli anni di piombo “bianchi”

 

Guido Panvini è da anni uno degli storici più autorevoli nel panorama accademico e culturale soprattutto in merito ai suoi studi sulla seconda metà del Novecento italiano. Le sue ricerche si focalizzano principalmente sulla violenza politica, sul conflitto sociale, sui processi di radicalizzazione, sulla storia degli intellettuali, sul rapporto fra religione e politica. È autore di diverse monografie e di un’ampia serie di pubblicazioni scientifiche, oggi è ricercatore a tempo determinato di tipo B (senior) presso il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche dell’Università di Roma La Sapienza.

 

Emanuele D’Amario: Professore, lei si è occupato a lungo di un periodo della storia repubblicana del nostro Paese che ha sempre suscitato molte discussioni tanto nel mondo accademico quanto nel dibattito pubblico: gli anni di Piombo. In molte delle narrazioni che sono state fatte di quel periodo sembra essere onnipresente lo spettro dei servizi segreti (tanto italiani quanto stranieri) che avrebbero ordito complotti estremamente ramificati, quasi che l’intera vicenda del terrorismo italiano degli anni Sessanta e Settanta possa essere ricondotta ad una gigantesca trama dei servizi. Un’altra narrazione poi, vede l’Italia come campo di battaglia dei due opposti estremismi, quello rosso, di matrice marxista-leninista o comunque legato alla sinistra extraparlamentare, e quello nero, di matrice neofascista. In queste narrazioni uno degli attori fondamentali di quegli anni, ossia il mondo cattolico, sembra totalmente assente, salvo poi ricomparire quando i brigatisti elevano la Democrazia Cristiana a loro bersaglio principale con la nuova strategia dell’attacco al “cuore dello Stato”. In uno dei suoi studi lei ha invece sottolineato come la storia politica di moltissimi dei militanti della sinistra extraparlamentare affondasse le sue radici nell’associazionismo cattolico. Perché secondo lei tale aspetto è stato sottovalutato dalla storiografia e, soprattutto, è sempre stato così?

 

Guido Pavini: Assolutamente no. In realtà se si osservano tanto i primi studi di scienze sociali coeve sul tema, si nota come molti lucidi osservatori fin da subito avevano intuito la presenza di un sostrato religioso nell’esplosione del terrorismo giovanile.

 

D’A.: D’altra parte basta pensare alla storia di due dei fondatori delle Brigate Rosse: Margherita Cagol, nata nella cattolicissima Trento e formatasi nell’associazionismo cattolico, e Renato Curcio, che pur non essendo cattolico veniva comunque dal contesto della chiesa valdese…

 

P.: Esattamente, e ciò è abbastanza emblematico. Sembra che con il passare del tempo gli studi che hanno sottolineato le radici cattoliche di molti dei militanti siano caduti un po' nel dimenticatoio. Si è parlato molto della perdita di fiducia di molti giovani militanti nei confronti del Partito Comunista, di crisi della “chiesa” marxista, senza poi contare della fortuna che hanno avuto le tesi di Rossana Rossanda quando descrisse i brigatisti come usciti fuori dall’ “album di famiglia” del Pci. Tuttavia, si è clamorosamente sottovalutata un’altra “crisi”, dovuta al profondo mutamento dato da quello che fu un vero e proprio sisma all’interno della Chiesa Cattolica, il Concilio Vaticano II. Quando parlo di crisi, non la intendo ovviamente in una banale accezione negativa: voglio dire che si produsse, all’interno dell’associazionismo cattolico, uno stravolgimento nel senso che molte idee ed esigenze nuove si fusero al precedente milieu cattolico. Inoltre, i cambiamenti introdotti dal Concilio Vaticano II, come ad esempio una maggiore attenzione per il sociale, ebbero notevoli ripercussioni anche fuori d’Italia, basti pensare all’America Latina.

 

D’A.: Si riferisce solo al sostrato molto forte del cattolicesimo in quelle regioni o fa riferimento ad esperienze concrete di quegli anni?

 

P.: Entrambe le cose. Ovviamente faccio riferimento anche al fatto che la popolazione dell’America Latina sia a stragrande maggioranza cattolica, e che quindi si debba sottolineare l’impatto che un evento come quello del Concilio Vaticano II ha avuto su quel tipo di società. Facciamo due esempi molto concreti. Fidel Castro, che assieme a Che Guevara faceva parte del grande mito della Rivoluzione Cubana, si era formato nell’azione cattolica. Lo stesso si può dire per molti membri di altre formazioni armate del Sud America. Basti pensare all’organizzazione di guerriglia urbana dell’italo-brasiliano Carlos Marighela, che aveva al suo interno numerosi elementi provenienti da ambienti cattolici.

 

D’A.: D’altra parte, divenne molto famosa la figura di Camilo Torres. Un prete cattolico colombiano che, senza svestire la tonaca, indossò i panni del guerrigliero e si fece divulgatore della cosiddetta teologia della Liberazione.

 

P.: Verissimo, ma non si deve cadere nell’errore di ritenere che l’esperienza di Torres sia quella di un personaggio solitario fuori dalle righe, come fosse un folle isolato. Tanto in America Latina quanto nel nostro paese non furono pochi gli uomini di chiesa che si avvicinarono molto alle istanze che proponevano i movimenti giovanili degli anni Sessanta.

 

D’A.: E un impulso a tale avvicinamento venne dato appunto dal Concilio…

 

P.: Il Concilio Vaticano II fondamentalmente fece accelerare moltissimo il dialogo fra marxisti e cattolici, contribuendo anche, a mio avviso, ad un mescolarsi di concezioni proprie delle due ideologie. Si prenda ad esempio la critica che i movimenti di quegli anni fanno nei confronti della democrazia cosiddetta “borghese”.

 

D’A.: Si tratta di una forte ripresa del giudizio che Marx ed Engels, come anche Lenin, avevano nei confronti delle istituzioni liberali.

 

P.: Certo, ma non è questa l’unica radice di quel pensiero che torna ad essere così attuale negli anni Sessanta e Settanta. Anche il mondo cattolico, alla luce dei profondi sconvolgimenti che visse la società italiana in seguito al cosiddetto boom economico, il quale aveva sì arricchito il paese, ma aveva anche creato enormi sacche di povertà nelle grandi metropoli industriali, iniziò a riflettere in maniera molto critica sulle “falle del sistema” per così dire. Questa riflessione riguardò anche il concetto di democrazia; ci si interrogò su cosa volesse effettivamente dire, cosa dovesse promettere agli ultimi, ed il senso che poteva avere parlarne di fronte a simili situazioni di disagio sociale. Anche il forte pregiudizio anti-sovietico del pensiero cattolico è un qualcosa che contaminò il mondo della protesta giovanile di quegli anni.

 

D’A.: In effetti, le formazioni della sinistra extraparlamentare apertamente filo-sovietiche non furono molte. L’unico esponente di quel mondo che continuava a ritenere l’Armata Rossa “la più affidabile arma nelle mani del proletariato mondiale” era Giangiacomo Feltrinelli, ma l’esperienza sua e del gruppo armato a lui legata (i GAP, Gruppi d’Azione Partigiana) finì nel 1973 con la sua morte su un traliccio di Segrate. E come dimenticare poi le critiche delle Brigate Rosse al social-imperialismo dell’URSS, e la terribile impressione che scatenarono i carri armati sovietici tanto in Ungheria nel ’56 quanto a Praga nel ’68.

 

P.: Esattamente, ma la commistione fra le due culture, la “bianca” e la “rossa”, non si ferma qui. Si prenda ad esempio l’operato “guerrigliero” delle Brigate Rosse. Quest’ultime, dopo i primi attentati contro beni di avversari politici hanno una svolta, dando inizio a rapimenti nei quali si accompagnano detenzioni nelle cosiddette “carceri del popolo” e processi.

 

D’A.: Non tutta la sinistra extraparlamentare approvò. Un articolo del giornale Potere Operaio del 1974, successivo al rapimento del giudice genovese Mario Sossi, definì le azioni delle Brigate Rosse come in preda ad una deriva “giustizialista”.

 

P.: Sì, e di quello si trattò. Tuttavia, se si analizza con lucidità questa strategia, si nota che ha quasi più a che fare con la concezione della violenza propria della dottrina cattolica, che con il marxismo-leninismo.

 

D’A.: Potrebbe spiegare meglio questo punto?

 

P.: Il marxismo-leninismo, ovviamente, non rigetta la violenza, anzi. Entrambi i pensatori la vedono come un qualcosa che fa parte dell’orizzonte storico e che non può esserne esclusa. Per Marx, il sistema capitalista creerà spontaneamente le condizioni che porteranno la classe antagonista dei padroni a ribellarsi contro di loro. Per Lenin poi, la violenza è uno strumento necessario che le masse e le loro avanguardie politiche devono utilizzare se vogliono abbattere la società borghese per costruirne una senza classi.

 

D’A.: Mi ricorda una frase dello sfortunato Trotsky in Terrorismo e Comunismo: «la borghesia non cederà mai neanche una parte del suo potere solo in virtù di un morale imperativo categorico».

 

P.: Si tratta della stessa corrente. La dottrina cattolica, comprensibilmente, ha un rapporto più complesso con la violenza, ma sarebbe un errore pensare che questa venga squalificata in tutto e per tutto. Ovviamente, rispetto al marxismo e al leninismo, un sistema discorsivo che si rifà ad un profeta di pace come Gesù di Nazareth non può avere con la violenza e con la forza lo stesso rapporto di un’ideologia che mette al primo posto il rinnovamento sociale e l’abbattimento dell’attuale sistema. Tuttavia, nel corso della sua storia la Chiesa ha dovuto, per così dire, fare i conti con il mondo. Ciò vuol dire che ha dovuto trovare delle linee guida circa l’uso della violenza per i suoi fedeli.

 

D’A.: Una sorta di sistemazione ideologica...

 

P.: Proprio così. La violenza è ammessa dalla dottrina della Chiesa, (ovviamente solo quando questa si renda assolutamente necessaria) in una serie di circostanze. Una di queste, per esempio, è quando la società in cui si vive inizia a seguire delle leggi che sono ritenute moralmente ingiuste le quali non solo vanno contro il principio di giustizia, ma arrecano anche danno agli innocenti.

 

D’A.: Ed in questo caso la violenza viene ammessa con una funzione di ristabilimento dell’ordine e della giustizia?

 

P.: Si, si può mettere in questi termini. Quando chi dovrebbe governare la comunità secondo principi di giustezza non lo fa, si è autorizzati ad alzarsi contro di lui al fine di ristabilire pace e giustizia. Infine, e in un certo modo ciò è collegato a questa concezione, è ammesso il tirannicidio. Nel caso in cui la guida di una società venga presa da un individuo che non la guida in modo retto, l’autorità civile che egli ha sul popolo (concessagli da Dio) svanisce, rendendo legittimo l’uso della forza contro di lui al fine di spodestarlo e giudicarlo.

 

D’A.: Questa concezione ricorda molto l’operato delle Brigate Rosse. Le carceri del popolo, i processi popolari, il misconoscere un’autorità tanto statale quanto giudiziaria ritenuta illegittima…

 

P.: E lo è. D’altra parte, già Hanna Arendt nel 1970 osservando questi movimenti ed il loro rapporto con la violenza sottolineò come il rapporto che questi ritenevano di avere con le teorie del marxismo-leninismo non era affatto immediato. Mi sembra che per lungo tempo si sia stati prigionieri di una narrazione di quegli anni tutto sommato abbastanza militante, e che si siano dimenticate molte analisi che, paradossalmente, sembrano essere sotto certi aspetti più lucide di alcune odierne. Prendere coscienza di nuovo di questo aspetto, di questo sostrato religioso che contribuì all’esplosione della protesta e del terrorismo nel nostro Paese, aiuta a ricostruire meglio il quadro di quegli anni e soprattutto ad acquisire una narrazione più equilibrato di un periodo cruciale della nostra storia. 

 

 

Per saperne di più:

Panvini, Guido, Cattolici e violenza politica. L'altro album di famiglia del terrorismo italiano, Einaudi, Torino, 2014.

Moro, Giovanni, Anni Settanta, Torino, Einaudi, 2007.

 

 

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La voce di Marx e il silenzio di Lenin

Nel marzo 1963 Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista più grande d’Europa, si reca alla Normale di Pisa per una conferenza. Nel vivo della discussione Adriano Sofri, allora studente della classe di Lettere, interroga aspramente il segretario chiedendogli perché un partito che si definisce comunista sembra aver abbandonato l’idea di rivoluzione proletaria. Ad un simile, feroce interrogativo, il Segretario risponde affermando che il giovane ha ancora molto da imparare. Nel giro di alcuni anni lo studente diviene uno dei leader di Lotta Continua, l’organizzazione della sinistra extraparlamentare forse più diffusa in Italia. In questo diverbio fra i due c’è molto di più di un semplice scontro generazionale fra la vecchia e la nuova sinistra. Alcuni vi hanno visto la crisi di una “chiesa”, quella marxista, che vede sotto i suoi occhi affievolirsi la praticabilità di uno dei suoi miti fondatori: la Rivoluzione.

 

In questo senso, per alcuni comunisti gli anni della contestazione (ossia gli anni Sessanta e Settanta del Novecento) sono stati un progressivo rafforzamento dell’autocoscienza di essere figli di Marx, ma orfani di Lenin. Mentre nella retorica del partito la Storia continua a essere storia di lotta di classe ed il futuro del mondo ad essere identificato con l’avvento della società socialista, il partito prosegue la marcia verso la sua integrazione nel mondo delle istituzioni democratiche “borghesi”, quelle stesse istituzioni che il marxismo-leninismo definiva “il fucile in spalla alla borghesia”.

 

Per Lenin, la società senza classi e senza sfruttamento descritta da Marx non si ottiene aspettando che la Storia faccia il suo corso, ma formando coscientemente delle avanguardie rivoluzionarie composte da specialisti nella rivoluzione in grado di guidare i proletari.

 

Secondo l’analisi di Marx invece, la Storia è “destinata” a mettere in scena la Rivoluzione. Questa sua convinzione prende avvio da una riflessione che individua come scopo ultimo del sistema capitalista la mera accumulazione di denaro e merci nelle mani di pochi privilegiati. Tale concentrazione, nel capitalismo descritto da Marx, avviene quasi esclusivamente attraverso il consumo dei beni di mercato da parte della classe media, l’unica che può sostenere (oltre ai capitalisti) un ruolo attivo nell’acquisto delle merci.  Tuttavia, più il processo di accumulo e crescita prosegue, più la classe media si impoverisce ed entra a far parte del proletariato, dato che la logica capitalista prevede l’accumulo delle ricchezze, ma non una loro redistribuzione. Il capitalismo dunque non solo immiserisce l’unica classe sociale in grado di sostenere la sua crescita, ma accresce la sua massa “antagonista”, ossia il proletariato.

 

Per il marxismo dunque il capitalismo rappresenta un  paradosso vivente in quanto nella sua forza ha anche, intrinseca, la ragione della sua ineluttabile fine. L’unica ragione per la quale continua a sopravvivere è data dal fatto che vi sono ancora forze all’interno della società che sfuggono alle sue logiche, solo in quanto non ha raggiunto il suo massimo sviluppo. Ad ogni modo, dopo qualche decennio dalla pubblicazione de Il Capitale, nel 1867, in diversi iniziano a sostenere che i comunisti devono adoperarsi per costruire giorno dopo giorno il potere proletario, senza aspettare passivamente che la Storia faccia il suo corso. Fondamentale in questo senso è proprio l’apporto teorico di Lenin, per il quale è necessario creare un corpo di uomini e donne specialisti della Rivoluzione.

 

Sia la visione marxista della Storia, sia il modello del “rivoluzionario di professione”  di Lenin, sono due fra le idee fondanti dell’ideologia comunista. Tuttavia, nel 1899 Eduard Bernstein, uno fra i personaggi di spicco del partito socialista tedesco, pubblica I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, all’interno del quale attaccava la lettura della Storia fatta da Marx sostenendo che molte delle sue previsioni cozzano clamorosamente con la realtà. Il capitalismo, lungi dall’essere prossimo al collasso, dà prova di poter creare immenso benessere senza immiserire le classi medie, anzi. In molti paesi industrializzati, come nella Germania di quegli anni, si assiste a un progressivo imborghesimento di larghi strati della società. Il compito dei socialisti dunque non è quello di abbattere il sistema per mezzo di una rivoluzione violenta, ma di far in modo di diffondere tale benessere attraverso riforme sociali che garantiscano a tutti un più equo accesso ai beni.

 

Già dalla fine dell’Ottocento quindi, diverse voci si levano a contestare i dogmi della “chiesa” marxista circa la necessità della Rivoluzione, ma anche nell’immediato secondo dopoguerra in Italia diversi avvenimenti hanno contribuito a dar via al processo di integrazione del Partito Comunista all’interno del gioco democratico. Il Partito Comunista partecipa come una delle forze leader della Resistenza, guadagnandosi un posto all’interno dell’arco costituzionale, ossia di quell’insieme di forze politiche che guida la Resistenza e che poi scrive la carta costituzionale che regola il gioco democratico in Italia. Questo scenario, tuttavia, va incorniciato all’interno delle logiche della Guerra Fredda, le quali vedono l’Italia saldamente incatenata al blocco occidentale (sotto l’influenza Usa) che in nessun modo può accettare l’ascesa di un partito filo-sovietico in un paese alleato tanto strategico geograficamente.

 

Il Partito Comunista è ovviamente conscio di tali limiti e la teoria marxista-leninista, pur restando presente nella formazione teorico-culturale dei comunisti italiani, viene a trovarsi in contrasto con la pratica quotidiana di un partito che inizia a rendersi conto di come la rivoluzione non sarebbe praticabile in un mondo dominato dalle logiche della Guerra Fredda. Anche i colloqui che Togliatti intrattiene con l’ambasciatore sovietico a Roma nell’immediato dopoguerra confermano tale stato di cose. Questi infatti gli conferma che l’Unione Sovietica non si trova nella condizione appoggiare un’ascesa al potere del Pci in Italia nel senso leninista “classico”. Per tutte queste ragioni, le teorie di Lenin vengono col tempo sostituite, nella pratica politica giornaliera, con quella che viene definita  la “democrazia progressiva togliattiana”. Questa strategia, come la famosa “via italiana al socialismo”, comporta uno stemperarsi della retorica rivoluzionaria prevedendo una conquista progressiva e pacifica della società civile, e diffondendo gradualmente le idee socialiste ed integrando il partito e le sue masse all’interno della vita democratica del Paese.

 

In un tale scenario, negli anni Sessanta in Italia ed in Europa si accende una nuova violenta stagione di lotte sociali. Nel 1959 nel Nord-Ovest i metalmeccanici scioperano rabbiosamente per ottenere il rinnovo dei contratti. L’anno seguente la città di Genova insorge per protestare contro un convegno del Movimento Sociale Italiano (partito che si proclama erede della Repubblica di Salò) facendo cadere il governo Tambroni. Nel 1962 poi, sempre a Torino, scoppia la rivolta di Piazza Statuto, nella quale di nuovo gli operai si scontrano duramente con le forze dell’ordine. Nel corso del decennio scontri e manifestazioni di studenti ed operai continuano e, infine, giunge il Sessantotto. Tutte le Università da Trento a Napoli vengono occupate, e manifestazioni e scioperi si moltiplicano mentre sembra che il movimento operaio e quello studentesco possano unirsi, con gli studenti universitari di fronte ai cancelli di Mirafiori, storica fabbrica della FIAT a Torino.

 

Tutto ciò, unito ai movimenti comunisti che in tutto il mondo, dalla guerra di Corea dei primi anni cinquanta passando per la rivoluzione cubana del 1959 allo scoppio della guerra in Vietnam, conquistano incredibili successi, suscita la speranza in alcuni figli della chiesa marxista di poter effettivamente dar voce di nuovo alle idee di Lenin. Ne è una testimonianza il fatto che Toni Negri, uno degli intellettuali più in vista della sinistra extraparlamentare e leader di Potere Operaio, veda proprio nei fatti dei primi anni Sessanta la prova che le masse si sono risvegliate. Nel corso dell’anno poi, un evento di risonanza mondiale segna i movimenti della Nuova Sinistra: il maggio francese.  Anche la Francia, come l’Italia, dall’inizio degli anni Sessanta è testimone di una rinata conflittualità sociale. Il 3 maggio 1968 gli studenti di Parigi occupano la Sorbona per protestare contro la chiusura dell’Università di Nanterre e la cacciata di molti studenti. Tuttavia la protesta, invece di cessare dopo alcuni giorni, continua, ed anzi si espande ad altri studenti incontrando l’appoggio degli operai e di parte della cittadinanza, fino ad invadere le vie del Quartiere Latino, dove riappaiono, dopo quasi cento anni, le barricate.

 

A molti la Francia appare sull’orlo della rivoluzione, dato che per tutto il maggio la rivolta non sembra cessare. Poi giunge qualcosa che la Nuova Sinistra bolla immediatamente come “tradimento”. Proprio quando sembra che non ci sia più nulla a fermare gli “insorti” di Parigi, il Partito Comunista Francese richiama indietro i suoi militanti, intimandogli di abbandonare studenti e insorti. Quest’ultimi, confusi e disorganizzati dal voltafaccia, sono costretti a dismettere i propri propositi rivoluzionari. Agli occhi dell’estrema sinistra italiana, il clamoroso fallimento ad un passo dal successo, proprio a causa del partito comunista “ufficiale”, non fa che confermare i dubbi che la Nuova Sinistra già ha sulla affidabilità rivoluzionaria dei partiti “storici” della sinistra. Il dramma consumatosi a Parigi dimostra che questi partiti, pur riconoscendosi ancora più o meno formalmente in Marx, hanno deciso di seppellire Lenin. Il maggio francese ha fallito perché è stato sprovvisto di una guida nuova, di un partito non corrotto dal riformismo. Per questa ragione, in Italia, aumenta esponenzialmente il numero di nuovi gruppi e partiti che si arrogano il compito tradito dal Partito Comunista. Con ciò, non possiamo dimenticare le analisi della Arendt circa il movimento di protesta degli anni Sessanta, allorché la filosofa fa notare come in realtà molti degli atteggiamenti e delle analisi fatte dai giovani contestatori non siano poi così collegate alle analisi marxiste della società, mentre sembrano essersi nutrite più di esperienze “nuove” come la Scuola di Francoforte o il terzomondismo. Le lucide osservazioni della filosofa servono a ricordarci di come il Sessantotto fu un fenomeno estremamente complesso, nel quale si intrecciarono molti fattori differenti.

 

Ciononostante, la sensazione che i partiti “storici” della sinistra hanno sostanzialmente deciso di sopprimere gradualmente il pensiero leninista è senza dubbio uno di questi. A questo proposito, alcuni storici collegano a questa perdita di “credibilità rivoluzionaria” del Pci la nascita di un vero e proprio vuoto a sinistra che consente dunque a questi gruppi di recuperare con successo l’idea di Rivoluzione. Per questa ragione la stagione che parte dalla fine degli anni Sessanta vede spuntare una miriade di partiti ed organizzazioni che affermano di essere di volta in volta il nuovo, o il vero, partito comunista. Basti pensare al PC d’I, il partito comunista d’Italia, o il Pci-ml, il partito comunista marxista-leninista, il Pci-r, il Partito comunista ricostituito, giusto per citarne alcuni. Sono numerosi infatti i documenti del periodo che testimoniano una perdita di fede dei militanti di sinistra nei confronti della volontà rivoluzionaria del Pci. Una fra queste è la lettera di dimissioni che scrive sul finire degli anni Sessanta un militante del Partito comunista in veneto:

 

In questi ultimi anni abbiamo assistito (…) a una continua e crescente capacità di lotta operaia. (…) Ebbene come ha guidato il partito queste lotte? Il partito non ha minimamente preso in considerazione la possibilità di utilizzare la lotta operaia contro il modo di accumulazione capitalistico (…). Per un certo tempo ho pensato, e sperato, che sarebbe stato possibile (…) riportare il partito su una lotta politica di classe: oggi sono convinto che ciò è impossibile.

 

Sulla scia di queste parole amare, si può affermare che una delle ragioni che spiega la genesi di tali movimenti “nuovi” che rimettono al centro l’idea di rivoluzione è dovuta a quei figli disillusi della chiesa marxista “ufficiale”, che non si erano però arresi all’idea di non poter vedere la rivoluzione nel corso della propria vita. Con questa consapevolezza, questi militanti presero a fuoriuscire e ad organizzarsi fuori del Partito Comunista Italiano in quanto ai loro occhi quest’ultimo, sebbene non avesse abbandonato del tutto Marx, aveva deciso di restare sordo alla voce di Lenin.

 

Per saperne di più:

Ventrone, Vogliamo tutto. Perché due generazioni hanno creduto nella Rivoluzione 1960-88, Roma, Laterza, 2012

Isabelle Sommier, La violenza rivoluzionaria. Le esperienze di lotta armata in Francia, Germania, Italia, Giappone e Stati Uniti, Roma, DeriveApprodi, 2009

Peppino Ortoleva, I movimenti del 68, Roma, Editori Riuniti, 1998

 

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Le relazioni nascoste. Le radici profonde degli anni di piombo (terza parte)

[Leggi la prima parte]

[Leggi la seconda parte]

 

Arriviamo così alla quarta legittimazione della violenza rivoluzionaria. Nella cultura contestataria degli anni Sessanta si diffuse appunto l’idea secondo la quale il sistema contro cui si lottava fosse una sorta di nuovo totalitarismo. Questo tuttavia, a differenza dei due precedenti, ossia il fascismo e lo stalinismo, non aveva al centro del suo sistema di valori l’ideologia della razza, della nazione o di una classe, ma il profitto economico.

 

Si trattava in definitiva di un totalitarismo economicista. Le analisi teoriche dei Quaderni Rossi, come il Port Huron Statement, manifesto della New Left americana, avevano sottolineato l’invasione della logica di mercato in tutti gli ambiti della società, università compresa. Così scriveva ad esempio Renato Panzieri, intellettuale “in vista” della sinistra extraparlamentare, nel primo numero dei Quaderni Rossi:

 

Col crescere del volume dei mezzi di produzione cresce la necessità di un controllo assoluto da parte del capitalista (…) Dunque strettamente connesso allo sviluppo dell’uso capitalistico delle macchine è lo sviluppo della programmazione capitalistica. (…) Lo sviluppo capitalistico della tecnologia comporta, attraverso le diverse fasi della razionalizzazione, di forme sempre più raffinate di integrazione, un aumento crescente del controllo capitalistico

 

La prospettiva era dunque quella di un mondo sotto il dominio totalitario del capitale; totalitario tanto per la pretesa di dominio assoluto sulla società, quanto per la globalità della sua estensione. Questa sua ultima caratteristica era particolarmente visibile con l’affermazione delle grandi realtà multinazionali e a nulla serviva la presenza, ad est, dell’Unione Sovietica. Per larga parte della Nuova Sinistra infatti, l’URSS, in seguito alla burocratizzazione della Rivoluzione e alla creazione di una intellighenzia politica che aveva di nuovo accentrato su di sé il potere, aveva tradito gli ideali della Rivoluzione d’Ottobre, ed  incarnava solo una diversa pretesa di dominio  totalitario definito “social-imperialismo”. 

 

Questa angoscia nei confronti di un sistema-moloch fu al centro anche delle riflessioni della Arendt, che vide nella rivolta studentesca una reazione alla costruzione di rapporti di potere sempre più complessi e anonimi. Nella società moderna e globale non c’era più un tiranno da additare, ma solo sistemi burocratici sempre più vasti ed anonimi. Sotto questa luce assume un aspetto interessante la prospettiva della “violenza epistemologica”. Lo “svelare” il piano del capitale, obbligare il nemico a palesare se stesso si poneva in contrasto con questa tendenza della modernità a costruire apparati sempre più integrati a livello mondiale eppure sempre più anonimi. Era la volontà di dare a tutti i costi un volto umano a forze anonime che minacciavano di stritolare l’uomo in un mondo freddo di cifre, produzione e consumo. Per dirla con le parole di Wolfgang Sofsky, la violenza può essere vista come un bisogno estremo di socialità.

 

La volontà di trovare un filo da seguire per arrivare al cuore di questo nemico totale portò le varie formazioni armate a cercare ovunque prove di questa loro visione. In un documento del settembre del 1971, le Brigate Rosse indicavano i mezzi che il capitale stava utilizzando al fine di portare a termine il suo piano di controllo totale. L’unico modo rimasto allo Stato e ai “padroni” per fermare la potente iniziativa di massa era quello infatti di

 

ristabilire il controllo della situazione mediante un’organizzazione sempre più dispotica del potere. Il dispotismo crescente del capitale sul lavoro, la militarizzazione progressiva dello Stato e dello scontro di classe, l’intensificarsi della repressione..

 

Questa “militarizzazione progressiva” portava a far perdere la distinzione tradizionale fra guerra e pace, in quanto il proletariato era costretto a vivere in un costante stato di repressione. “L’organizzazione sempre più dispotica del potere”, d’altra parte, creava la necessità al nemico di reclutare fra le proprie fila tutti i membri di apparati che potevano svolgere una funzione repressiva. Non solo le forze armate, che nella visione leninista rappresentavano l’elemento tradizionale della repressione, ma anche giornalisti, proprietari di media e, infine, membri della magistratura che difendevano la “legalità borghese”. Se infatti, argomentava Prima Linea, lo Stato è la somma di tutti questi strumenti di controllo al servizio del capitale, allora:

 

ogni cosa è parte dello Stato, tutta la vita sociale si fa Stato”

 

Ed essendo tutto parte dello Stato, e non essendoci più distinzione fra guerra e pace, fra militare e civile ed essendo la lotta, appunto, totale, tutti gli omicidi che potessero servire a colpire questa macchina repressiva erano legittimi, anche se si trattava di colpire un magistrato di sinistra che tra i primi aveva combattuto contro l’inquinamento delle indagini sulle stragi, anche se si trattava di uccidere Emilio Alessandrini. All’indomani del suo omicidio, Prima Linea scrisse:

 

il controllo sociale, la schedatura generalizzata delle masse, risultano lo scopo principale di tutte le riforme in discussione. La logica della guerra (…) diventa la logica generale in cui regolare i rapporti sociali (…) In questa logica, alcuni magistrati accettano definitivamente di assumersi responsabilità dirette di costituire e dirigere una struttura di guerra. Interi strati di funzionari civili diventano di fatto dei militari;

 

 

In questa logica di lotta senza quartiere contro un sistema totalitario era plausibile una teorizzazione che prevedesse una estensione della figura del nemico. D’altra parte, una simile “liquidità”, per parafrasare Baumann, non era nuova alla Storia del Novecento, un secolo che aveva già visto una teorizzazione della guerra e del nemico “totali”. L’ultimo stadio di questa teorizzazione, dopo aver inglobato nelle logiche della “repressione” tutti gli apparati dello Stato moderno, eseguiva la stessa operazione concettuale nei confronti dello sviluppo tecnologico, visto sempre più concentrato nelle mani di poche aziende, anch’esse facenti parte di quello “schieramento capitalista” che voleva assoggettare alle sue logiche l’intera società. In un paragrafo della loro Direzione Strategica del ’78 intitolato “I corpi antiguerriglia”, le Br parlavano dei recenti sviluppi dell’informatica in questi termini:

 

Non dobbiamo sottovalutare l’applicazione dell’informatica alla repressione della lotta di classe perché essa porta con sé, insieme all’efficienza dei calcolatori, l’ideologia che ci sta dentro ed il personale tecnico-militare che li fa funzionare. Il sistema informativo della polizia Usa si chiama Ibm. E così l’Ibm pubblicizzava questa sua realizzazione: “…Le conoscenze che abbiamo acquisito sull’uso delle informazioni, e che ci permettono di seguire i battiti di cuore sulla luna sono adesso messe a profitto dalla polizia per far rispettare le leggi”

 

L’ultima giustificazione all’uso della violenza rivoluzionaria in Italia nella stagione degli anni di piombo è legata a un sentimento di forte antifascismo militante, caratteristico di molti settori sociali vicini al Pci, che produssero concretamente i militanti che poi si radicalizzarono.

 

È indubbio come nell’immaginario che ha partorito gli anni di piombo “rossi” l’antifascismo abbia giocato un ruolo tutt’altro che secondario. Per rendersene conto, basterebbe sfogliare non solo i documenti prodotti dalle formazioni armate o le memorie di ex-militanti, ma anche i giornali della sinistra extra-parlamentare di ampia diffusione in quegli anni. Basti pensare ai virulenti titoli di Lotta continua, piuttosto che di Potere Operaio, dei primissimi anni Settanta come “I fascisti non devono parlare” o “Uccidere i fascisti non è reato”; titoli ed affermazioni di questo tenore si ritrovano praticamente in quasi ogni numero di qualsivoglia giornale o rivista di quell’area. 

 

Vedere tale atteggiamento di nuovo come una reazione a un attacco dell’estrema destra o della “repressione” da parte dello Stato sarebbe però, di nuovo, parziale. In primo luogo, c’è da considerare “l’effetto Genova”: i fatti di Genova del ’60, durante i quali i manifestanti manifestarono contro il governo Tambroni che aveva accettato nella sua maggioranza i voti dell’MSI, furono connotati da una forte componente antifascista nella mobilitazione, e rappresentarono per molti esponenti della sinistra extraparlamentare il segnale che le masse si erano messe in movimento. Sempre a Genova, medaglia d’oro della Resistenza, ha luogo prima azione di lotta armata di estrema sinistra, il rapimento di Gadolla ad opera della XXII Ottobre. Terzo punto: a Chiavari, a soli quarantaquattro chilometri da Genova, nel 1969 si tenne l’importante convegno che teorizzò il passaggio concreto alla lotta armata clandestina. D’altra parte, l’acronimo Gap, una delle primissime formazioni armate, sta per Gruppi d’Azione Partigiana e nella loro prima intervista affermarono:

 

Quanto al nome, Gap l’abbiamo scelto per ricordare e commemorare i combattenti e i caduti della prima guerra di Liberazione … per portare avanti e definitivamente vincere la loro gloriosa ed eroica, ma incompiuta guerra rivoluzionaria”.

 

Riferimenti alla scelta di radicalizzazione in chiave antifascista sono presenti in diverse memorie di ex-brigatisti, come in quella di Mario Moretti, che afferma “dalle mie parti la gente si sentiva in primis antifascista”, o in quella di Valerio Morucci. Altri riferimenti si trovano nei documenti prodotti dalle formazioni armate, già analizzate in precedenza, nei quali i fascisti vengono identificati come il primo bersaglio in quanto

 

sono oggi la punta avanzata dello schieramento politico militare del padronato e dell’imperialismo. … Essi sono il braccio armato del padronato, i mercenari del padronato condizionati costantemente da una mancanza di una strategia politico militare autonoma

 

I riferimenti, come appena detto, sono numerosi, anche nelle testimonianze rese alla Commissione, nelle quali diversi militanti affermarono di esser confluiti nella lotta armata sull’onda dell’antifascismo militante.

 

Legare il fenomeno della lotta armata “rossa” ad una memoria antifascista e resistenziale può offrire una spiegazione ad uno degli aspetti più “sconcertanti” degli Anni di Piombo italiani: la loro durata e radicalità senza pari fra i paesi industrializzati. Secondo Charles Tilly, alcune culture politiche avrebbero delle componenti “dormienti” che in un determinato momento possono essere riattivate se “l’ambiente circostante” le spinge a farlo. A questo proposito, Eduardo Gonzalez Calleja, dopo aver condotto approfonditi studi su numerosi casi di guerre intestine, ha sottolineato, sulla base di ampi dati statistici come:

 

Le guerre civili generano infatti una «trappola del conflitto»: l'odio e altre tensioni accumulate nel corso della guerra rendono, cioè, più probabile l'attivazione in futuro di altri scontri

 

Partendo da queste considerazioni sugli effetti di media e lunga durata sullo scenario politico di paesi colpiti da guerre civili, si potrebbe vedere nella radicalità degli anni di piombo italiani lo strascico di una guerra civile, quella che caratterizzò il biennio 1943-’45 e che vide vincitrice lo schieramento della Resistenza Antifascista, che l’anima profonda del Paese non aveva del tutto superato.

 

L’analisi di queste legittimazioni aiuta a comprendere più in profondità alcune fra le pagine della storia d’Italia che più hanno lasciato un solco all’interno della nostra memoria collettiva. In primis, restituisce la complessità delle ragioni che spinsero molti a intraprendere la lotta armata e aiuta a problematizzare il legame che il terrorismo rosso ha condiviso con l’antifascismo militante. Inoltre, ci aiuta a dare una risposta in termini storici e culturali al fenomeno della violenza politica negli Anni di Piombo, la quale per molto tempo è stata bollata come “misteriosa” o legata a vere o presunte “trame occulte”. Ci consente, quindi, di fare concretamente la Storia di quegli anni e di strapparla alle pagine della memorialistica, della cronaca o, peggio, della dietrologia.

 

 

Per saperne di più:

Per un approfondimento che descriva l’ambiente culturale di quegli anni, alternativo e non, si consiglia l’opera di Angelo Ventrone “Vogliamo tutto”. Per un’opera centrata invece nello specifico sul Sessantotto si rimanda all’opera d i Flores e De Bernardi “Il Sessantotto”. Completa e ben documentata è poi il saggio di Guido Panvini “Ordine nero, guerriglia rossa” mentre per un’opera generale e di ampio respiro si consiglia il recente libro di Francesco Benigno “Terrore e terrorismo”.

 

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Le relazioni nascoste. Le radici profonde degli anni di piombo (seconda parte)

[Leggi la prima parte]

 

La seconda giustificazione che i militanti hanno usato per spiegare la legittimità della violenza rivoluzionaria mette quest’ultima in relazione con una situazione politica favorevole. Da tempo si era diffusa la convinzione che alcune predizioni più “deterministe” del marxismo non si sarebbero verificate e che la Rivoluzione sarebbe avvenuta solo se si fossero create ad arte le condizioni adatte. Queste idee tornarono ad aleggiare sul mondo intellettuale degli anni Sessanta, specie nella rivista dei Quaderni Rossi. A ciò si accompagnò la netta sensazione che il mondo “si stesse muovendo” verso il socialismo. Subito dopo il ’45 infatti, in tutta l’Europa dell’Est erano andati al potere partiti comunisti, nel 1949 la Cina era diventata “rossa” mentre nel ’50 iniziava la guerra di Corea. I movimenti guerriglieri comunisti continuarono a diffondersi in tutto il mondo fino ad approdare, nel 1956, sulle spiagge di Cuba.

 

Anche in Italia, con la sommossa di Genova del ’60 e la rivolta di Piazza Statuto a Torino  nel ’62, le masse sembravano “svegliarsi”. L’occasione sembrava propizia per spingerle verso la rivoluzione. Toni Negri, intellettuale di punta dell’epoca e leader di Potere Operaio, interrogato dalla Commissione Moro parlò della

 

“'inarrestabile tendenza delle avanguardie di massa del proletariato, verso la lotta armata rivoluzionaria”

 

Questo movimento rivoluzionario, che sembrava appunto “di massa”, convinse molti della possibilità concreta di poter “spingere” le lotte verso una Rivoluzione vera e propria, come ha poi affermato Massimo Cianfanelli di fronte alla Commissione:

 

Nel 1968, (…) in Italia erano iniziate le lotte di massa (…),Si tendeva al raggiungimento di un potere reale del proletariato nella società (…) C’era la possibilità di organizzare questi settori di massa.

 

E d’altra parte, la Storia degli ultimi anni non aveva mostrato le vittorie che la pratica violenta poteva portare? Basti pensare al Vietnam che “vince perché spara”, secondo uno slogan dell’epoca. Anche Patrizio Peci, della “generazione” del ’77, parlando della sua scelta disse:

 

Noi lo abbiamo fatto, abbiamo sbagliato per certi versi, però non è solo colpa nostra, ci siamo, ma è anche la società che ci ha spinto”.

 

Dopotutto il mondo era in movimento, l’occasione era propizia, ma non si poteva rimanere seduti ad aspettare che la Rivoluzione si avverasse da sola. Per questa ragione si doveva passare all’attacco, memori delle lezioni di Sorel e degli ammonimenti di Fortini, che dalle pagine dei Quaderni Rossi ricordava

 

questa crisi non significa il crollo automatico del modo di produzione stesso”.

 

 La Storia, in definitiva, andava “presa per mano” ed accompagnata verso la Rivoluzione.

 

Come già detto, la terza giustificazione che molti militanti dell’estrema sinistra hanno addotto per spiegare il perché della scelta delle armi ammanta la violenza di una dignità “epistemologica”, ossia di rivelazione di una verità. Questa ragione vedeva la società permeata da una “violenza sistemica”. Cosa si intende? Secondo questa visione la nostra società, divisa in classi sociali, con differenze di reddito e soprattutto di possibilità di avanzamento sociale, rimaneva tale in quanto permeata da una violenza nascosta ed inscritta nel sistema.

 

Tale violenza, ad esempio, faceva sì che alcuni lavori fossero poco remunerativi e che servissero a malapena a garantire la sussistenza biologica di chi li svolgeva. Ancora, dispiegava all’interno del tessuto sociale una serie di strumenti e metodi per far sì che queste differenze di classe persistessero. Ciò era riscontrabile ad esempio nella difesa a oltranza della proprietà privata, anche quando ciò andava contro l’interesse della maggioranza e si sostanziava nelle centinaia e anonime morti bianche che ogni anno avvenivano nelle fabbriche e nei cantieri a causa della pericolosità delle mansioni e alla mancanza di sicurezza, testimonianza ulteriore del fatto che la vita umana di alcuni valeva meno del profitto di altri.

 

Data questa analisi, l’uso della violenza da parte del “proletariato”, si dotava di una dignità epistemologica in quanto consentiva di “leggere” l’intera struttura della società come regolata da tali rapporti che avevano come scopo quello di mantenere lo sfruttamento e il privilegio dei pochi sui molti. In secondo luogo, la sua pratica concreta consentiva di iniettare nel tessuto sociale una dose di violenza che aveva il potere di radicalizzare qualsiasi scontro, escludendo la possibilità della mediazione e, quindi, obbligando chiunque a compiere scelte di campo nette, senza compromessi. Provocando poi i “padroni” e lo Stato, li costringeva a gettare la maschera, a difendere con la forza i propri interessi diretti, facendo cadere la maschera delle contrattazioni “civili”, come quelle sindacali e della “democrazia borghese”.

 

Nel testo della sua Audizione alla Commissione infatti, Morucci ci parla della violenza rivoluzionaria come di un qualcosa di “rivelatore”; coloro che praticavano la lotta armata infatti:

 

“volevano (…) che uscisse fuori questo tipo di realtà in tutta la sua violenza celata, nascosta"

 

Ed anche Enrico Fenzi, docente di letteratura italiana all’Università di Genova, membro e per alcuni ideologo delle Brigate Rosse, in un’intervista disse:

 

"Noi vediamo più a fondo di altri; gli altri si fermano alla carne, non scendono allo scheletro. Noi capiamo che tutto è violenza, che i rapporti sociali sono tutta una finzione"

 

Questa analisi, oltre a dare alla violenza una dignità ermeneutica, conoscitiva, la legittima sul piano morale in quanto da un senso a tutta una serie di sofferenze del singolo. Nel suo lungo interrogatorio, Massimo Cianfanelli affermò:

 

Quando si sceglie la lotta armata si pensa che il sacrificio di vite umane possa servire a salvarne molte altre. Si fa un tipo di analisi per cui si dice che la società capitalista produce anche morte”.

 

Inscrivendo le ingiustizie della società ad un sistema concepito in questi termini, l’uso della lotta armata nella contrattazione politica viene quasi “umanizzato”. Due frasi rimaste famose vengono alla mente, quelle di Renato Curcio, leader delle Br fino al 1974, e di Sergio Segio, militante di Prima Linea. Al processo al nucleo storico delle Br, Curcio affermò che “L’omicidio di Aldo Moro è  il più alto atto d’umanità in una società divisa in classi” mentre Segio fece sua la massima maoista secondo cui c’erano morti “leggere come piume” ed altre pesanti “come montagne”.

 

In questo senso, alcuni passaggi di un documento prodotto dalla brigata XXII Ottobre, la formazione genovese di estrema sinistra che per prima, nel 1970, compì un’operazione di lotta armata rapendo l’imprenditore Gadolla, potrebbe essere definito un piccolo “manifesto” di questa “violenza epistemologica”. Il comunicato venne recitato dai militanti durante il processo che li vide implicati nel rapimento, ed iniziava con queste parole:

 

Rivolgo… tutte queste accuse contro quella banda di criminali che le ha provocate. Per banda criminale intendo i gruppi di potere monopolistico, non solo dell’economia nazionale, ma anche internazionale; voi stessi altro non siete che validi strumenti di questa banda mostruosa”.

 

Nella loro lotta contro questa “banda mostruosa” (ossia i “padroni”), i veri comunisti erano legittimati ad usare la violenza, in quanto non era che

 

un riflesso condizionato ed è una nullità al confronto con la ferocia borghese che abbiamo subito supinamente per anni e sistematicamente per secoli”.

 

Alla luce di questa visione:

 

i veri comunisti si arrogano diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da una parte e privilegiati e oppressori dall’altra”.

 

E concludeva:

 

Nessuno, e nemmeno voi giudici, si indigna per gli omicidi bianchi di tutti i giorni, con quegli omicidi avete la mano leggera

 

Questa capacità epistemologica della pratica violenta, portando alla comprensione profonda delle “realtà sociali”, ci introduce ad un altro aspetto: la concettualizzazione della lotta come una guerra ad un nuovo sistema totalitario. 

 

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Le relazioni nascoste. Le radici profonde degli anni di piombo (prima parte)

Oggi, dopo due decenni di attenzione mediatica nei confronti dell’Islam radicale, viene quasi naturale associare il fenomeno terroristico a quella matrice. Eppure, per citare Francesco Benigno, il terrorismo è un fiore cresciuto nel giardino occidentale. Per quanto oggi possa apparire singolare, infatti, durante i quasi due decenni che andarono dal finire degli anni Sessanta fino ai primi anni Ottanta del Novecento la minaccia terroristica più forte nei confronti dell’Europa veniva da cellule tutte interne al continente.

 

Non solo: l’Europa era il fronte terroristico mondiale più “attivo”, e l’Italia lo stato europeo col più alto numero di attentati. Per questa ragione quei due decenni sono stati definiti “la notte della Repubblica”. Fra il 1969 ed il 1982 infatti, si contarono 351 morti per atti di violenza politica. Si tratta di più di due omicidi politici al mese. Quella stagione passò alla Storia anche con il nome di Anni di Piombo.

 

Tre sono stati i punti che hanno reso il caso italiano un triste unicum nel panorama europeo. Il primo riguarda la radicalità del fenomeno: il numero di morti in Italia superò infatti quello delle altre “medie” nazionali. Il secondo aspetto riguarda la sua durata. Pur essendo stato un terrorismo di base, per così dire, ideologica (fatta eccezione per il terrorismo altoatesino), la sua costanza nel corso degli anni è riuscita a competere con i terrorismi di matrice etnico-nazionalista, solitamente più longevi, come i casi di ETA (nel Paese Basco) e dell’IRA (in Irlanda del Nord). Il terzo aspetto è una sintesi dei primi due, quindi il perché di una radicalità tale nel contesto di un paese sviluppato.

 

Per rispondere a questi interrogativi è necessario dare una cornice al tema. Innanzitutto, dobbiamo collocare quegli anni nel quadro generale della Guerra Fredda: com’è noto, questo nome indica quel conflitto semi-dichiarato che vide contrapporsi da una parte i paesi del patto Nato, e dall’altra quelli del patto di Varsavia. Volendo banalizzare, da una parte della barricata gli Stati Uniti, alla testa del Mondo Libero, e dall’altra l’Unione Sovietica a capo dei paesi socialisti. Come spesso accade tuttavia, all’immagine di questo mondo binario va sostituita la visione di un contesto più complesso.

 

Basti pensare al consesso dei paesi non allineati (i paesi che oggi chiameremmo in via di sviluppo e che stavano allora uscendo dal colonialismo), che con le conferenze di Bandung e Belgrado, rispettivamente nel 1955 e nel 1961, definirono per se stessi una nuova politica non asservita necessariamente a uno dei due blocchi. Ancora, ci sarebbe da ricordare la tensione che si venne a creare nel corso degli anni Sessanta fra l’URSS e la Cina comunista.

 

In questo contesto si collocava il nostro paese. In quegli anni l’Italia si trovava sotto l’ombrello della Nato, ma in una zona di confine: sulla stessa longitudine della Germania, paese diviso in due fra il blocco orientale e quello occidentale, e al confine con  l’Austria, nazione rimasta neutrale, e con la Iugoslavia, paese comunista sotto la guida del maresciallo Tito ma non allineato a Mosca. Inoltre, a poche centinaia di chilometri dalle coste meridionali della Penisola, in nord-Africa prendevano piede movimenti anti-colonialisti. In questo contesto, la presenza del Partito Comunista più grande d’Europa destava non pochi pensieri in ambienti Nato.

 

In questo complesso scenario esplose il Sessantotto. Questo avvenimento è stato definito come il primo vero fenomeno mondiale, indice di una globalizzazione ormai matura. Nel corso del biennio 1967-1969 infatti la contestazione tanto giovanile quanto di altri settori della società, esplose quasi ovunque nel mondo, dando l’impressione a un militante dell’epoca che “il mondo si stesse muovendo”, ovviamente verso il socialismo.

 

In Italia numerose università, da Trento a Napoli, vennero occupate, e gli studenti si recarono per solidarietà di fronte ai cancelli delle fabbriche, come nel caso dello stabilimento Mirafiori della FIAT, fuori Torino. Le richieste di questo movimento erano le più disparate, ma si può tentare di sintetizzarle. La base comune su cui il movimento, o comunque la maggioranza di esso, innestò le sue rivendicazioni fu l’ideologia marxista, anche se non sempre in maniera coerente o consapevole (o come si diceva in quegli anni, “ortodossa”). Su questa radice costruì poi una richiesta di democratizzazione dei bisogni ma anche dei piaceri della società dei consumi (quasi un marxismo libidinale, o del piacere) al ritmo dello slogan: “Non vogliamo solo il pane! Vogliamo anche le rose!”. A ciò si accompagnava una critica alla società vista come repressiva, e che frustrava i legittimi desideri degli individui.

 

Su questo movimento, il 12 dicembre 1969, si abbatté la prima grande strage degli Anni di Piombo: Piazza Fontana. Una bomba, piazzata all’interno della Banca dell’Agricoltura di Milano, esplose causando decine di morti e feriti. Con questa data si fanno iniziare, per così dire, “ufficialmente” tanto il terrorismo rosso quanto il terrorismo nero. Quest’ultimo infatti si connota in quegli anni per la sua  tendenza “bombarola”, e con la strage di Piazza Fontana iniziò quel ciclo che porterà varie formazioni neofasciste ad essere manovali del terrore al comando dei servizi segreti italiani e statunitensi. Oltre a essere la data d’inizio delle trame nere, il 12 dicembre del 1969 è stato considerato anche all’origine del terrorismo rosso.

 

Molti nella strage di Piazza Fontana videro infatti il giorno della “perdita dell’innocenza” dell’estrema sinistra. Secondo questa visione, con l’esplosione di quella bomba, l’estrema sinistra trovò conferma dei timori di una repressione da parte dello Stato e dell’estrema destra che, in un periodo segnato da tensioni internazionali, non potevano tollerare spostamenti dell’equilibrio politico a sinistra, verso il Partito Comunista peraltro in quegli anni in continua crescita.

 

Questa è, ovviamente, solo una delle ragioni che spiegano il perché della radicalizzazione. Leggendo i documenti prodotti dalle organizzazioni armate, le stampa della Nuova Sinistra di quegli anni (anche detta extraparlamentare) e le fonti giudiziarie, soprattutto gli interrogatori resi alla Commissione Moro (la Commissione Parlamentare che ha indagato sul rapimento di Aldo Moro e sul terrorismo rosso), vengono in superficie diverse giustificazioni che i militanti hanno addotto per spiegare la loro radicalizzazione. La prima lega la scelta delle armi a una questione di necessità, di difesa, mentre la seconda la pone più in termini di “opportunità” rivoluzionaria. La terza invece, riveste la pratica della violenza di una dignità epistemologica, la quale porta poi a definire la quarta ragione, che vede nella lotta armata uno scontro necessario contro un sistema dai tratti totalitari. La quinta ed ultima caratteristica è infine legata, in questi documenti, all’impegno degli individui nel campo dell’antifascismo militante.

 

Per quanto riguarda la prima ragione, molti militanti hanno affermato di aver avuto serio timore che in quegli anni potesse verificarsi in Italia un colpo di stato. Questa angoscia trovava allora appiglio in diversi dati di fatto. In primo luogo, l’intera fascia mediterranea d’Europa si trovava sotto regimi di stampo fascista: il Portogallo di Salazar, la Spagna franchista, la Grecia dei colonnelli e la Turchia. Nel 1967, inoltre, due interviste giornalistiche avevano portato alla luce il cosiddetto “Piano Solo”, un golpe che sarebbe stato pianificato dal generale dei carabinieri De Lorenzo, poi non messo in atto all’ultimo momento.

 

Questo era stato il primo di una serie di golpe “abortiti”, come i seguenti casi del 1970 e 1974, i cosiddetti golpe Borghese e bianco. Il primo prese il nome da Junio Valerio Borghese, ex-comandante della Decima Mas, corpo d’élite della Repubblica di Salò, mentre il secondo lo deve ad Edgardo Sogno, partigiano bianco (quindi di sentimenti cattolici), medaglia d’oro della Resistenza e deciso anticomunista. Tali operazioni rientravano sotto la più grande strategia Nato detta “Demagnetize”, il cui scopo era, appunto, quello di “demagnetizzare” la forza dei Partiti comunisti in paesi alleati. “Provocando” i comunisti con queste “minacce” (ossia i golpe), si sperava di indurli a una reazione violenta, in modo da screditarli agli occhi dell’opinione pubblica prima di attaccarli frontalmente.

 

Un esempio di quanto questo timore di un colpo di stato fosse diffuso è senza dubbio l’attività della casa editrice Feltrinelli, il cui proprietario, Giangiacomo, era noto per le sue tendenze rivoluzionarie. In una prefazione al suo volume “Contro l’imperialismo e la coalizione delle destre”, del 1970, scriveva:

 

“Oggi come allora la coalizione delle destre dispone di tutti i mezzi per attuare una repressione, sia legalmente che con un colpo di stato, contro le classi e le forze politiche che contestano il suo potere assoluto nel paese”

 

Mauro Borromeo, militante politicizzatosi a fine anni Sessanta e poi finito nella lotta armata, così spiegò alla Commissione il perché della sua scelta:

 

Dopo la strage di Piazza Fontana, che nel mio intimo non ebbi dubbi nel ritenere “la strage di stato”, incominciai a nutrire per la situazione politica che si era venuta creando seri timori per la sopravvivenza della democrazia in Italia.

 

Questa giustificazione non è però una caratteristica unica della generazione che aveva vissuto il Sessantotto. Roberto Sandalo, politicizzatosi nella seconda metà degli anni Settanta e facente parte del servizio d’ordine di Lotta Continua (l’organizzazione della sinistra extraparlamentare più diffusa in quegli anni), racconta di come la dirigenza gli avesse ordinato di trovare un alloggio “sicuro” e “non rintracciabile” in caso di golpe. Anche nel primo documento pubblico dei Gap (Gruppi Azione Partigiana), scritto nel Dicembre del 1970, si legge di come i recenti avvenimenti fossero una “aperta dichiarazione di guerra dei fascisti, strumenti diretti, ora più che mai, del padronato e dell’imperialismo”.

 

Ad ogni modo, nonostante questi timori abbiano senza dubbio giocato un ruolo nella radicalizzazione dell’estrema sinistra, ritenere Piazza Fontana come l’evento scatenante del terrorismo rosso sarebbe errato. Da diversi anni infatti, numerosi studi hanno smentito tale visione giustificazionista. Partiamo da due fatti di cronaca dell’epoca.

 

Il primo è la morte dell’agente Antonio Annarumma, avvenuta il 19 novembre 1969, un mese prima di Piazza Fontana, nel corso di scontri di Piazza con l’estrema sinistra a Milano. La sinistra “ufficiale” si dissociò dalle azioni di piazza, condannando “le posizioni avventuriste di Lotta continua”, l’organizzazione extra-parlamentare dietro la manifestazione. Di contro il quotidiano di LC rispose in maniera raggelante:

 

 «In uno scontro tra proletari e polizia la ragione non sta dalla parte di chi ha il "morto"; la ragione sta sempre dalla parte degli operai»

 

Inoltre, nell’estate del 1969, si tennero due convegni, quello di Chiavari, vicino Genova, e quello di Monterinaldi, fra Fiesole e Firenze.  Oltre ad essere alla base della nascita rispettivamente delle Brigate Rosse e di Potere Operaio, in questi convegni si discusse il passaggio operativo alla lotta armata.

 

Oltre a questi eventi, vi è una comune radice ideologica che appartiene a tutta l’area gravitante attorno al PCI e che aveva fra le proprie cifre distintive l’idea di rivoluzione. Dopotutto, per Marx la violenza era la “levatrice della Storia” e Rossana Rossanda, tra i fondatori del Manifesto, parlò a proposito dei terroristi rossi come usciti fuori dall’ “album di famiglia” del Pci, sottolineando come molti degli appartenenti alle formazioni di estrema sinistra provenissero da ambienti sociali, e familiari, vicini al Partito Comunista. 

 

Non a caso, il Pci veniva definito da molti suoi avversari come il partito della doppiezza. Se la sua ideologia di riferimento rimaneva infatti il marxismo-leninismo, che aveva nel suo “pantheon” l’idea di rivoluzione, la linea adottata dalla dirigenza dopo il 1945 era stata quella della “democrazia progressiva” togliattiana, che invece nella pratica la escludeva. Questa ambiguità causava al partito non pochi problemi, tanto che tra il 1966 ed il 1971 perse più di cinquantamila iscritti. Sarebbe tuttavia un errore credere che questo rapporto ambiguo nei confronti della violenza fosse proprio solo della sinistra “ufficiale”. Anche Lotta Continua venne dilaniata al suo interno da tendenze “rivoluzionarie” e “legaliste”.

 

Secondo Sidney Tarrow questa perdita di credibilità rivoluzionaria prima del Pci, e poi di organizzazioni extraparlamentari che si erano “istituzionalizzate”, creò un “vuoto” a sinistra che permise ad alcune organizzazioni di tornare alle radici ideologiche del marxismo-leninismo, e quindi, di recuperare la legittimità dell’uso della violenza. 

 

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L’altro vicino. Una breve conversazione sul passato recente della Spagna

La Spagna è la quarta economia della zona euro e, da diversi anni, uno dei membri più importanti della Comunità Europea. Nonostante la vicinanza all’Italia, gli sguardi comparativi fra il nostro Paese e Madrid, almeno per quanto riguarda la storia politica, sono sempre passati in secondo piano rispetto a quelli condotti con la Francia. Complice di questo stato di cose, forse, è un atteggiamento (presente nella storiografia) che tende a vedere il paese iberico come l’«infermo d’Europa», secondo la definizione che ne diede il grande storico Santos Juliá. Secondo questa visione, la Spagna potrebbe essere considerata uno Stato solo relativamente “europeo” e “sviluppato”, a causa della sua storica arretratezza economica, culturale e politica rispetto ai “grandi” d’Europa, ossia l’Inghilterra, la Francia e la Germania. Negli ultimi anni l’attualità spagnola è stata oggetto d’interesse per il risorgere tanto di tendenze autonomistiche (parliamo ovviamente della Catalogna) quanto di movimenti di estrema destra euroscettici, fenomeno peraltro comune a quasi tutta Europa. Come spesso accade nel dibattito pubblico, le radici storiche – anche quelle estremamente recenti – di fenomeni sociali che irrompono nell’attualità tendono ad essere ignorate.

 

Per questa ragione si è deciso di intervistare il Professor Eduardo Gonzalez Calleja, docente di Storia Contemporanea all’Università Carlos III, uno degli atenei più grandi e prestigiosi della capitale spagnola. Oltre ad essere una figura di punta nel mondo accademico spagnolo, è stato docente invitato in numerosi atenei internazionali (Paris III-Sorbonne Nouvelle, la London School of Economics, Università di Macerata, Ca’ Foscari, Morón-Buenos Aires e molte altre). Possiede un’esperienza decennale nello studio della Storia politica, e più in particolare sulla cultura dell’estrema destra, la violenza politica ed il terrorismo, temi sui quali ha pubblicato  ventotto monografie.

 

Il motivo che ha spinto ad intervistarlo a Novembre 2020 è dovuto alla forte discussione che attraversava in quei mesi l’opinione pubblica spagnola in merito alla legalizzazione dell’eutanasia. Il tema ha diviso profondamente il Paese portando anche al riaccendersi di vecchie “passioni” politiche, rispolverando così parole ed “etichette” che per alcuni dovrebbero rimanere confinate al secolo scorso.

 

Emanuele D’Amario: Assieme alla Francia, la Spagna è l’altro grande “vicino” dell’Italia. Nel corso dei secoli le sorti dei due Paesi si sono più e più volte intrecciate. Basti pensare al fatto che lo Stato pre-unitario più esteso della Penisola fosse il Regno delle Due Sicilie, che dalla metà del Settecento si trovava sotto la casa dei Borbone di Napoli, “cugini primi” dei Borbone di Spagna, tornati a sedere sul trono di Madrid a seguito della Transizione democratica che vide la fine del regime franchista nel 1975. Essendo una nazione estremamente connessa all’Italia tanto per interessi economici quanto per vicinanza geografica, la stampa italiana si è occupata spesso della sua attualità politica. Negli ultimi anni in particolare, l’attenzione si è focalizzata sugli strascichi della crisi del 2008 – che è stata nella penisola iberica più forte rispetto a quella vissuta in altri paesi d’Europa – e, soprattutto, sulle proteste degli indipendentisti catalani. Le radici di queste proteste sembrano essere meno note al grande pubblico.

 

Proprio come l’Italia, la “forma” istituzionale della Spagna è stata il risultato di uno scontro fratricida: la Guerra Civile Spagnola, uno degli avvenimenti più importanti della prima metà del Novecento.  Da molti studiosi è stata infatti considerata come la “prova generale” del Secondo conflitto Mondiale, almeno per l’Italia fascista e per la Germania di Hitler, come anche, in parte, per l’Unione Sovietica di Stalin, dal momento che le uniche due potenze “democratiche” che avrebbero potuto controbilanciare gli aiuti italiani e tedeschi nei confronti dell’esercito franchista, ovvero Francia ed Inghilterra, si astennero dall’intervenire.

 

Com’è noto, la vittoria arrise allo schieramento guidato da Franco, il quale aveva preso il posto del generale José Sanjurjo Sacanell, primo leader dell’insurrezione dell’esercito. In seguito alla disfatta repubblicana, il Regime si installò a Madrid e rimase al potere fino al 1975, data della morte di Francisco Franco. Successivamente, seguì il ritorno della dinastia borbonica, in ossequio alle ultime leggi promulgate dal dittatore, dette le leggi di successione, che diede avvio alla cosiddetta Transizione Democratica. Negli anni cruciali che seguirono il 1975 venne promulgata una nuova costituzione democratica, frutto anche degli accordi fra partiti e movimenti sociali conosciuti come i Patti di Moncloa, del 1977. Ma qual è l’eredità di questa storia segnata dalla guerra civile nella vita politica odierna della Spagna democratica, quarta economia dell’Eurozona? E quali sono le differenze con l’Italia rispetto alla valenza, per così dire, politica, della memoria storica?

 

Eduardo Gonzalez Calleja: In Italia si sa perfettamente che l’esperienza della Guerra Civile del 1943-45 ha generato narrative contrapposte, che vanno dall’identificazione di quella fase storica come guerra di liberazione antifascista al conflitto fratricida analizzato dallo storico Claudio Pavone. Questo tipo di consapevolezza è presente anche nel dibattito pubblico di altri paesi. Nei circoli suprematisti degli Stati Uniti si coltiva il culto della “Lost Cause of the Confederacy”, mentre la comunità afroamericana ricorda la falsa riconciliazione “post bellum” perseguita dai bianchi a discapito dei suoi diritti civili (le famose “Jim Crow Laws”). In Spagna, gli storici che si sono occupati della Guerra Civile sono ormai d’accordo riguardo la periodizzazione delle tappe del processo di evoluzione della nostra memoria: fra il 1939 ed il 1950 prevalse la memoria unilaterale dei vincitori, che imposero una damnatio memoriae estremamente focalizzata sulle colpe del passato repubblicano. Seguì, negli anni Sessanta una particolare forma di amnesia collettiva, centrata sulla colpevolezza condivisa (come a dire “siamo stati tutti colpevoli”, e nessuno lo è stato) e vincolata al processo di legittimazione del franchismo per mezzo della forte crescita economica che prese avvio a fine anni cinquanta (il cosiddetto desarrollismo). Gli anni della Transizione verso la democrazia furono invece caratterizzati da un recupero di una memoria critica dell’evento traumatico, grazie alla riconosciuta libertà d’espressione. Gli anni Settanta e Ottanta costituirono dunque una sorta di forgia di una nuova memoria della riconciliazione, la quale si tradusse concretamente in una “politica dell’oblio” selettivo sponsorizzata dai media ufficiali. Infine, dalla metà degli anni Novanta si è diffusa una memoria detta della restituzione o della riparazione. Questo dovere della memoria, connotato da forti risonanze morali fatte proprie dai nipoti dei protagonisti della Guerra Civile fra i venti e i trenta anni dopo la morte di Franco, viene da loro giustificato in quanto consideravano insufficiente la politica di riparazione materiale e simbolica condotta fino ad allora nei confronti delle vittime della guerra e della repressione franchista. Ciò che questo nuovo approccio propose fu un finanziamento sistematico della ricerca dei siti nei quali i dissidenti erano stati sepolti in fosse comuni, dopo eccidi che avrebbero dovuto far “piazza pulita” dei nemici del regime. La Spagna, a questo proposito, detiene il poco lusinghiero primato di essere uno dei primi paesi al mondo, e sicuramente il primo in Europa, per numero di fosse comuni create in seguito a conflitti politici. Da quella fase si è acutizzata una “guerra di memorie” contrapposte, allo stesso tempo inoltre, le varie destra spagnole hanno iniziato a mostrare una maggiore reattività di fronte alle politiche di giustizia, memoria e riparazione adottate dai governi del PSOE (Partido Socialista Obrero Espanol), in special modo riguardo alla Legge del 26 Dicembre del 2007, la quale riconosce e amplia i diritti e le misure a favore di chi aveva subito episodi di persecuzione e violenza durante la Guerra Civile e la dittatura.

 

 

E.D’A.: Come abbiamo accennato, negli ultimi anni la Spagna ha fatto parlare di sé sulla stampa europea in riferimento alla questione catalana. A ciò va sommato anche il risorgere di una destra ultras con tratti antieuropeisti – fenomeno, peraltro, non limitato alla sola penisola iberica –, basti pensare ai casi della AFD tedesca, al Front National francese e ai partiti pro-Brexit. Nel particolare caso spagnolo, questi partiti sono storicamente contrari al sistema delle autonomie regionali che si è andato sviluppando con il processo di democratizzazione del Paese. In che modo queste due caratteristiche si strutturano oggi nella narrazione politica di questi partiti?

 

E.G.C.: L’autonomismo spagnolo riprese l’idea dello “Stato integrale” repubblicano, basato su un sistema di autonomia politica al quale avevano avuto accesso in principio solo le tre nazionalità “storiche”: la Catalogna, i Paesi Baschi e la Galizia. In seguito alla lunga stagione del centralismo franchista, si estese il sistema autonomista a diciassette nazionalità e regioni in maniera generalizzata (un fenomeno che è stato definito popolarmente el café para todos), causando rimostranze comparative su un piano fiscale ed un disordine di funzioni organizzative che sta venendo in superficie in tutta la sua drammaticità nella attuale crisi sanitaria. L’estrema destra populista sta approfittando delle gravi circostanze generate dalla pandemia (in special modo, la paura ed il senso di insicurezza delle fasce di popolazione più vulnerabili) per promuovere l’idea di un’alternativa autoritaria, centralista e antieuropeista come antidoto alla crisi multisettoriale che vive lo stato spagnolo.

 

E.D’A.: In questi anni in Italia molti partiti hanno affermato che le categorie di sinistra e destra non hanno più senso nel mondo contemporaneo. Tralasciando questo fenomeno, dovuto alla ridefinizione di identità di numerosi partiti in seguito alla caduta del cosiddetto “mondo bipolare” nel 1989, la parola “fascista” continua ad essere usata in alcuni settori del dibattito pubblico, segno che, dopotutto, continua ad avere un significato. Secondo lei questo discorso può essere applicato alla Spagna? Queste parole novecentesche come “fascista” e “comunista” continuano ad avere un senso ed un peso nel dibattito spagnolo?

 

E.G.C.: Nella recente mozione di censura supportata da “Vox” contro il governo del PSOE-Unidos Podemos la sinistra ha ripreso ad utilizzare il termine “fascista” per definire l’attuale alternativa dell’estrema destra. Esattamente come i termini “rosso” e “terrorista”, si tratta di epiteti squalificanti che non apportano al dibattito nessuna categoria che sia utile per la comprensione del fenomeno. Certo è che “Vox” raccoglie settori residuali del vecchio falangismo, del franchismo e dell’integralismo religioso, però è un moderno catch-all party totalmente integrato nelle logiche della politica postmoderna, con un’ideologia molto più vicina all’ultraliberalismo neoconservatore nordamericano. A ciò va aggiunta la persistenza di alcune “sopravvivenze” del regime franchista in Spagna, come la fondazione Francisco Franco che esalta il passato regime e che conserva anche documentazione ufficiale dell’apparato statale prodotta fra il 1939 ed il 1975. A ciò va aggiunto anche il fatto che il PP (Partido Popular), partito “istituzionale” della destra sia stato fondato da sette ex-ministri di Franco, e che quattro di questi si siano poi rifiutati di riconoscere appieno la costituzione democratica.

 

E.D’A.: Alla luce di questa breve panoramica, e soprattutto osservando il contesto generale del mondo occidentale nel quale partiti populisti avanzano diffusamente su in Europa, sorgono due domande fondamentali. La prima domanda riguarda il rapporto che l’opinione pubblica ha con la sua storia recente. Non sarebbe forse auspicabile per la Spagna un profondo riesame critico delle sue memorie collettive? Una sorta di “Mani Pulite” della memoria? E la seconda, più generale, riguarda il tipo di ruolo che dovrebbe assumere la democrazia spagnola nella Comunità Europea, soprattutto in seguito allo sviluppo che il paese ha avuto negli ultimi anni ed in seguito a Brexit.

 

E.G.C.: La Spagna è la quarta economia della zona euro, e dovrebbe assumere un ruolo politico di primo piano, assieme all’Italia, alla Francia e alla Germania. Tuttavia prima deve arginare, e cercare di risolvere, i problemi che attanagliano la sua democrazia che sono, in ordine di priorità: l’impatto economico e sociale causato dalla crisi attuale, la sua struttura territoriale-istituzionale (a metà strada fra l’autonomia ed il federalismo), e la corruzione politica, che è molto peggiore della crisi italiana dei primi anni Novanta “, e che si estende al vertice dello Stato, magistratura, i partiti politici, la stampa e gli agenti economici. Come diceva, a differenza del vostro paese, la Spagna non ha avuto una “Mani Pulite”. Nonostante questa infatti sia stata una prova che ha scosso profondamente l’Italia, ha comunque permesso al vostro Paese di fare una profonda autocritica non solo legale, ma anche intellettuale della sua storia repubblicana. La grande differenza la Spagna e l’Italia consiste nel fatto che la Spagna non ha avuto uno sconvolgimento che portasse con sé un’autocritica. Non c’è, per adesso, un recupero critico abbastanza forte di un’esperienza, come nel caso dei desaparecidos in America Latina, ma piuttosto un’amnistia collettiva.

 

Per saperne di più:

Eduardo Gonzalez Calleja, El laboratorio del miedo. Una historia general del terrorismo, Editorial Crítica, Barcelona, 2012.

Orazion Lanza e Francesco Raniolo, Una democrazia di successo? La Spagna dalla Transizione democratica al governo Zapatero, Catanzaro, Rubettino, 2006.

Santos Juliá, Violencia política en la España del Siglo XX, Taurus, 2000.

 

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Lo spazio dell'esperienza umana (terza parte)

La concezione di cui si è parlato nei precedenti articoli, ossia dell’inizio della Storia come vittoria della cultura sulla natura, tende ora ad essere sostituita da un approccio nel quale qualsiasi prodotto umano è visto come un continuo interagire di natura e cultura. Tuttavia, questa concezione “classica” può essere messa in crisi anche utilizzando un approccio più “tradizionale”. Ragionando sui documenti scritti, pochi di quelli utilizzati dagli storici sono stati prodotti intenzionalmente al fine di lasciare testimonianze per generazioni future. Daniel Smail cita l’esempio della città di Marsiglia, che durante il Medioevo ha conosciuto un fiorire di atti notarili. Questi avevano la mera funzione di certificare cessioni ed acquisizioni, mentre per i medievisti sono stati utili per ricostruire l’ascesa della borghesia cittadina. La ricerca storica è piena di questi esempi. Quasi tutte le fonti scritte, ad eccezione dei memoriali, sono state prodotte per questioni contingenti: si pensi ai giornali, agli ordini militari, alle lettere. Spingendosi ancora oltre, Marc Bloch afferma addirittura che allo storico non solo interessano le fonti che non sono intenzionali, ma anche quelle false:

 

«Non è che i documenti di questo genere siano, più che altri, esenti da errori o da menzogna. Le bolle false non mancano e non tutti i rapporti di ambasciatori, non tutte le lettere d’affari dicono la verità. Ma (…) la deformazione, supponendo che esista, non è stata concepita mirando (…) ai posteri. Soprattutto, questi indizi che il passato lascia cadere, senza premeditazione, lungo il suo cammino non ci permettono solo di supplire ai racconti, (…), o di controllarli. Essi allontanano dai nostri studi un pericolo più mortale dell’ignoranza o dell’inesattezza: quello di una irrimediabile sclerosi. Infatti, senza il loro aiuto, non si vedrebbe forse inevitabilmente lo storico, (…), divenire immediatamente prigioniero dei pregiudizi, delle false prudenze, delle miopie di cui la vista di quelle stesse generazioni aveva sofferto? Non si vedrebbe il medievista, per esempio, non accordare se non una scarsa importanza al movimento comunale, col pretesto che gli scrittori del Medioevo non intrattenevano volentieri il loro pubblico su di esso.»

 

Da tempo il solo uso di fonti scritte ha perso di credibilità nella ricerca storica. Basti pensare a classici come l’opera di Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie, ha proposto una storia dell’uomo basata sullo studio delle malattie. Se dunque da tempo le fonti scritte, che fino a tempi recenti dividevano rigidamente la Storia dalla Preistoria, hanno cessato di essere il solo mezzo per ricostruire il passato, perché lo studio del cervello non dovrebbe essere annoverato tra le nuove miniere di informazioni a nostra disposizione? Gli anni Novanta del Novecento sono stati definiti da alcuni studiosi “gli anni del cervello”. Un grande numero di pubblicazioni è stato dedicato alle neuroscienze, rese possibili grazie a nuove tecnologie come la tomografia computerizzata. Ciò che alcuni storici iniziano a chiedersi a questo punto, è cosa lo studio del cervello possa dare alla Storia, ed in che modo la Storia possa contribuire allo studio del cervello. Se infatti l’essere umano è un prodotto dell’evoluzione, allora anche il cervello non può che essere un’entità che si è evoluta nel corso del tempo. Non solo questo nuovo approccio consente di arricchire la narrazione della nostra Storia, ma consente di vedere il cervello in una luce diacronica.

 

Da circa 1,7 milioni di anni il nostro sistema nervoso si è evoluto al fine di relazionarsi all’interno di aggregati sociali sempre più complessi. Il nuovo approccio della Storia Profonda prende in considerazione aspetti quali il sostrato biologico dei nostri sistemi comportamentali. Uno dei primi aspetti interessanti presi in esame sotto questa doppia luce riflette sull’abitudine degli esseri umani di “giocare” con le proprie emozioni e predisposizioni istintive. Nel 1937, il biologo Konrad Lorenz pubblicò uno studio sul sostrato biologico dei comportamenti animali: nasceva così l’etologia. Uno degli assunti di questa nuova scienza si fondava sull’idea che tratti comportamentali degli animali potessero essere spiegati come risultato dell’adattamento a precedenti condizioni ambientali. Secondo questa teoria, tanto per il regno animale quanto per gli esseri umani influenze di passati ambienti potevano aver influito su comportamenti e cultura che erano sopravvissuti al mutare dei tempi. Secondo i primi sociobiologi, il nostro cervello (quello dell'homo sapiens sapiens) si sarebbe sviluppato per esseri umani cacciatori-raccoglitori delle savane, mentre la nostra civiltà si è evoluta molto più in fretta di quanto abbia fatto il nostro cervello. In questa chiave, aspetti patologici o atteggiamenti che stridono con il nostro stile di vita altro non sarebbero che antichi habitus sopravvissuti come “fossili” nel nostro cervello. Ciò spiegherebbe perché alcuni nostri atteggiamenti sfuggono a quella logica secondo cui il nostro cammino altro non sarebbe che un percorso di continuo perfezionamento. C’è tuttavia un’altra spiegazione che recenti studi hanno proposto. Nel 1981, i paleontologi Stephen Jay Gould e Elizabeth Vrba coniano la parola “exaptation”. Questo neologismo indica quei tratti che si sono evoluti per rispondere ad un preciso fine, ma che in seguito hanno finito per assolvere a funzioni inaspettate. Come direbbe Carr, spesso la volontà non ha nulla a che fare con la Storia, ed il caso fa capolino dalla porta sul retro. Secondo questi studi, non tutte le caratteristiche che rendono l’essere umano tale si sono evolute con un fine specifico. Ad esempio, la straordinaria grandezza del nostro cervello, la stessa che ci ha consentito di sviluppare la logica, la capacità di comporre musica o di creare manufatti è un “effetto collaterale” dovuto alla prima necessità che lo ha spinto a crescere: quella di gestire reti sociali sempre più complesse. Come scrive Smail:

 

«The human brain-body system did not evolve “for” the purpose of being stimulated or manipulated. The feelings that wash through your body when you read a particularly good novel or watch a powerful movie are entirely exaptive. The exaptive capacity of the human brain-body system to be modulated by behaviors of this kind is central to the idea of neurohistory.»

 

In questo senso, c’è da dar ragione ad Aristotele, l’essere umano è davvero zoon politicon (ζῷον πολιτικόν), animale superiore agli altri in quanto “politico” ossia in grado di gestire relazioni complesse. Tuttavia, da queste ragioni prende l’avvio David Buller, filosofo della biologia, che muove una critica feroce a questa visione della sociobiologia e della psicologia evolutiva. Se assumiamo il fatto che la principale ragione per la quale il nostro cervello è diventato così sviluppato, risiede nella sempre maggiore complessità delle società umane, allora la pressione evolutiva determinante non è venuta dall’ambiente, ma da noi stessi. Quindi, se il primo ambiente a cui il cervello ha tentato di adattarsi è quello sociale, ed essendo questo composto da altri cervelli, si può parlare di un ambiente fisso che abbia influenzato la nostra evoluzione cerebrale? Non si tratta più che altro di una “corsa” nella quale tutti i partecipanti tentano di rimanere al passo? E se si tratta di una “corsa evolutiva”, ha senso parlare di fissi “problemi di adattamento” che generano fisse soluzioni? Posti questi quesiti, possiamo chiederci cosa abbia da dirci di interessante la neurostoria a proposito della Storia “tradizionale”? Anzitutto, questo approccio si inserisce all’interno della tradizione storiografica che sempre ha cercato di ricostruire il modo di pensare dei nostri predecessori. Poco fa si è detto come una delle caratteristiche fondamentali dell’essere umano è quella di “giocare” con i propri istinti. Questo tipo di attività viene giustamente definito da Smail come Psicotropa. Lo studio storico e neurologico di queste attività promette di rivelarci molto sul funzionamento delle nostre reti sociali. L’avvento della “civiltà” classicamente intesa, in seguito alla Rivoluzione neolitica, e quindi alla sedentarizzazione e alla crescita numerica dei nuclei umani, ha portato ad una crescita esponenziale delle pratiche sociali e delle attività psicotrope. Prendiamo il caso delle gerarchie sociali, che in seguito alla Rivoluzione Neolitica si fanno più complesse e “verticali”. Diversi studiosi hanno riscontrato somiglianze fra il comportamento di maschi scimpanzé o femmine alfa nei babbuini e quelle che sono le descrizioni che monaci e scrittori medievali ci hanno lasciato sul comportamento dei primi signori feudali. La loro attenzione si è focalizzata sull’uso della violenza che periodicamente veniva esercitata senza una precisa ragione. Lo storico Robert Bartlett l’ha definita un uso «controllato dell’incontrollabile». Questa situazione causa negli individui che subiscono tale forma di violenza “ingiustificata” un aumento degli ormoni dello stress che li inducono a far di tutto per tornare alla “normalità” il prima possibile; una normalità, ovviamente, ben definita nei limiti della gerarchia del gruppo. Lo stesso dicasi per il “progresso” dovuto allo stanziamento e all’adozione dell’agricoltura. Per decenni gli antropologi si sono chiesti per quale ragione l’uomo abbia scelto di diventare agricoltore. La dieta dei cacciatori raccoglitori infatti, oltre ad essere più ricca di proteine e fibre, implicava un monte ore di lavoro settimanale infinitamente più basso rispetto alle giornate dei contadini. L’agricoltura non è stata abbracciata in quanto “progresso”, ma accettata a causa dei cambiamenti ecologici occorsi sul nostro pianeta. Inoltre, l’agricoltura ha il “pregio” di produrre beni alimentari vincolati ad un terreno che ha un padrone, e questi beni possono essere immagazzinati, e controllati. È stata quindi la nascita della “cultura” classicamente intesa, a far aumentare i sistemi psicotropi che hanno consentito la formazione di classi sociali e di gerarchie complesse. Psicotrope sono anche tutta una serie di sostanze ingeribili come tabacco, alcol, droghe, farmaci e comportamenti quali il sesso a fini “ricreativi” e, curiosamente, il gossip. Tutte queste “attività” causano la produzione di ossitocina, che Smail descrive sbrigativamente come l’ormone della “pace” e della creazione dei “legami sociali”. Anche la religione, non solo nella preghiera, ma anche nel suo apparato più “scenografico”, come la liturgia, è un produttore di ossitocina. Uno studio sulla meditazione e la preghiera condotto su monaci tibetani ha dimostrato come sia possibile misurare i cambiamenti di attività cerebrale legati alla produzione di varie sostanze, tra cui questo ormone. È curioso notare come tutta una serie di comportamenti come appunto l’uso di alcol, del sesso, la masturbazione ed il consumo di tabacco siano stati etichettati dalla religione come peccati. Questi sono, come si è appena detto, dei “concorrenti” nella produzione di ossitocina nel nostro cervello. Sembra quindi che il “sistema” religione abbia tentato di “scomunicare” la concorrenza. Queste informazioni divengono ancor più interessanti se inserite in una prospettiva storica. Il Settecento è il secolo della “scristianizzazione” d’Europa, delle Rivoluzioni e della nascita dell’idea di Stato Nazione. Curiosamente è anche il secolo in cui più si diffonde il consumo di queste sostanze psicotrope “avversarie” della religione. Prendiamo ad esempio l’alcol. Anche durante il Medioevo in Europa circolavano prodotti alcolici come vino, birra e spiriti. Tuttavia, esisteva un limite rispetto alla quantità che poteva esserne prodotta, in quanto ogni aumento della produzione avrebbe significato una diminuzione delle terre disponibili per la produzione di generi alimentari. Con la scoperta delle Americhe, questa stretta equazione si modifica allorché dai Caraibi e dai territori dell’Est degli attuali Stati Uniti affluiscono in Europa immense quantità di cereali e spiriti. L’esplorazione e la colonizzazione europea nel resto del mondo portano inoltre sul mercato una serie di altri prodotti, prima esclusivo appannaggio di specifiche aree geografiche, come il caffè diffuso nel mondo mussulmano. Questo inizia a diffondersi in Europa tanto che a Londra nel 1739, per la prima volta i caffè diventano più delle taverne. Lo storico tedesco August Ludwig Schlözer paragonò per importanza la scoperta e la diffusione degli spiriti, del caffè e del tabacco ad altri eventi quali la sconfitta della Invencible Armada, la Pace di Cateau-Cambresis o la Rivoluzione Inglese. In questo secolo i caffè ed i club non sono solo luoghi in cui si consumano queste nuove bevande, si socializza e, soprattutto, si legge. Storici tedeschi, parlando della gioventù che frequentava quei locali, narrano di una vera e propria “febbre della lettura”, una Lesefieber. Anche la lettura può essere una fonte di ossitocina per il nostro cervello, ed il consumo di sostanze quali il caffè non solo non consiste in un ostacolo, ma procede con essa “in tandem”. Questa chiave interpretativa apre numerose suggestioni. È noto a tutti gli addetti ai lavori come nuove forme di letteratura siano state fondamentali per la formazione degli Stati Nazione. Basti pensare al ruolo avuto dal romanzo storico nella formazione delle identità nazionali. Questo genere narrativo, il più letto e venduto dell’Ottocento, diffonderà una concezione identitaria della Storia nazionale, costruendo, più o meno scientificamente, un filo rosso di continuità fra il presente ed un passato più o meno mitico della nazione. Ciò porterà a vedere una continuità di popolo, culturale o biologica, fra antiche comunità ed un dato territorio, fino a giustificare la lotta allo straniero e l’identificazione quasi assoluta di un popolo con una terra. Non a caso, in quel periodo cambierà l’accezione stessa del termine “nazione”, passando dal campo semantico dell’etnografia a quello politico. L’“invasione” dell’Europa da parte di sostanze psicotrope provenienti da altri continenti non si è certo fermata, e non inizia ovviamente con il Settecento. In effetti, il passaggio dal Medioevo all’età moderna, e la successiva idea di continuo progresso che inizia col Rinascimento e arriva ai giorni nostri potrebbe essere letta come un progressivo aumento del ventaglio di sostanze psicotrope a disposizione degli occidentali. Il mercato globale sviluppatosi nelle ultime decine di anni, sotto molti aspetti, non è che un potenziamento quantitativo di quel mercato globale apertosi col colonialismo europeo. Ciò che questo sguardo suggerisce è un progressivo appiattimento della diversa disponibilità di sostanze psicotrope legate a specifiche aree geografiche; situazione che porta sempre più larghi strati di umanità ad essere potenzialmente esposti allo stesso tipo di sostanze. Appreso ciò, chi resisterebbe alla tentazione di collegare questo fenomeno di omogeneizzazione della disponibilità di sostanze psicotrope al sorgere, negli stessi anni, del mercato globale di massa, o alla nascita della cultura di massa giovanile? D’altronde, l’annus mirabilis di quegli anni non è proprio forse il 1968? Ed il fenomeno di massa transnazionale che da quell’anno prende il nome, non è stato definito da molti storici come il primo movimento davvero “globale” della Storia? E come non pensare anche alla famigerata “mutazione antropologica” di Pier Paolo Pasolini, che attribuiva a questi giovani investiti dalla globalizzazione la perdita di identità non solo nazionale, ma anche di classe, tutti vittima di un fascismo più spietato di quello del ventennio: un Tecnofascismo che era penetrato, è il caso di dirlo, nelle menti degli italiani? Grazie alla globalizzazione e all’economia di consumo, siamo circondati sempre più da sostanze psicotrope. Non si pensi solo a prodotti da “immettere” nel nostro organismo come cibi, bevande, droghe, alcolici e tabacchi. Possono avere effetti psicotropi anche la fittissima presenza di insegne luminose nelle nostre città, video e film, o anche la pornografia; ognuno di questi fenomeni stimola la produzione e la circolazione dei “messaggeri chimici” nel nostro cervello. Alla luce di tutto ciò, sono tre le promesse che la Storia Profonda ci offre. In primis, apre la strada, o sarebbe meglio dire una via d’uscita, al presentismo che affligge molti storici oggigiorno, spostando addietro le lancette dell’inizio della Storia. In secondo luogo, ci offre meravigliosi e suggestivi sguardi sullo sviluppo dell’umanità durante gli ultimi tre secoli. Infine, la terza, che a parere di chi scrive è anche la più importante, ci spinge a interrogarci molto più a fondo su ciò che intendiamo quando parliamo di essere umano, dato che, come abbiamo visto, stabilire un inizio della Storia implica affermare quando l’essere umano inizia ad esserlo per davvero.

 

Per saperne di più:

Daniel Lord Smail, Storia profonda. Il cervello umano e l’origine della storia, Bollati Boringhieri, Torino 2017.

Marc Bloch, Apologia della Storia o Il mestiere di storico, Einaudi, Torino 2009.

Wolfgang Reinhard, Storia del colonialismo, Einaudi, Torino 2002.

Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, Laterza, Roma-Bari 1997.

 

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Lo spazio dell'esperienza umana (seconda parte)

La concezione secondo la quale i documenti debbano essere in primis testimonianze scritte, non si basa semplicemente sul fatto che la Storia possa essere conosciuta solo attraverso fonti scritte. Come si è già detto, numerosi sono i tipi di fonti “alternative” che da tempo fanno parte delle risorse usate dagli storici. All’origine di questo pregiudizio giace una ragione più profonda.

 

Le testimonianze scritte sono le uniche da tenere in considerazione, le uniche a “fare” la Storia, perché sono le uniche che testimoniano la volontà dell’uomo di conservare una memoria di ciò che è stato. Esse sono la testimonianza della presa di consapevolezza dell’Umanità di fronte allo scorrere del tempo e del suo essere di fronte alla Storia. L’uomo, unico essere consapevole dello scorrere del tempo e dotato di intelletto, lascia deliberatamente memoria del suo esser stato; non a caso, Heidegger lo definirà pastore dell’essere, ed in questo senso definisce anche il significato della parola “epoca”, intesa nel significato greco di “sospensione” di un ente, una cosa che è, nell’essere, ossia nell’esistenza. La scrittura è in definitiva ciò che rende l’uomo “diverso” dagli altri viventi. Tanti esseri possono lasciare tracce del proprio passaggio, ma solo l’uomo può farlo ad un grado “superiore” e consapevole, utilizzando la scrittura. Dopotutto, quand’è che l’uomo diventa tale per la filosofia occidentale? Quand’è che incomincia la Storia? Certo, quando l’uomo incomincia a darsi leggi scritte, ma soprattutto quando, grazie a queste ultime, si “emancipa dallo Stato di natura”.  Quando l’uomo si associa, per Rousseau, esce dallo stato di natura ed entra in quello civile:

 

«Tale passaggio dallo stato di natura allo stato civile produce nell’uomo un mutamento molto notevole, sostituendo nella sua condotta la giustizia all’istinto e conferendo alle sue azioni la moralità di cui prima mancavano. Solo a questo punto, succedendo la voce del dovere all’impulso fisico e il diritto all’appetito, l’uomo che fin qui aveva guardato a se stesso e basta, si vede costretto ad agire in base ad altri princìpi e a consultare la ragione prima di ascoltare le inclinazioni.»

 

La scrittura è la prova finale dell’uscita dell’uomo dallo stato istintivo che governa le altre bestie, lo rende unico e separa la Storia, la grande epopea dell’umanità, dalla Preistoria, dove il genere umano era composto da ominidi poco più che scimmie. In altre parole, la Storia incomincia con la scrittura perché in quel momento la biologia cede il passo alla cultura. Karl Jaspers, nella sua opera Origine e senso della storia, ribadisce come anche la Preistoria abbia la sua importanza. Tuttavia essa, “spiritualmente”, non può essere considerata Storia, perché quest’ultima esiste solo dove la cultura rende l’uomo consapevole del tempo e del suo trapassare.  La Storia inizia quando la civiltà ci rende speciali, come scrive Hermann Schneide nella sua Storia universale delle civiltà del mondo  del 1927:

 

«Per decine di migliaia di anni ci sono state creature simili a noi, per centinaia di migliaia di anni prima dell’Era Glaciale. Umanità inizia davvero solo dopo la fine dell’Era Glaciale; solo in seguito le scimmie sono diventate uomini sulla via della civiltà.»

 

Così anche J.M. Roberts:

 

«La Storia umana iniziò quando l’eredità della genetica e del comportamento, che fino a quel momento erano stati gli unici modi di dominare l’habitat, vennero superati attraverso una scelta consapevole.»

 

O William Mc Neill:

 

«Quando l’evoluzione culturale prese il sopravvento sull’evoluzione biologica, la storia iniziò ad essere in senso stretto.»

 

In definitiva, l’uomo nasce quando la biologia cede il passo alla cultura e alla civiltà. In questi termini, sembra che sia stata la civiltà a creare l’uomo in quanto tale, e non la civiltà ad essere stata un prodotto dell’essere umano. A questo punto va però spezzata una lancia a favore di Rousseau. Giustamente, Robert Smail riconduce questa concezione dell’umanità “partorita” alla Storia da una vittoria della cultura sulla natura ad un pensiero di origine rousseauiana. Non va ad ogni modo dimenticato come, nella visione di Rousseau, gli uomini operino questo cambiamento sulla base di diritti che vengono definiti “naturali” che rendono gli uomini, almeno dal punto di vista del diritto e delle possibilità a ognuno di loro concessi, uguali per natura. Tuttavia, questa nascita della Storia come emancipazione dalla natura biologica dell’uomo non nasce solo dall’idea che l’uomo si faccia qualcosa in più di un animale, ma che sia anche stato creato per questo scopo. Si è visto come molte concezioni della Storia Sacra siano state laicizzate ma siano sopravvissute sotto altre vesti nel corso del tempo. La stessa cosa si potrebbe dire a proposito dell’idea religiosa che vede nella Storia il dipanarsi della Provvidenza divina. È famosa la frase di Sant’Agostino nel De Civitate Dei:

 

«Egli non ha lasciato senza l’armonia e quasi la pace delle parti non solo il cielo e la terra, l’angelo e l’uomo, ma anche l’interno di un piccolo e insignificante animale, la piuma di un uccello, il fiore dell’erba, la foglia dell’albero. Quindi non si deve assolutamente pensare che abbia voluto rendere estranei alle leggi della sua provvidenza i regni umani, i loro domini e soggezioni.»

 

Anche George Fisher scrive nelle sue Linee guida:

 

«Ci sono leggi del progresso storico che hanno le proprie radici nelle caratteristiche della natura umana. Fini vengono portati avanti con evidenti segni di un Piano. La Storia, come tutto, è l’andare avanti di un immenso piano…»

 

Oltre a questa visione della Storia come svolgersi di un piano, vanno prese in considerazione quelle dottrine filosofiche che vedevano le epoche come palcoscenico delle azioni di grandi uomini. Basti pensare alla grande tradizione storiografica greca e latina, da Erodoto a Svetonio passando per Plutarco e Tacito, per arrivare al Superuomo di Nietzsche fino alla filosofia di Giovanni Gentile, che vedeva la vita di alcuni uomini illustri come “incarnazione” delle forze vitali della Storia che in un’epoca prendevano il sopravvento. Anche qui appare la tendenza a “laicizzare” le figure biblico-mitiche degli eroi che semplicemente diventano i “timonieri della Storia”. Per gli storici infatti la mancanza di figure eccezionali “privava” la Preistoria della dinamicità di quei grandi personaggi. Scrive infatti Fisher nel suo volume sulla Storia Universale del 1885:

 

«Il progresso di una società è stato inseparabilmente connesso con le azioni di persone eminenti… I traguardi di eroi compaiono nella Storia autentica uscendo dall’era oscura del mito e delle favole. Grandi invenzioni, dopo i primi passi della civiltà, possono essere ricondotte a precisi attori, esaltate dal loro genio al di sopra dei mediocri… Le Nazioni hanno i loro piloti tanto in tempo di guerra, quanto in tempo di pace.»

 

La mancanza di documenti, l’impossibilità di riconoscere figure preponderanti e l’enorme lentezza che secondo gli storici aveva caratterizzato la Preistoria contribuiva a far ritenere come netta la divisione fra le due epoche. Ancora due importantissime teorie sull’evoluzione degli esseri viventi animarono il dibattito sulla nascita dell’uomo come “emancipazione” dallo stato di natura: il Lamarckismo e il Darwinismo. Per i contemporanei il problema consisteva nel fatto che il darwinismo non sembrava adatto a spiegare la rapidità dell’evoluzione umana.  La teoria di Lamarck, d’altro canto, presupponendo la trasmissione di conoscenze ed abilità acquisite in maniera più rapida rispetto al darwinismo, sembrava giustificare l’enorme corsa dell’umanità verso il progresso dalla Rivoluzione scientifica in avanti. Di lì il passo fu breve: se la teoria di Lamarck non è adatta per spiegare l’evoluzione animale, calza perfettamente con quella umana, mentre quella darwinista si adatta benissimo alla Preistoria dell’uomo, quando egli era ancora soggetto alle mere leggi biologiche e la cultura non aveva ancora fatto la sua comparsa. Le teorie dell’evoluzione ottocentesche quindi, vennero addomesticate per rafforzare l’idea di una rottura nel corso dell’evoluzione umana. In seguito ai recenti studi degli etologi, gli esseri umani non sono più considerati come gli unici viventi a possedere una cultura. Le canzoni cinguettate dagli uccelli e le vie migratorie dei volatili infatti, sono state scoperte essere trasmesse “culturalmente” dalle generazioni maggiori a quelle minori, inscritte nel genoma. I delfini invece insegnano alla propria progenie come utilizzare spugne marine per proteggere il “naso” in determinate situazioni di caccia. Ad onor del vero, c’è da citare la conciliante teoria definita “effetto Baldwin” che ritiene che nel mondo animale molti comportamenti dettati da una “cultura” possano, col tempo, fissarsi nei geni.  Ad ogni modo, non solo dunque l’uomo non è il solo a possedere una cultura (nonostante la nostra sia ovviamente estremamente più complessa) ma va rianalizzata una certa concezione che se ne ha e che la considera come un “cammino intelligente”. Gli studiosi Richerson e Boyd, analizzando alcuni studi su quella che chiamano “inerzia culturale”, hanno evidenziato come, in seguito a catastrofi naturali, per lungo tempo le comunità umane che erano abituate ad un certo ambiente naturale per lungo tempo hanno perseverato con un sistema culturale che nulla aveva a che fare con il nuovo ambiente con il quale questi erano ormai obbligati a rapportarsi. Secondo tali interpretazioni, assieme alle evidenze sull’enorme complessità della nostra cultura rispetto al regno animale, la differenza fra gli umani e gli altri esseri viventi non risiede nel possedere una cultura o meno, ma nel suo grado di complessità: l’uomo è un essere naturalmente artificiale. Essendo “fisicamente” poco competitivo rispetto agli altri animali, da subito ha dovuto fare affidamento sulla cultura e sull’espansione delle capacità cerebrali per arrivare in cima alla catena alimentare. Tra i prodotti principali della “cultura” come sistema di relazioni sociali, visione del mondo e produzione di conoscenza, c’è anche la costruzione del fattore che per gli antropologi è stato determinante: l’altruismo. I gruppi umani che lo hanno praticato più a lungo sono stati infatti in grado di costruire reti sociali molto più forti e complesse in grado di vincere la competizione con altri gruppi tanto “animali” quanto “umani”. Tutto ciò rafforza l’idea che potremmo definire “classica”, e che sarà ormai familiare al paziente lettore, dell’umanità come prodotto culturale che vince sulla nostra natura biologica. Alla luce di questi studi dunque, non si può negare che l’emancipazione dell’uomo dallo “stato di natura” non sia avvenuto, ma che vada collocato nella Storia profonda dell’umanità, molto prima della scrittura, quando l’uomo ha iniziato ad intessere complesse reti sociali e a produrre cultura in senso lato, anche non documentabile attraverso fonti scritte. Tuttavia, come specificato in precedenza, la cultura di un gruppo umano può strutturarsi su un dato ambiente e non necessariamente adattarsi con rapidità a cambiamenti sociali o ambientali: può essere quindi un sistema meno intelligente di quanto si possa ritenere. Come Appadurai ha giustamente scritto: «dovremmo forse prendere coscienza che le cose hanno una vita sociale oltre di noi». Nel prossimo, ed ultimo, articolo, svilupperemo ancora la dicotomia cultura contro natura, e proveremo a tirar delle conclusioni.

 

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Lo spazio dell'esperienza umana (prima parte)

Nel caso in cui qualcuno si sia mai chiesto: “quando incomincia la Storia?” ebbene, deve sapere che si è posto una domanda tutt’altro che semplice. Il significato della potenziale risposta va infatti al di là di una noiosa discussione tra studiosi. Partiamo da una considerazione di base. La Storia, come scrive Marc Bloch, ha come oggetto di indagine non il passato in senso lato, ma “l’uomo stesso e i suoi atti”. Essendo dunque una disciplina che si occupa di studiare le vicissitudini umane, dando una data d’inizio della Storia non si delimita solo il suo campo di ricerca: implicitamente, si stabilisce quando l’uomo comincia ad essere tale, quando acquista quelle caratteristiche che lo traghettano dalla Preistoria degli ominidi alla Storia dell’Umanità.

 

Se ponessimo la questione ad un qualsiasi pubblico, o andassimo a consultare testi scolastici di non molto tempo fa, la risposta alla domanda: “Quando incomincia la Storia?” potrebbe apparire semplice. La Storia incomincia fra il 5.000 e il 4.000 a.C. in Mesopotamia, con la nascita della scrittura nelle prime grandi civiltà del Medio Oriente, o della Mezzaluna Fertile. Con l’apertura della storiografia ad una concettualizzazione meno eurocentrica, qualcuno risponderebbe parlando delle grandi civiltà indiane o dei grandi fiumi della Cina.

 

Ovviamente la risposta a questa domanda non è sempre stata la stessa. Per secoli la Storia dell’uomo è cominciata nel giardino dell’Eden, ed ha risentito delle influenze della Storia Sacra. Questa idea, presente negli scrittori medievali come Eusebio, Gregorio di Tours e Otto von Freising affonda le proprie radici nella concezione classica dell’età dell’Oro. Uno dei più antichi scrittori greci di cui si hanno testimonianze, Esiodo, nella sua opera Le Opere e i Giorni (Έργα καί Ημέραι, Erga kai Hemerai), pone come prima epoca dell’umanità l’Età dell’Oro. Questo sarebbe stato un periodo di abbondanza, pace e prosperità nel quale gli uomini avevano vissuto liberi e in pace. Con l’avvento del cristianesimo, la cultura greco-latina viene “battezzata” e inscritta nel sistema di pensiero giudaico-cristiano. L’Età dell’Oro esiodea si trasforma nel Giardino dell’Eden.

 

L’idea che la Storia iniziasse con la Genesi tuttavia resisterà molto oltre la fine del Medioevo. La monumentale Storia del mondo in cinque volumi, di Sir Walter Raleghn prende avvio nel giardino dell’Eden, sebbene sia stata pubblicata all’inizio del diciassettesimo secolo. Anche la Storia Universale dello storico francese Bousset, del 1681, incominciava con il racconto mitico di Adamo ed Eva. Per questi storici pre-illuministi, ma che comunque non erano immuni al razionalismo del Seicento (si pensi ai grandi filosofi razionalisti di quel secolo come Descartes e Leibniz), l’inizio dell’umanità coincideva con quello della Terra e della creazione. Fino al diciassettesimo secolo la vita della Terra secondo la maggioranza degli studiosi variava dai 3.700 ai 6.000 anni.

 

Ancor prima delle scoperte dei primi geologi sull’età della Terra, tra gli anni ’30 e i ’60 dell’Ottocento, questa cronologia, detta Mosaica, venne messa in crisi dal contatto che i viaggiatori europei ebbero con altre culture. La Cosmologia cinese, infatti, nel sedicesimo secolo datava l’inizio dei tempi a circa 880.000 anni prima, e comunque teneva note “certe” di eventi che erano accaduti 660 anni prima del “Diluvio”, evento cardine nella cronologia biblica, che risaliva ad un massimo di 6000 anni. Una soluzione consistette nell’utilizzare una nuova unità di misura al posto delle generazioni bibliche. Ciò consentiva di aggiungere circa 1.440 anni e di aggirare, seppur parzialmente, il problema posto dalla mancata collimazione delle due cronologie.

 

La cronologia biblica inoltre forniva agli storici dell’Età Moderna la possibilità di comprimere ulteriormente l’area di indagine utilizzando il “Diluvio Universale”. Secondo molti pensatori dei secoli sedicesimo e diciassettesimo infatti, il Diluvio aveva riportato a zero le lancette della civiltà umana, distruggendo qualsiasi forma di documento che potesse rendere conoscibile quel passato.

 

«Senza documenti, non c’è storia», solevano dire Charles Langlois e Charles Seignobos, autori de Introduzione allo studio della Storia, che nella traduzione inglese per tre decenni (a partire dal 1898) rappresentò l’introduzione più importante per gli studenti di lingua inglese. Per il grande storico napoletano Giambattista Vico, che in seguito assieme a Leopold Von Ranke verrà ritenuto uno dei padri della storiografia moderna, il Diluvio segnava una vera e propria rottura epistemologica tra ciò che è conoscibile e ciò che non lo è. Robert Jacques Turgot, economista francese e Controleur général delle finanze reali sotto lo sfortunato Luigi XVI, nel suo libro Indagine filosofica sull’avanzamento dell’Intelletto umano ci spiega che:

 

«L’urgente bisogno di procurarsi mezzi di sussistenza in deserti inospitali, che non erano popolati da altro se non da bestie selvagge, obbligò gli uomini a disperdersi in tutte le direzioni e a diffondersi per tutta la Terra. Presto le tradizioni originali furono dimenticate, e le nazioni, separate da vaste distanze e ancor di più dalla diversità delle lingue, furono spinti nello stesso stato di barbarie in cui ora vediamo i selvaggi americani».

 

Anche l’erudito parigino Antoine-Yves Gouget nel suo libro più famoso, De l’origine des lois, des artes et des sciences, spiegava come il Diluvio avesse portato gli uomini a dimenticare conoscenze che in precedenza gli consentivano la lavorazione del ferro.

 

Paradossalmente questa visione della Storia era fortemente influenzata dal razionalismo seicentesco e settecentesco. L’età dei Lumi scartò l’idea di una Storia vista come una caduta da una mitica età dell’oro e tese a vederla come un progresso della ragione umana e della tecnica che avevano sollevato l’uomo da una prima fase di barbarie. Questa idea sembrava trovare conferma nell’osservazione che gli antropologi dell’epoca avevano condotto sulle popolazioni “selvagge” del Nuovo Mondo d’Asia e Oceania. Il tempo “al di là” del Diluvio dunque, volendo utilizzare dei termini kantiani, altro non era che una sorta di noumeno della Storia: inconoscibile sotto ogni aspetto.

 

Tuttavia, il nostro paziente lettore potrebbe obiettare dicendo che queste concezioni del passato dell’Umanità sono precedenti al Positivismo degli ultimi due secoli. Da tempo la Scienza Storica possiede un metodo scientifico più rigoroso, inoltre le nostre teorie odierne sull’inizio della Storia e sulla conoscibilità del passato si sono immensamente evolute. Siamo sicuri che sia davvero così?

 

Secondo lo storico medievale Daniel Smail, non ci siamo affatto liberati dalla Storia Sacra. Tutto ciò che abbiamo fatto è stato laicizzarla: la nascita dell’uomo è divenuta semplicemente la nascita della civiltà, conservando il tempo della Storia “compresso”. In molti manuali, scolastici e non, si trova ancora, quale data d’inizio della Storia una data compresa tra il 4.000 e il 5.000 a.C., con spartiacque la comparsa della scrittura in Mesopotamia. Un numero di anni non troppo diverso dai seimila che la cronologia mosaica indicava come età della Terra. Non solo, anche le catastrofi bibliche sono sopravvissute nella teorizzazione degli storici, sebbene sotto altre vesti.

 

Prendiamo ad esempio due testi scritti fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Nel 1899 lo storico Arthur Richmond Marsh pubblica l’introduzione al volume di Henry Hallam History of Europe during the Middle Ages. Influenzati profondamente dalle scoperte fatte in campo geologico e dalle idee di evoluzione biologica dei popoli, gli storici statunitensi di quel periodo videro i barbari che distrussero l’Impero Romano, e che diedero avvio al medioevo, alla stregua dei “primitivi” delle Americhe tanto che un altro storico dell’epoca, Ferguson, paragonò esplicitamente Galli, Britanni e Germani ai nativi nord-americani. Questi invasori, nella teorizzazione degli storici statunitensi, avevano talmente influenzato e corrotto il mondo latino, da renderlo difficilmente conoscibile. Oltre a ciò, il mondo da cui erano discesi gli Stati nazione ed i popoli era un mondo palesemente medioevale, ed era quindi l’unico nostro possibile progenitore e l’unico di cui fosse lecito interessarci.

 

Ancora nel 1903, Robinson pubblica An Introduction to the History of Western Europe, nel quale scrive:

 

«Una delle domande più difficili alle quali uno storico deve rispondere concerne quella che gli domanda in quale momento incomincia la sua narrazione. Quanto dobbiamo risalire indietro nel tempo? Scoperte recenti dimostrano che l’essere umano ha cacciato e vagato per il mondo negli ultimi centinaia di migliaia di anni prima che si stanziasse».

 

Anche Robinson affermava che, dato che la nostra civiltà discende direttamente dalla fusione dei due mondi romano e barbarico, non c’è bisogno di risalire oltre nel tempo. Riproporrà poi questa idea nel suo volume del 1926 The Ordeal of Civilization.

 

Tutto ciò che abbiamo fatto dal Seicento razionalista in poi dunque, altro non è stato che dare vesti nuove a preconcetti della Storia Sacra, trasformando il Diluvio biblico in un Diluvio di barbari che aveva reso impossibile, o anche semplicemente inutile, conoscere ciò che era stato prima della fusione tra il mondo latino e quello germanico.

 

Questa tendenza a comprimere il tempo nel quale l’umanità è stata effettivamente tale come abbiamo detto si scontrò duramente con “l’estensione” del tempo geologico che avvenne negli anni ’60 dell’Ottocento. Il biologo americano Stephen Jay Gould la definì una rivoluzione di proporzioni galileiane.

 

Come si è già detto, la principale ragione per la quale gli storici per secoli hanno “compresso” lo spazio dedicato alla Storia nel corso dell’epopea umana, separandola dalla preistoria, è dovuto alla supposta mancanza di documenti lasciatici da quella età, soprattutto scritti. Tuttavia questo semplice assioma «no documenti, no Storia» può essere messo in crisi. Anche branche “classiche” della disciplina storica negli ultimi centocinquanta anni sono impensabili da costruire senza l’utilizzo di fonti “non scritte”. Si pensi all’archeologia, che spesso ha confermato le testimonianze lasciateci dalle fonti antiche, ma che altrettanto spesso le ha smentite. Come ci ricorda giustamente Marc Bloch

 

«è nella seconda categoria di testimonianze (quelle non scritte e non intenzionali), è nei testimoni loro malgrado che la ricerca storica, è stata indotta a riporre sempre maggiore fiducia. Confrontate la storia romana come la scrivevano Rollin o lo stesso Niebuhr, con quella che qualunque compendio mette oggi sotto i nostri occhi: la prima, che attingeva il meglio della sua sostanza da Tito Livio, Svetonio o Floro, la seconda, che è costruita, con iscrizioni, papiri, monete. Interi brani del passato non hanno potuto essere ricostituiti altro che in questo modo: tutta la preistoria, quasi tutta la storia economica, quasi tutta la storia delle strutture sociali. Persino nel presente, chi di noi non preferirebbe aver in mano, più che tutti i giornali del 1938 o del 1939, qualche documento segreto di cancelleria, qualche confidenziale rapporto di comandanti in capo?»

 

Ad ogni modo, ci ha aiutato a ricostruire con più esattezza e precisione epoche distanti. Lo stesso dicasi per l’Età medievale, per la quale i documenti scritti di certo non abbondano, soprattutto per quanto riguarda l’Alto medioevo. Tuttavia anche epoche più recenti ad oggi sarebbero più difficili da ricostruire con le sole fonti scritte. Nel 1948 a New York, nella Columbia University, nasce il primo archivio di Storia Orale. Il fondatore, lo storico e giornalista americano Allan Nevins, lo fonda con la precisa intenzione di dare voce ad individui che nel loro transitare attraverso la Storia non sono soliti lasciare testimonianze scritte, così da lasciare alle future generazioni testimonianze che da altre epoche non ci sono pervenute. Le criticità connesse alle testimonianze scritte saranno tuttavia oggetto della seconda parte dell’articolo.

 

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Il corpo del nemico (seconda parte)

[leggi la prima parte]

 

Come si è detto, la scomparsa dei corpi da accidentale durante la Prima Guerra Mondiale si fa volontaria nella realtà dei campi di concentramento di metà secolo. In queste realtà l’intera macchina organizzativa aveva il compito di ridurre il nemico in polvere, letteralmente. I corpi degli internati, alcuni dei quali considerati nemici irriducibili della razza e del Reich (gli ebrei in primis), dovevano essere distrutti fin nella loro ultima esistenza biologica, fin nei loro tessuti, fin nelle loro ossa. Si spiega così la sorte di tutto ciò che non poteva esser ridotto in cenere nei forni, come le cataste di vesti, i denti, i capelli, i quali venivano riutilizzati o sepolti in fosse comuni. Anche qui i corpi ci sono testimoni attraverso la loro assenza. Ci raccontano di un totalitarismo che predicava una reductio ad unum della società in un'unica entità omogenea e che non poteva, in nessun modo, tollerare corpi esterni non assimilabili, in una estrema riduzione della complessità del reale.

 

C'è chi ha trovato nell’uso della bomba atomica da parte degli Stati Uniti alcune similitudini con la volontà di cancellazione del regime nazista, quantomeno nel risultato finale (voluto o meno) ottenuto sui corpi dei nemici, a cui invece puntavano dichiaratamente i campi di sterminio tedeschi. I bombardamenti su Hiroshima e Nagasaki del ’45 infatti, nel primo raggio d’azione della bomba, polverizzarono letteralmente gli abitanti di quelle cittadine, lasciandone solamente ceneri od ombre sui muri. È significativo il fatto che gli Stati Uniti abbiano sganciato la bomba atomica proprio sul Giappone. Solitamente si rimarca il fatto che il paese asiatico era l’ultima potenza dell’Asse rimasta in guerra contro gli Alleati e che la resistenza dell’esercito imperiale, seppur questo fosse molto malridotto, prometteva di essere feroce e sanguinosa. Spesso si è spiegata la decisione del presidente Truman come volta a salvare vite americane e ad evitare la morte dei propri soldati in una guerra che avrebbe condotto inevitabilmente alla presa di Tokyo, ma soltanto dopo spargimenti di sangue su ogni palmo di terra ancora controllata dai Giapponesi. Tuttavia, Giovanni De Luna ci fa notare come il Giappone fosse l’unico paese dell’Asse sul quale la propaganda alleata non avesse operato la fondamentale distinzione che aveva condotto nei confronti di Germania e Italia.

 

Nei confronti dei suoi nemici europei, infatti, la propaganda angloamericana aveva separato il popolo tedesco e quello italiano dagli avversari materiali dei campi di battaglia; per questo motivo i soldati alleati in partenza per il fronte erano convinti di andare a combattere non contro italiani e tedeschi, ma contro fascisti e nazisti, anche e soprattutto per liberare gli italiani e i tedeschi da un giogo folle. Con i giapponesi, invece, questa distinzione non venne mai adoperata. L'obbiettivo dei soldati statunitensi era quello di combattere direttamente il popolo nipponico, non gli imperiali che opprimevano i giapponesi. Questi ultimi erano visti dagli americani come individui che un cieco e folle attaccamento nei confronti di una figura medievale come quella dell’imperatore aveva reso macchine da guerra subdole e spietate, i quali avanzavano incuranti del nemico e sacrificavano loro stessi in attacchi suicidi pur di uccidere il più possibile. Se avessero operato la distinzione tra nemico e popolo del nemico che invece avevano utilizzato per Italia e Germania, gli americani non avrebbero potuto infatti giustificare un attacco simile a città civili. Di nuovo, l’assenza dei corpi ci parla tanto quanto la loro presenza, testimoniandoci due tipi di nemici diversi nella mente dei vincitori.

 

Trattando sempre del secondo conflitto mondiale, ci sono altri corpi che ci parlano, questa volta attraverso la loro presenza ostentata. Il caso è ovviamente quello dei corpi dei “traditori” partigiani esposti e seviziati dagli eserciti fascista e nazista, ed ovviamente il trattamento simile riservato ai soldati dell’Asse da parte dei movimenti di Resistenza. In Italia dopo il ’43 con la conclusione dell’operazione Husky, che aveva portato gli americani a sbarcare sulla penisola, la repressione delle truppe dell’Asse conobbe un aumento d’intensità nei confronti di tutte le forme di dissidenza. La politica generalmente adottata in caso di esecuzione o uccisione di partigiani o dissidenti era quella di esporre il corpo per le strade, nei luoghi di maggior aggregazione, o in corrispondenza degli incroci o dei bivi delle strade. Spesso i cadaveri avevano appesi al collo cartelli che spiegavano ai passanti la ragione per la quale erano stati uccisi ed esposti: «sono un partigiano» o «ho aggredito un gruppo della Decima Mas». La spiegazione più semplice che si sarebbe tentati di dare è che queste esposizioni di cadaveri dovevano servire da esempio nei confronti di chiunque avesse voluto tradire, un monito per scoraggiare ulteriori individui a passare al nemico. Senza dubbio questo è uno dei messaggi che quei corpi comunicavano, ma di certo non è il solo.

 

Hannah Arendt nel suo saggio On Violence (1970) opera una distinzione fondamentale fra potere e violenza, che spiega la logica soggiacente a questi trattamenti inflitti ai nemici già morti. Secondo la filosofa tedesca, il potere ha indubbiamente un’anima violenta che gli consente di instaurarsi e di mantenere leggi e regole. Tuttavia, questi raramente fa mostra della sua capacità di violenza all’interno della società in maniera troppo evidente.

 

Come ci dimostra Foucault nella sua riflessione, il suo dominio si manifesta tramite tutta una serie di strutture che posseggono un’anima violenta ma nascosta, che si esercita tramite il controllo più o meno assoluto della società (scuole, ospedali, carceri, cliniche). La violenza viene utilizzata in maniera manifesta da un'entità politica o istituzionale solo quando questa viene minacciata o sfidata, e il suo potere (inteso come dominio e controllo sulla società o sul territorio) inizia a scemare. In virtù di questa sfida, l’apparato fa uso della violenza (mezzo attraverso il quale ha fondato la sua precedente autorità) per ribadire il suo potere. Si consuma quindi un nuovo atto fondativo del potere che tenta di affermare di nuovo la propria supremazia. Questa è la funzione che i cadaveri dei nemici e dei traditori svolgono. Essi sono segni, modificati nella loro struttura fisica dalla violenza, per ribadire che un certo potere è ancora attivo. Il corpo ucciso e martoriato è in definitiva una sorta di segnale attraverso il quale il potere comunica. In quest’ottica, il cartello appeso al collo aiuta a ristabilire una connessione diretta, rapida e molto convincente che restituisce all’ente istituzionale sfidato uno dei monopoli che lo costituivano: quello di poter esercitare la giustizia. La vista di un “reo”, giustiziato sul posto, con un cartello che laconicamente individua la ragione della sua colpevolezza, identifica immediatamente la sua colpa e la sua pena, dando nuova forza alla giustizia grazie alla rapidità con cui essa agisce e all’estrema semplicità del messaggio: a trasgressione corrisponde morte.

 

Spostandoci avanti nel Novecento, fu dopo il Vietnam che l’elusione e la cancellazione dei morti cominciarono a marciare di pari passo. Con l’inizio della Guerra Fredda, in Occidente toccò infatti proprio al Vietnam far parlare di nuovo i corpi dei caduti in battaglia. Le immagini delle decine, centinaia di bare con la bandiera americana che contenevano giovani morti per una guerra che in molti non appoggiavano o non capivano minò fortemente il sostegno popolare all’azione bellica del governo. In seguito a questo trauma, gli Stati Uniti e l’Occidente tornarono a nascondere le immagini dei corpi dei propri soldati caduti, proprio come avveniva prima della Guerra di Secessione americana.

 

Durante i recentissimi conflitti in Medio Oriente infatti, «alcune alte gerarchie militari hanno parlato addirittura dell’operazione zero morti, un’ultima evoluzione della guerra contemporanea ad alta tecnologia nella quale il numero di morti è bassissimo poiché la morte dei soldati non rientra nelle possibilità prese in considerazione dall’alto comando». Come ribadisce il generale Mini, «lo scopo della guerra non è morire. La possibilità di morire neppure esiste perché la Morte non è un’opzione considerata». Ovviamente, l’espressione «zero morti» sottintende che si parli solo di morti di eserciti Nato; da un lato quindi è una specifica modalità operativa della ipertecnologica guerra contemporanea (con combattimento attraverso droni guidati con controllo da remoto) dall’altro torna di nuovo, centocinquant’anni dopo l’avventura di Brady e della sua troupe, un nuovo tentativo, ostinato, di negare il rapporto tra la Guerra e la Morte. Così, nel corso della Guerra del Golfo nel 1991, i servizi d’informazione inviavano alle agenzie di stampa occidentali fotografie prive di qualsiasi riferimento alla morte dei propri soldati o di quelli nemici. 

A nessuno, ad esempio, fu concesso di vedere il materiale (acquisito dalla rete NBC) che documentava la sorte di migliaia di soldati di leva iracheni che, fuggiti da Kuwait City alla fine della guerra, il 26 febbraio, furono vittima di bombardamenti a tappeto con esplosivi, napalm, uranio impoverito e bombe a grappolo.

Anche nelle zone di conflitti “irregolari” e teatro di genocidi, come nei Balcani di fine ‘900, i corpi tornano a scomparire. I morti spariscono di nuovo sotto il vessillo della pulizia etnica che l’Europa aveva già conosciuto sotto il nazismo, e riaffiora la volontà letterale di annichilire il nemico nel senso etimologico del termine, ossia di renderlo nihil, cioè nulla. In questa luce vanno lette le fosse comuni che divennero tristemente famose in quel periodo. Il corpo del nemico in primis veniva privato della sua individualità, accatastato insieme a migliaia di altri senza nome, e infine sepolto in questa tomba senza segni e camuffata, in modo che fosse restituito in toto alla sua mineralità biologica, riassorbito senza che si potesse trovare traccia alcuna. A fine Novecento quindi, alle soglie dell’era digitale e dei social media, i corpi continuano a parlare attraverso la loro assenza, mentre nel ventunesimo secolo gruppi terroristici ne fanno in rete un uso spregiudicato. Qui, negli ultimi atti di questa storia, il corpo smette di essere soggetto e torna ad essere, come i corpi dei partigiani, veicolo di un messaggio.

 

 

Per saperne di più:

Per approfondire l’argomento specifico si consiglia la lettura del saggio di Giovanni De Luna: Il corpo del nemico ucciso. Per indagare il rapporto fra violenza e simbologia, si può senza dubbio affrontare il classico di René Girard, La violenza e il sacro, mentre per una riflessione più filosofica sulla violenza si possono citare Sulla Violenza di Hannah Arendt, o Saggio sulla violenza di Wolfgang Sofsky.

 

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Il corpo del nemico (prima parte)

Ognuno di noi ha sentito dire almeno una volta nella vita il detto «i morti non parlano». Siamo sicuri però che sia davvero così? Forse no. Da tempo, infatti, gli storici si chiedono quanto i morti possano raccontare sui vivi, soprattutto in merito all’esperienza bellica. Secondo Hillman, la guerra è uno di quei temi mitici «che attraversano i tempi e sono senza tempo» e uno dei «grandi universali dell’esperienza», che ha perciò caratterizzato ogni epoca della storia umana.

 

A un primo sguardo sull’esperienza della guerra in età contemporanea, ciò che risalta è una costante volontà di smembrare il chiaro binomio guerra-morte. È significativo il fatto che, a prescindere dall’epoca nella quale ci si è fermati a riflettere sul fenomeno, la riflessione sulla guerra abbia perlopiù indagato le ragioni della violenza, o le strategie da utilizzare per uscire vittoriosi dagli scontri, mentre quasi mai ci si è soffermati sull’orrore prodotto dall’inevitabile modificazione fisica del corpo. Secondo Giovanni de Luna, a essere qui chiamata in causa non è l’astoricità assoluta del binomio guerra-morte, ma è la reticenza con cui tradizionalmente gli storici hanno affrontato il tema. È come se l’aspetto essenziale ed evidente della guerra fosse dimenticato e risulti tendenzialmente assente soprattutto nelle analisi strategiche e politiche, anche negli scritti di classici come quelli di Clausewitz, Liddell Hart, Churchill, Sokolovskiy e altri.

 

Zygmunt Bauman, in Paura Liquida, sottolinea come questa mancanza di riflessione ad una caratteristica pur essenziale della guerra possa rientrare all’interno di una logica più ampia di rimozione il cui fine è accettare l’idea della morte, poiché, anche nella modernità segnata dal progresso scientifico, la lotta contro la morte «inizia dalla nascita e riempie la vita. È punteggiata di vittorie per tutta la sua durata: eppure l’ultima battaglia è destinata ad essere persa». 

 

Opposta a questa tendenza vi è però la volontà di documentare, volontà che porterà a descrivere anche minuziosamente la pratica della guerra e il destino dei suoi attori attraverso un’invenzione nata alle soglie della contemporaneità: la fotografia. Occorre però fare una premessa al fine di non assegnare alla fotografia il ruolo di difensore dell’oggettività. Susan Sontag, scrittrice ed intellettuale statunitense, ha infatti sottolineato come la fotografia «è sempre un’immagine che qualcuno ha scelto: fotografare significa inquadrare, e inquadrare vuol dire escludere». La relativa oggettività della fotografia non costituisce tuttavia un ostacolo insormontabile per lo storico, anzi. Come ci ricorda Marc Bloch nella sua Apologia della Storia, a differenza di un giudice in tribunale, lo storico non ha un interesse assoluto nell’usare solo prove vere a discapito delle false. Infatti, anche le testimonianze che si discostano dalla realtà possono rivelare aspetti importanti sulle intenzioni, sul contesto culturale e sulla psicologia di chi ha elaborato quelle fonti. Al fine di fugare ogni dubbio, un rapido sguardo alla storia della fotografia a tema bellico può darci velocemente conferma tanto della persistenza nella volontà di rimuovere il corpo morto dalla riflessione sulla guerra anche in presenza di strumenti apparentemente più oggettivi, quanto della non totale oggettività e imparzialità dell’occhio fotografico.

 

I primi corpi di spedizione accompagnati sul campo da fotografi sono stati quelli che hanno preso parte alla Guerra di Crimea, svoltasi tra il 1853 e il 1856, nella quale gli eserciti dell’Impero russo fronteggiarono Impero Ottomano, Inghilterra, Francia e Regno di Piemonte-Sardegna. A questi eventi risalgono i primi album sistematici di foto scattate in contesto bellico. In questo caso i comandi diedero espresso ordine di non fotografare morti, mutilati e malati. In tal modo, il fotografo al seguito del corpo di spedizione britannico, Roger Fenton, fu costretto giocoforza a ritrarre plotoni impettiti in uniforme da campo, o artiglieri in posa accanto ai pezzi delle loro batterie, tanto che le sue fotografie furono ben lungi dall’essere un reportage di quella che fu una vera e propria carneficina (persero la vita in quei tre anni circa 250.000 uomini), e finirono per trasmetterne l’immagine fuorviante di «una scampagnata per soli uomini».

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La percezione pilotata e la realtà artefatta: la strategia della tensione tra stampa e intelligence

Tra il 1968 ed il 1974 l’Italia venne insanguinata da una lunga serie di attentati esplosivi. I più famosi: Piazza Fontana, Milano, 12 dicembre 1969, 17 morti e 105 feriti. Treno Freccia del Sud, 22 luglio 1970, Gioia Tauro, 6 morti e 54 feriti. Uccisione dei carabinieri a Peteano, 3 morti e 3 feriti. Strage della questura di Milano, 17 maggio 1973, 4 morti e 46 feriti. Piazza della Loggia, Brescia, 28 maggio 1974, 8 morti e 94 feriti. Treno Italicus, San Benedetto Val di Sambro, 4 agosto 1974, 12 morti e 44 feriti. Da diversi anni le inchieste giudiziarie raccolte nelle due Commissioni Stragi del Parlamento, sotto la presidenza rispettivamente dei presidenti Libero Gualtieri e Giovanni Pellegrino, hanno accertato che questi ordigni erano tutti legati alla trama della cosiddetta “strategia della tensione”. Tale definizione, come riporta Mirco Dondi nel suo ultimo saggio L’eco del boato, venne coniata dalla testata britannica The Observer all’indomani di Piazza Fontana e si diffuse con il best seller del giugno 1970 La strage di Stato: controinchiesta:

Questo fu da allora il nome dato a quella rete di eventi sanguinosi a loro volta inscritti nell’operazione dei servizi segreti USA il cui nome in codice era “stay behind”. Quest’ultima si prefiggeva di orientare la percezione che governi e opinioni pubbliche di paesi alleati avevano rispetto alla propria conflittualità sociale e soprattutto rispetto al “pericolo rosso”.

Tutto ciò dovette avvenire rimanendo “celati nell’ombra”, ed i mezzi attraverso i quali agire nel caso italiano furono fino al ‘74 essenzialmente due: le stragi ed i tentativi di golpe. Il perché di tutto questo sforzo organizzativo da parte dei Servizi Segreti si spiega con un rapido sguardo alla posizione molto particolare dell’Italia nello scacchiere NATO: vicina sia alla Germania, divisa tra la NATO e il Patto di Varsavia e per di più confinante con la Jugoslavia, paese sul quale governava un regime comunista, sia all’Austria, nazione neutrale. Fu in definitiva un paese di confine e, pur essendo ufficialmente nello schieramento opposto all’URSS, possedette il più grande Partito Comunista dell’Occidente, come ci ricorda Guido Crainz nel suo agile saggio Autobiografia di una Repubblica. Cercare di influenzare la percezione che l’opinione pubblica aveva della situazione politica rientrò quindi nella logica della più generica lotta al comunismo a livello globale.

 

Nel nostro Paese, tali manovre di intelligence vennero condotte da elementi dei Servizi Segreti Italiani e Statunitensi che si servivano di gruppi di estrema destra come Ordine Nuovo per piazzare gli ordigni. Come detto, accanto agli attacchi dinamitardi, la “strategia della tensione” prevedeva anche il possibile utilizzo di forze paramilitari che avrebbero dovuto attuare, o anche solo minacciare, colpi di Stato. È il caso della famosa Gladio, un’organizzazione militare irregolare, estesa a tutto il Paese, nella quale formazioni miste di militari, ex-militari e civili si addestravano per entrare in azione nel caso di una vittoria elettorale comunista o di una invasione dell’URSS. Il segreto sulla sua esistenza è stato mantenuto da Giulio Andreotti fino al 24 ottobre 1990; tutto ciò in barba alla Costituzione che, all'articolo 18, vieta le associazioni segrete. Secondo quanto è emerso dalle analisi dei magistrati tanto l’uso degli ordigni, quanto la minaccia di un golpe altro non erano che strumenti di lotta politica. Sergio Calore e Vincenzo Vinciguerra, due terroristi neri, nella requisitoria al giudice Gianpaolo Zorzi affermano che «gli attentati sono una forma di riequilibrio degli assetti di potere».  

 

Il loro fine era quello della guerra psicologica. Ciò che contava non era tanto il numero di vittime o l’entità dell’obiettivo colpito ma, citando il titolo del volume di Mirco Dondi, L’eco del boato. L’eco del boato è tutto ciò che segue alla detonazione dell’ordigno, l’onda d’urto mediatica che esso produce, invadendo sia l’agenda delle principali forze politiche, sia la vita dei singoli cittadini. Finalità ultima non solo quella di turbare il clima politico del Paese ma, soprattutto, far ricondurre ad arte le responsabilità delle stragi a frange dell’estrema sinistra.

 

Uno dei più famosi tentativi di depistaggio passerà alla Storia come la “pista anarchica”, una teoria investigativa che tentò di sfruttare il passato terroristico che questo movimento aveva avuto tra fine Ottocento ei primi del Novecento. È il caso dell’anarchico Valpreda, accusato ingiustamente dei morti di Piazza Fontana. Questo dunque uno degli obiettivi, attribuire colpe costruite ad hoc ad una delle parti in gioco per screditarla agli occhi dell’opinione pubblica e, tramite uomini-ponte che avevano contatti con giornali come Il Borghese, o con agenzie di stampa come l’Ansa, martellare l’opinione pubblica mediaticamente al fine di battere la sinistra alle urne. Altro obiettivo delle stragi era quello di forzare la mano al governo per costringerlo ad emanare leggi speciali per colpire le estreme frange della sinistra o, addirittura, ad instaurare un regime militare, come era avvenuto in Grecia, Spagna e Portogallo.

 

Gli attentati dovevano spingere l’opinione pubblica a stringersi attorno alle istituzioni e alla Nazione messa sotto assedio dai “terroristi rossi” per rendere più solida la maggioranza di centro alle Camere ed indebolire il fronte delle sinistre, al fine di ridurre nella politica italiana il peso di partiti anti-NATO. Gli attentati continuarono anche dopo che larga parte dell’opinione pubblica iniziò ad avere forti dubbi sulla paternità rossa delle stragi; tuttavia, col venir meno della credibilità costruita da alcuni ambienti investigativi e di informazione, alle bombe sui treni e nelle piazze si affiancò la minaccia del golpe, la quale doveva servire da minaccia tangibile per intimidire gli ambienti favorevoli alla sinistra. Sino alla controinchiesta del giugno 1970 infatti, i reticoli paramilitari erano rimasti pressoché dormienti. Da quell’estate invece il fantasma del colpo di Stato iniziò ad aleggiare sul paese, preoccupando parecchi intellettuali di sinistra e militanti. Espressione paradigmatica di ciò è il libretto scritto da Giangiacomo Feltrinelli nell’estate del ’69 Persiste la minaccia di un colpo di Stato in Italia. C’è da dire però, che la filosofia dell’operazione “stay behind” poco si accostava alla possibilità di un colpo di Stato. Il motto dell’operazione era infatti “destabilizzare per stabilizzare” ed il loro fine ultimo consisteva in un rafforzamento di un centrismo guidato discretamente, non in una autoritaria e roboante presa di potere, che avrebbe probabilmente fatto venire alla luce responsabilità che gli USA non volevano farsi attribuire. Come sintetizza efficacemente Angelo Ventrone nel suo libro Vogliamo tutto:

«[...] negli ultimi anni molti osservatori hanno abbracciato l’idea che la strategia della tensione avesse un obiettivo più limitato e che si servisse del neofascismo come semplice manovalanza per un disegno di cui probabilmente quest’ultimo non era neanche consapevole: isolare la sinistra, allontanare il PCI dall’area di governo (senza metterlo fuori legge) e spingere verso una soluzione moderata (non dunque autoritaria, o addirittura parafascista) che ponesse fine alle fibrillazioni da cui il paese era attraversato già da diversi anni» (Angelo Ventrone, Vogliamo tutto, Laterza, 2015).

Per questa ragione i due più famosi tentativi di colpo di stato avvenuti in Italia, quello del dicembre 1970, il cosiddetto golpe Borghese, dal nome del promotore Junio Valerio Borghese, ed il golpe del 1974, il cosiddetto golpe bianco, promosso da Edgardo Sogno, ex leader dei partigiani bianchi, sono stati riconosciuti dagli storici come tentativi abortiti.

 

La macchina del colpo di Stato infatti era stata fatta scattare ed arrestata poi all’ultimo momento, come fosse stato un ammonimento che doveva ricordare alla classe politica italiana come alcuni ambienti vedevano un possibile ingresso dei comunisti nell’area di governo. La prima fase della “strategia della tensione” ebbe fine nel 1974, quando fu chiaro che tanto gli attentati, quanto le minacce di golpe non stavano servendo lo scopo, poiché la filosofia del “destabilizzare per stabilizzare” non solo non aveva portato ad un rafforzamento del centro a dispetto delle sinistre, ma aveva minato la credibilità dello Stato stesso, che sarebbe dovuto passare per il difensore della libertà democratica attaccato dagli estremisti rossi, mentre passò piuttosto per una istituzione accusata di essere connivente con gli stragisti, assassina ed accusatrice di innocenti.

 

Ecco una testimonianza riportata da Donatella Della Porta in un suo fondamentale saggio Il terrorismo di sinistra, nella quale un testimone racconta della messa al Duomo di Milano per i morti di Piazza Fontana:

«L’interesse era nato alcune settimane prima, perché c’è lo sciopero per la bomba di piazza Fontana [...] si andò tutti in Piazza Duomo, dove c’era la manifestazione proprio di popolo, e ci fu la messa, e ricordo che andai alla messa, cioè faticosamente entrai in Duomo, dove c’erano queste bare. Era giusto lì in Italia, contro chi faceva la strage di stato, mettere in piazza la violenza» (Il terrorismo di sinistra, Donatella della porta, Il Mulino, 1990).

Come già detto, l’insieme di tutti questi fattori portò ad un progressivo spostamento a sinistra dell’opinione pubblica, ma non solo. L’idea di uno Stato stragista fu una delle ragioni dell’atteggiamento di giustificazione, o addirittura di simpatia, che alcuni ambienti sociali mostrarono nei riguardi del terrorismo rosso, che secondo la vulgata farà proprio nel 1974 la sua comparsa più drammatica, sebbene il primo episodio di lotta armata sia stato il sequestro dell’imprenditore Gadolla a Genova, il 5 ottobre 1970.

 

Questa comparsa per alcuni non fu affatto casuale. Da tempo Servizi Segreti italiani e USA infatti erano a conoscenza di molte delle attività degli estremisti di sinistra, che avevano preso ad armarsi. Per questo oggi la stagione del terrorismo rosso viene considerata da molti storici come una prosecuzione della strategia della tensione. Una farsa che aveva cambiato attori, ma non i propri obiettivi.

 

 

Per saperne di più:

Per approfondire le relazioni tra intelligence, stampa ed opinione pubblica si rimanda a Mirco Dondi: “L’eco del boato: storia della strategia della tensione 1965-1974” (Laterza, 2015). Lavori fondamentali sul terrorismo in quegli anni sono senza dubbio i saggi di Donatella Della Porta: “Il terrorismo di sinistra” (Il Mulino, 1990), “Il terrorismo in Italia” (Il mulino). Mentre per uno sguardo più culturalista al decennio 1968-78 si consiglia Angelo Ventrone “Vogliamo tutto” (Laterza, 2015).

 

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