Il Chiasmo

Debora De Carolis

Allieva della Scuola di Studi Superiori “Giacomo Leopardi” e attualmente iscritta al quinto anno del corso di laurea in Giurisprudenza presso l'Università di Macerata. Negli ultimi anni si è interessata soprattutto allo studio delle problematiche connesse alla tutela della libertà personale, all'esecuzione della pena e alla condizione detentiva.

Pubblicazioni
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Il carcere: una prospettiva di genere

 

Quando si parla di detenzione il più delle volte se ne trascura la dimensione femminile, sia a causa del ristretto numero di delinquenti donne, da sempre sensibilmente inferiore a quello dei delinquenti maschi, sia a causa della persistente difficoltà culturale ad affrontare ed inquadrare la problematica della donna-delinquente. Storicamente, la donna deviante, che contravveniva cioè alle regole che la società (maschile) si era data, non è mai stata considerata come portatrice cosciente di ribellione o di disagio sociale, ma, piuttosto, in ragione della sua presunta inferiorità biologica e psichica, come una “posseduta” (ad esempio una strega) o una malata di mente (ad esempio un’isterica); e questo perché non si poteva ammettere, culturalmente, che una donna potesse coscientemente desiderare e decidere, con autonomia di scelta, di infrangere la legge scritta dagli uomini. Cesare Lombroso, universalmente riconosciuto come il fondatore dell’antropologia criminale, fu il primo a tentare una analisi sistematica della problematica della delinquenza femminile, individuando, nel suo testo del 1893 intitolato La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, nella maggiore debolezza e stupidità delle donne rispetto agli uomini la causa della minore diffusione della criminalità femminile.

 

Inoltre, la donna delinquente è sempre stata considerata colpevole non soltanto di aver trasgredito la legge posta dagli uomini, ma anche di aver tradito, commettendo il reato, la propria natura femminile, tradizionalmente dedita alla maternità. La donna delinquente subiva, pertanto, una doppia emarginazione, sia perché colpevole sia perché donna degenere e, eventualmente, anche madre degenere. Secondo quest’ottica paternalistica, le donne, più che punite, dovevano, dunque, essere corrette nella loro personalità, per essere ricondotte al modello femminile dominante, tanto che, fino al 1990, anno della istituzione del Corpo di Polizia Penitenziaria, la custodia delle donne detenute era affidata alle suore che impostavano la vita carceraria non tanto sulla punizione, quanto piuttosto sulla “correzione” dell’errore commesso, utilizzando i lavori domestici, le attività legate ai ruoli femminili tradizionali e la preghiera quali strumenti per agevolare il ravvedimento.

 

Alla donna veniva pertanto proposto di adeguarsi a vivere la casa come proprio mondo di riferimento e di azione e interiorizzare la famiglia come spazio di stabilità affettiva e di realizzazione, secondo l’uso e l’ideologia del tempo. Così, il modello di educazione alla dipendenza, che da sempre è stato alla base della socializzazione delle donne, si è riprodotto a lungo anche in carcere: infatti, se per l’uomo l’istituzione detentiva doveva servire a far sì che il reo accettasse le regole del patto sociale infrante con la commissione del reato, per le donne la carcerazione assolveva piuttosto una funzione rieducativa, il che significava innanzitutto indurle ad accettare la subalternità del proprio ruolo.

 

Tale modello di gestione della vita detentiva femminile, attuato attraverso la vigilanza di suore, è rimasto pressoché invariato fino alle riforme degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. In linea di principio, con le predette riforme, reclusione maschile e reclusione femminile si sono avvicinate: quest’ultima laicizzandosi (alle suore si sono sostituite dapprima le vigilatrici e poi le agenti di polizia penitenziaria), e la prima indirizzandosi verso obiettivi di rieducazione e di reinserimento sociale. Assimilando sempre di più i due modelli di reclusione, però, la dimensione femminile ha finito con l’essere ancor meno visibile, e i problemi organizzativi e di gestione connessi alla detenzione femminile sono divenuti paradossalmente ancora più residuali, fagocitati dalle problematiche che suscita la detenzione maschile.

 

La criminalità e la detenzione femminile sono divenute materia specifica d’indagine e di studio solo in tempi relativamente recenti. Tale accresciuto interesse ha coinciso con l’emergere, negli anni Settanta del secolo scorso, di un nuovo protagonismo sociale e culturale della donna, che si è tradotto, sul piano legislativo, nell’approvazione di una serie di leggi a favore della libertà e dell’emancipazione delle donne (dalla procreazione controllata alla depenalizzazione dell’aborto, dal divorzio all’abrogazione del reato di adulterio femminile). Malgrado la maggiore visibilità delle “questioni femminili”, in ambito criminale e penitenziario si sono registrati tuttavia scarsi mutamenti: gli uomini restano, ancora oggi, i protagonisti quasi esclusivi della realtà e della scena carceraria e criminale. Le donne rappresentano, infatti, una percentuale minoritaria dell’intera popolazione detenuta italiana (rimasta pressoché costantemente attestata intorno al 5% delle presenze complessive).

 

Il ristretto numero di donne in carcere ha comportato una strutturazione del sistema penitenziario fondato sulle esigenze di custodia di uomini, che non tiene conto delle problematiche e specificità della popolazione detenuta femminile. Il carcere, così come concepito e organizzato nella pratica, rappresenta un’istituzione totale maschile, con regole rigide e predeterminate tese al contenimento dell’aggressività e della violenza, in cui non vi è spazio per il profilo emozionale che è proprio dell’esperienza comunicazionale di ogni donna che, conseguentemente, risulta rinchiusa non soltanto in un perimetro fisico, ma anche psicologico e umano, alienata dalla propria identità. Come molti operatori penitenziari osservano, la condizione detentiva è, per la donna, carica di una componente afflittiva ulteriore. Si riscontra, infatti, una particolare insofferenza alla detenzione da parte delle donne detenute, insofferenza che viene accentuata dal distacco dalla famiglia e che colpisce le donne in quanto tali, con disturbi fisici e malattie, tutti prevalentemente di carattere psicosomatico (amenorrea e disturbi mestruali in genere, cefalea, stipsi, anoressia, bulimia, gastriti, depressione), come se esse vivessero sul loro corpo non solo il peso della reclusione e della costrizione in un ambiente ristretto (questo lo vivono anche gli uomini), ma anche il diverso succedersi del tempo, l’angoscia della separazione, la negazione della femminilità e della maternità.

 

È evidente che quella che gli operatori chiamano «particolare insofferenza delle donne verso il carcere» è una condizione legata proprio all’essere donna, e per questo diversa da quella maschile: la perdita del proprio ruolo di moglie/madre/figlia, la lontananza dagli affetti, il senso di colpa per aver “abbandonato” i figli e la mancanza assoluta di controllo sulla propria vita che il carcere, in cui ogni gesto quotidiano è minuziosamente regolamentato, produce sul detenuto, causano maggiore sofferenza alle donne, abituate a “gestire” da sole la vita propria e spesso quella degli altri. In quel piccolo universo chiuso e sospeso, la donna cerca allora di riempire il vuoto e la mancanza di affetto attraverso piccoli gesti rivolti a persone e cose. La cura del proprio corpo, delle proprie cose, della cella, del proprio lettino rispondono al bisogno della donna di ritrovare un proprio spazio, una propria identità: un “ritrovarsi” nella confusione, spersonalizzazione e alienazione che il carcere crea. Forse è anche in questo che rientra la difficoltà delle donne ad accettare le regole, regole che sentono distanti perché declinate sul modello del detenuto maschio adulto: la forza con cui si oppongono a un annullamento della propria persona e della propria femminilità da parte di un’istituzione più forte e maschile.

 


Quando si affronta la questione della detenzione femminile non si può certo sottacere il problema della maternità e della presenza in carcere di figli minori. Quando ad essere confinata è una madre, la carcerazione inevitabilmente riverbera i suoi effetti anche sui figli che ne dipendono emotivamente e materialmente. La legge di riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 ha sancito, per le detenute madri di figli di età inferiore a tre anni, il diritto di tenerli con sé in istituto, consentendo così di instaurare con loro quel legame profondo tanto importante nei primi anni di vita. È evidente, però, che il rapporto madre-figlio, considerato alla luce della particolare posizione della madre-detenuta, presenta un’inconciliabilità: da un lato, tutelare il ruolo di madre significa consentire alle detenute di accudire i propri figli; dall’altro, proteggere l’infanzia vuol dire permettere ai bambini di crescere in ambienti adatti al loro sviluppo psicofisico. È facilmente intuibile che un contesto monotono e privo di stimoli come il carcere, delimitato negli spazi da chiavistelli e sbarre, con aria e luce limitati e connotato dall’assenza di autorevolezza della figura genitoriale, non sia idoneo a consentire questo corretto sviluppo e determini, anzi, l’insorgere di gravi disturbi relazionali e comportamentali.

 

È stata proprio l’esigenza di salvaguardare il superiore interesse del minore a ricevere cure materne costanti all’interno di un ambiente idoneo a sollecitare l’intervento del legislatore con la previsione di una ricca e articolata rete di istituti indirizzati alla decarcerizzazione delle donne che accudiscono figli nell’età dell’infanzia. Esemplificativa a tal proposito è la legge 21 aprile 2011, n. 62, la quale prevede per le detenute incinte o madri di prole di età non superiore a sei anni la possibilità che venga disposta nei loro confronti la custodia presso Istituti a Custodia Attenuata per Detenute Madri (cc.dd. I.C.A.M.), allo scopo di preservare la relazione materna e consentire ai figli delle detenute di trascorrere i loro primi anni di vita in un ambiente “familiare” che non ricordi il carcere, riducendo così il rischio d’insorgenza di problemi di sviluppo della sfera emotiva e relazionale dell’infante. Pur riconoscendo i progressi compiuti in questa direzione, ad oggi sono in numero crescente le madri che, a causa della permanenza di alcuni fattori normativi e fattuali, rischiano, tuttavia, di scontare la pena dietro le sbarre, eventualmente insieme ai propri bambini.

 

Quella della detenzione femminile è certamente la storia di una minoranza: rispetto agli uomini, infatti, sono poche le donne detenute, internate, trattenute. Questa loro presenza marginale non deve, tuttavia, far dimenticare che esse sono portatrici di esigenze specifiche, che attendono risposte adeguate. Di questo pare essere consapevole, del resto, la Direzione generale dei detenuti e del trattamento che, nel 2008, ha diffuso una circolare contenente uno schema di regolamento interno-tipo per gli istituti femminili e le sezioni femminili che ospitano detenute comuni, con l’evidente obiettivo di

cogliere e tutelare il valore della “differenza di genere”, declinando il senso dell’esecuzione della pena secondo codici, linguaggi e significati congruenti con la specificità dell’identità femminile, in maniera da evitare l’innescarsi di ulteriori meccanismi di marginalizzazione a discapito delle donne detenute.

 

Il quadro che emerge rispetto alla delicata questione della detenzione femminile è chiaro: la storica marginalità del fenomeno della delittuosità femminile ha fatto sì che la condizione delle donne in carcere sia stata per lungo tempo - e, per certi versi, ancora oggi - considerata di scarso interesse, anche tra gli addetti ai lavori, e perciò destinataria di pochissime risorse economiche e culturali, nonostante i costi, non solo personali ma soprattutto sociali, dell’incarcerazione femminile siano evidentemente più gravosi.

 

 

Per saperne di più:

Fadda, Maria Laura, Differenza di genere e criminalità. Alcuni cenni in ordine ad un approccio storico, sociologico e criminologico, in Diritto penale contemporaneo, 20 settembre 2012.

Mantovani, Giulia, Donne ristrette, Ledizioni LediPublishing, Milano, 2018.

Papparella, Teresa, Le donne e la carcerazione, Youcanprint Self-Publishing, Lecce, 2018.

 

Foto di RODNAE Productions da Pexels - Immagine libera per usi commerciali.

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Privazione della libertà personale e finalità rieducativa della pena: per un ripensamento costituzionalmente orientato dell’ostatività

 

La privazione della libertà personale, sub specie di detenzione in carcere, quale modalità prediletta di esecuzione della pena, è un’invenzione abbastanza recente, che ha rappresentato paradossalmente una conquista di civiltà, poiché ha segnato il superamento dell’epoca medievale del diritto penale, che aveva nell’esemplarità, nella spettacolarizzazione e nel supplizio la propria cifra distintiva.

 

La nascita delle moderne istituzioni penitenziarie risale, infatti, all’epoca dell’Illuminismo, anche se è soltanto nel XIX secolo che la pena privativa della libertà da scontare “dietro le sbarre” è divenuta la pena per eccellenza.

 

Prima del Settecento, la pena consisteva prevalentemente nell’inflizione di punizioni corporali (finanche la pena di morte), accompagnata sempre dall’esibizione pubblica del condannato, affinché la sua colpa fosse visibile a tutti e fungesse da monito per il popolo a non macchiarsi dello stesso delitto. La dimensione pubblicistica che connotava l’espiazione della pena, vista come una “retribuzione” del male inflitto, serviva, dunque, da deterrente per il popolo affinché ci si ricordasse quali atroci sofferenze sarebbero toccate a chiunque avesse violato le leggi.

 

Il carcere esisteva ma assolveva principalmente una funzione che oggi chiameremmo “cautelare”, in quanto luogo destinato ad ospitare l’imputato in attesa dell’applicazione della pena propriamente detta, con lo scopo di impedirne la fuga. Il carcere era quindi concepito come un luogo di passaggio e di custodia provvisoria volto ad evitare che l’imputato, in attesa di una condanna, si sottraesse alla stessa. È a partire dalla metà del XVIII secolo che il carcere ha assunto un volto nuovo: da luogo di mero passaggio è diventato luogo di vera e propria esecuzione della pena detentiva. Si è così passati da un sistema punitivo che aveva nella “pubblicità” e nella spettacolarizzazione i propri caratteri distintivi, a un sistema punitivo che vive di segretezza e silenzio, nel quale la pubblicità - nel senso di esposizione dell’imputato alla gogna mediatica - connota soltanto il momento dell’accertamento della responsabilità. Una volta appurata la sua colpevolezza, il condannato si ritrae nell’ombra della sua cella per trascorrere, in quegli angusti spazi, un tempo più o meno lungo, corrispondente, nella peggiore delle ipotesi, al resto della sua vita. Scrive Michel Foucault nella sua opera Sorvegliare e punire. Nascita della prigione: «Scompare dunque, all’inizio del secolo Diciannovesimo, il grande spettacolo della punizione fisica; si nasconde il corpo del suppliziato; si esclude dal castigo l’esposizione della sofferenza. Si entra nell’età della sobrietà punitiva».

 

Nato col proposito di sostituire alla brutalità ed efferatezza delle punizioni corporali un meccanismo punitivo che, attraverso una rigorosa organizzazione della vita all’interno degli istituti di pena, miri ad addomesticare e correggere, al fine di restituire al tessuto sociale soggetti obbedienti, il carcere è, nei fatti, il luogo nel quale, attraverso l’assoggettamento costante del corpo e delle sue forze, meglio si esplica il potere coercitivo dello Stato, in un’ottica di tutela e preservazione della società. Coloro che delinquono vengono ridotti ad oggetti nelle mani dello Stato, del tutto privati della loro identità, reclusi, allontanati, affinché espiino la loro colpa in silenzio e senza turbare l’ordine sociale.

 

Come si concilia una pena siffatta con il dettato della Costituzione e, in specie, con il disposto di cui all’articolo 27, secondo il quale «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»?

 

I Padri costituenti auspicavano che, al riconoscimento, sul piano costituzionale, del principio della rieducazione - che pure suscitò, nel corso della discussione, una serie di opposizioni in Assemblea -, seguisse una riforma del sistema carcerario, che riempisse di contenuto quella che, altrimenti, non sarebbe stata che una vuota e retorica enunciazione di principio. Fu a tal fine istituita, nel 1948, su proposta di Piero Calamandrei, una Commissione parlamentare di inchiesta sulle carceri (la cc.dd. Commissione Persico), incaricata di «indagare, vigilare e riferire al Parlamento sulle condizioni dei detenuti negli stabilimenti carcerari e sui metodi adoprati dal personale carcerario per mantenere la disciplina tra i reclusi». Nonostante la avvertita esigenza di una radicale riforma dell’allora vigente sistema penitenziario e gli sforzi compiuti dalla Commissione parlamentare per attuarla, il carcere continuò ad essere disciplinato, fino al 1975, dal vecchio Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena del 1931, sicché l’affermazione di una pena umana e rieducativa rimase per lungo tempo lettera morta. Bisognerà, dunque, attendere trent’anni - e le sanguinose rivolte carcerarie degli anni settanta - perché si realizzi, con la legge n. 354 del 1975, una compiuta riforma dell’Ordinamento penitenziario ispirata a quei principi di umanità e rieducazione a cui si deve adeguare, secondo il dettato costituzionale, l’esecuzione della pena in tutta la sua durata.

 

Sebbene con trent’anni di ritardo rispetto all’entrata in vigore della Costituzione, con la riforma del 1975, il legislatore aveva chiaramente optato per un sistema esecutivo orientato al recupero e al reinserimento di chi avesse violato le regole della civile convivenza introducendo, tra le altre cose, le misure alternative alla detenzione in linea con quella corrente di pensiero (rivoluzionaria per il nostro paese) secondo cui la rieducazione del condannato si attua anche evitandone l’ingresso in carcere ovvero riducendone la permanenza all’interno dell’istituto.

 

Sulla stessa linea si collocano le riforme del 1986 (cc.dd. legge Gozzini) e del 1998 (cc.dd. legge Simeone) che, incidendo su aspetti diversi della disciplina, hanno contribuito ad ampliare e potenziare l’ambito di operatività delle misure alternative, offrendo ai condannati a pena detentiva spazi vieppiù crescenti di contatto con l’esterno, secondo lo schema dell’esecuzione progressiva. Malgrado l’indubbia scelta del legislatore del 1975 nell’ottica del finalismo rieducativo della pena e le suddette riforme, è tuttavia oramai evidente come le politiche securitarie oggi in voga abbiano determinato una drastica inversione di tendenza, virando in maniera decisa verso il “restauro” di un sistema essenzialmente carcerocentrico - di fatto mai completamente abbandonato - che fa della detenzione in carcere il perno attorno al quale ruota l’esecuzione della pena.

 

È convinzione largamente condivisa che gli obiettivi di sicurezza e difesa sociale possano essere più efficacemente attinti solo attraverso la pena della reclusione, espiata “fino in fondo”, senza sconti. C’è chi, al grido dello slogan “buttare via la chiave”, decanta gli effetti positivi che - in termini di sicurezza sociale e certezza della pena - avrebbe la previsione di pene immodificabili in itinere che costringano il condannato a pena detentiva a trascorrere i propri giorni “dietro le sbarre”, senza prospettiva alcuna di liberazione, prima che sia stata integralmente scontata la pena indicata nella sentenza di condanna. Costoro sembrano però ignorare la vistosa fallacia di un assioma quale “più carcere, più sicurezza” che, in tempi di populismo penale, le forze politiche insistentemente invocano, promettendo di realizzare controriforme dell’ordinamento penitenziario che facciano piazza pulita di ogni misura premiale, sedando così il profondo e radicato sentimento di paura e insicurezza che affligge la nostra società.

 

Eppure, la storia della penalità (anche solo quella moderna) dimostra, in maniera inconfutabile, come detenzione, ergastolo, finanche la pena di morte non abbiano eliminato, né tantomeno ridotto, la criminalità e non abbiano dissuaso nessuno dal delinquere, men che meno il reo. Il carcere è, per utilizzare - seppur impropriamente - un’espressione di derivazione marxiana, l’«oppio dei popoli», capace di indurre una sensazione fittizia di benessere e rassicurazione, persuadendo la società che la detenzione sia lo strumento in grado di tenerla al sicuro da chi - stranieri, tossicodipendenti, disagiati psichici, marginali in genere - viene percepito come una minaccia alla sua stabilità.

 

La neutralizzazione dei “pericolosi”, che si realizzerebbe attraverso l’isolamento e la segregazione totale, è solo un effetto temporaneo. La verità è che il carcere non diminuisce il tasso di criminalità, anzi è criminogeno, è il luogo ove si riafferma la cultura della devianza, provocando la recidiva. Il carcere suscita dolore e rancore nell’incarcerato, ne abbrutisce la personalità, divenendo esso stesso fonte di nuova delinquenza e nuove insicurezze. Così strutturato, il carcere non serve neanche alle vittime; può soddisfare, tutt’al più, quel desiderio di vendetta che chiunque nutre nei confronti di chi delinquendo abbia arrecato dolore, ma certamente non consente di ricucire la ferita prodotta dal reato e, anziché colmare la fatale cesura tra il carcere e la società civile, la dilata, alimentando il disinteresse della società verso i reclusi e il loro destino.

 

Occorrerebbe convincersi, una volta per tutte, della necessità di superare la rigida e omologante impostazione carcerocentrica in favore di risposte sanzionatorie individualizzate che tengano conto dei bisogni, delle attitudini, delle caratteristiche personali del detenuto e dell’eventuale percorso di riabilitazione da lui intrapreso, al fine di evitare che la lunga durata della pena intramuraria ne comprometta definitivamente ed irrimediabilmente il reinserimento nella società.

 

Risulta pertanto condivisibile l’iter argomentativo seguito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che, con una recente pronuncia (Corte edu, sez. I, sent. 13 giugno 2019, Marcello Viola c. Italia (n. 2)), ha condannato l’Italia, dichiarando l’attuale disciplina dell’ergastolo ostativo ex art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario contraria al divieto di trattamenti inumani e degradanti di cui all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Muovendo dalla considerazione che qualsiasi pena debba innanzitutto tendere alla rieducazione del condannato - come peraltro consacrato dalla nostra Costituzione all’art. 27, comma 3 - e lasciare dunque aperta una prospettiva di reintegrazione sociale, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto tale finalità disattesa da un regime detentivo - come quello previsto appunto dall’art. 4-bis ord. penit. - che subordina alla sussistenza di una condotta collaborante da parte del condannato per uno dei delitti ivi indicati la possibilità per quest’ultimo di essere ammesso ai benefici penitenziari, operando la presunzione secondo la quale la mancanza di collaborazione con la giustizia sia, in ogni caso, il risultato di una scelta libera e autonoma del detenuto, denotante la sua persistente adesione ai “valori criminali” e la sua permanente affiliazione all’organizzazione criminale di appartenenza. L’invito dei giudici di Strasburgo è allora rivolto al legislatore affinché intervenga per ricondurre il sistema a coerenza con la Convenzione, prevedendo un congegno di revisione della sentenza di condanna diretto a verificare se il periodo di detenzione espiato abbia o meno attinto l’obiettivo rieducativo che la pena è chiamata ad assolvere, facendo così venir meno qualsiasi motivo legittimo che ne giustifichi la prosecuzione.

 

Una cosa è chiara: una pena che, in ragione di preminenti esigenze di tutela della collettività e di prevenzione generale (pure legittime), presenti connotati meramente afflittivi, restando del tutto indifferente all’evoluzione psicologica e comportamentale del detenuto, così privandolo di qualsiasi prospettiva di liberazione futura e di reinserimento sociale, è contraria al principio della dignità umana. Tendere alla rieducazione significa soprattutto riconoscere ad ogni condannato il diritto a sperare che - orientando verso modelli positivi e virtuosi la propria condotta all’interno del carcere e partecipando attivamente alle offerte trattamentali che gli vengono prospettate - possa giovarsi di benefici sempre maggiori, in vista di un proficuo e anticipato reingresso nel consorzio civile.

 

Per saperne di più:

Bortolato, Marcello & Vigna, Edoardo, Vendetta pubblica. Il carcere in Italia, Editori Laterza, Bari, 2020

Foucault, Michel, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976

Santini, Serena, Anche gli ergastolani ostativi hanno diritto a una concreta “via di scampo”: dalla corte di Strasburgo un monito al rispetto della dignità umana, in Diritto Penale Contemporaneo, 2019

 

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