Il Chiasmo

Marta Fissore

Marta Fissore è un'allieva della classe di Governo e Scienze Umane della Scuola di Studi Superiori "Ferdinando Rossi" di Torino e studia filosofia. Estremamente curiosa e allergica alle specializzazioni, sta seguendo un percorso di studio eclettico all'interno della propria facoltà. La affascinano l'essere umano, l'antropologia culturale, il teatro. Al mondo accademico affianca l'entusiasmo per l'educazione non formale, ambito nel quale le piacerebbe in futuro trovare un'applicazione fortunata dei propri studi.

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Libertà di apparire

 

 

La libertà non è una proprietà individuale, una conquista singolare, una qualità intrinseca. La libertà è un’esperienza che si realizza soltanto in seno alla pluralità, in un luogo speciale che sta fra gli individui. Emerge dall’agire di concerto di uomini e donne in uno spazio orizzontale di uguaglianza, dove ciascuno gode di visibilità e riconoscimento: lo spazio pubblico. Lo spazio pubblico – e l’accesso ad esso – rappresenta la condizione necessaria alla vita politica, quindi alla libertà politica; al tempo stesso, lo spazio pubblico è costruito, definito, informato esattamente dall’agire collettivo e politico degli uomini, che è un agire libero. Accedere allo spazio pubblico significa dunque accedere all’esperienza plurale della libertà; significa poter accedere alla sfera della partecipazione politica e del diritto; lo spazio pubblico rappresenta, in altre parole, il diritto ad avere diritti.

 

Attorno a questi elementi ruota l’interessante indagine sulla libertà politica che Judith Butler, filosofa statunitense, conduce nel suo testo del 2015 Notes Toward a Performative Theory of Assembly (in italiano: L’alleanza dei corpi, 2017). L’opera si concentra sul ruolo del corpo nell’agire politico dei collettivi, con particolare attenzione ai contesti rivoluzionari e di protesta, alle manifestazioni di massa e alla loro fenomenologia nella società contemporanea e in una prospettiva globale. In tale riflessione occupano un ruolo rilevante le considerazioni sulla nozione di spazio pubblico – luogo in cui i corpi appaiono e agiscono. Butler muove da alcuni elementi centrali della teoria politica di Hannah Arendt, quali appunto lo spazio pubblico e l’agency, proponendone un ripensamento critico in grado di tenere conto delle problematiche concrete della dimensione sociopolitica odierna.

 

Che cos’è lo spazio pubblico? Innanzitutto, è la condizione necessaria affinché si possa agire. Secondo il pensiero arendtiano, l’azione è la condizione umana più alta e genuina attraverso la quale gli uomini tessono le reti relazionali fondamentali alla loro esistenza, si rapportano l’un l’altro direttamente, si realizzano appieno in quanto esseri umani, infine immettono qualcosa di nuovo nel mondo. Per agire di concerto (l’agency è sempre politica, quindi sempre plurale) gli individui necessitano di stare insieme in un luogo, e precisamente di apparire l’uno all’altro: occorre vedersi per potersi parlare, occorre riconoscere l’esistenza altrui per potervisi rapportare. Ricordiamo brevemente che l’azione mantiene un legame molto stretto, quasi identitario, con la parola o il discorso, tant’è che la teoria arendtiana dell’agire o del potere è stata talvolta definita comunicativa; ma tralasceremo tale aspetto dell’agire in questa trattazione, non perché meno importante, bensì per aspirare ad ottenere maggior chiarezza attorno allo specifico tema affrontato.

 

Hannah Arendt definisce il pubblico in virtù di un’opposizione radicale al privato: privato è lo spazio in cui ritrarsi dallo sguardo altrui, nascondersi, isolarsi, preservare appunto la propria privacy. Il privato è primariamente la dimensione del biologico e della sussistenza, dove ogni individuo si dedica alla conservazione della propria vita. Ciò rappresenta quanto di più lontano dal politico, la sola dimensione nella quale gli esseri umani possono realizzarsi compiutamente, costruire esistenze intrecciate ed esperire individualmente e collettivamente la libertà. Il privato, l’ambito dei bisogni primari, è definito quindi come terreno prepolitico o extrapolitico. Prepolitico nella misura in cui non si dà azione politica senza la sussistenza di un corpo vivo; extrapolitico in quanto l’uomo resta animale quando si occupa dell’autoconservazione – diviene essere umano quando agisce.

 

Occorre a questo punto chiarire un ultimo elemento del discorso: perché lo spazio pubblico è luogo privilegiato della realizzazione umana? Ossia, quale aspetto pone l’agire politico sul gradino più elevato dell’esistenza? Possiamo trovare la risposta nella nozione di riconoscimento, centrale in questa elaborazione teorica. L’agire è sempre un agire plurale, evento che avviene tra individui; quando io agisco, agisco in direzione di un tu. L’agire inoltre necessita, come abbiamo già osservato, di uno spazio pubblico, ovvero un luogo dove ogni soggetto appaia, si esponga allo sguardo, alla parola e all’azione altrui. Nel momento in cui agisco politicamente, perciò, entro in una relazione del tutto speciale con l’altro (il tu) verso cui mi sto rivolgendo: innanzitutto l’altro mi appare come destinatario (appunto, come pubblico) della mia azione, e in virtù di ciò io sono rivelato a me stesso come attore; vale a dire, soltanto il fatto che un altro mi riconosce, attesta la mia esistenza, mi permette di identificarmi come esistente. In altre parole, per l’uomo, esistere è apparire: al di fuori della pubblicità, privati del riconoscimento dell’altro, non siamo esistenza, bensì mera vita biologica. Senza la relazione con l’altro, l’individuo non può accedere alla propria identità esistente. Infine, nel gioco reciproco dell’agire, l’altro mi si rivela come soggetto agente e riconosco in lui la presenza di un io esistente; ed io, a mia volta, esponendomi al riconoscimento da parte dell’altro, rappresento lo strumento di realizzazione esistenziale altrui.

 

Non solo il riconoscimento reciproco rappresenta l’accesso alla propria identità mediante l’altro, la realizzazione piena della propria umanità; questo movimento fonda anche una condizione di uguaglianza tra gli individui del collettivo, i quali possono così esperire la libertà – libertà come azione imprevedibile e nuova, come esercizio dei propri diritti politici sulla scena pubblica. Inoltre, è importante notare che è esattamente l’esperienza del riconoscimento che costruisce lo spazio pubblico, lo definisce, lo informa costantemente: poiché non esisterebbe pubblicità senza apparizione e senza attestazione di tale apparire. Detto con le parole pregnanti di Judith Butler: «Nessun corpo instaura singolarmente lo spazio dell’apparizione, perché quest’azione, questo esercizio performativo, accade solo “tra” corpi, in uno spazio che costituisce il vuoto tra il mio corpo e quello dell’altro. Di conseguenza, il mio corpo non agisce mai da solo quando agisce politicamente. L’azione emerge sempre dal “tra”, figura spaziale di una relazione che unisce e a un tempo diversifica».

 

Come si può notare in questo passo, Butler insiste innanzitutto sull’utilizzo del termine “corpo” nell’esporre il concetto di spazio pubblico e azione. Se fino a questo punto della trattazione l’autrice ha semplicemente ripercorso il pensiero di Hannah Arendt, osserviamo che qui la rielaborazione terminologica porta con sé indizi interessanti circa il suo successivo attacco critico. Infatti, la prima mossa teorica di Butler consisterà nel confutare la definizione arendtiana di pubblico. Pur abbracciando l’idea che il politico sia una dimensione esistenziale primaria, l’autrice rileva un’incoerenza nel discorso di Arendt, precisamente nell’estromissione del biologico dalla sfera pubblica.

 

Se da un lato Arendt delinea una netta opposizione tra azione e vita, tra politico e biologico (nella misura in cui la sfera dell’agire corrisponde all’esercizio di libertà, uguaglianza e umanità, mentre la vita è soggetta ad una necessità tutta naturale e animale), dall’altra l’utilizzo delle nozioni di riconoscimento e apparizione sembra muoversi in una direzione contraria. Nonostante infatti la filosofa condensi l’essenza dell’agire nell’uso della parola, è chiaro che sia la capacità di pronunciare discorsi sia la possibilità di apparire in pubblico dipendano dal possesso di un corpo. Il corpo sussiste e funziona solo se vivente; è necessario quindi ai fini dell’agire politico soddisfare i bisogni vitali, conservare il proprio corpo biologico. Butler sottolinea così come Arendt stessa suggerisca l’ineludibile dipendenza del politico dal biologico, per poi tuttavia relegare l’attività umana dedita alla conservazione della vita alla sfera privata, del tutto contraria (a tratti addirittura avversa, nemica) al politico.

 

Può una tale condizione di possibilità del politico essere radicalmente esclusa da ogni discorso politico? Arendt suggerisce infatti che ciò che riguarda la vita vada espulso dalla sfera di pertinenza del politico, che in esso la necessità vada dimenticata per far spazio alla libertà, all’uguaglianza, all’umanità. Secondo Judith Butler superare questa dicotomia è questione urgente e fondamentale. La sua tesi ruota attorno alla nozione di precarietà (precariousness): dimensione costitutiva dell’esistenza umana, inscindibilmente legata alla necessità, indica l’esposizione alla morte propria di ogni corpo umano vivente. Il corpo umano non può svincolarsi dalla mortalità; e se l’agire politico necessita del corpo quale evidente canale di realizzazione, allora anch’esso è esposto costitutivamente alla necessità. Laddove Arendt aveva separato esistenza e vita, Butler ne afferma con vigore una riconciliazione. Allora lo spazio della libertà incontra quello della necessità: la vita deve essere preservata al fine di creare quello spazio condiviso e partecipato dove si esperisce la libertà.

 

Ci può tuttavia sembrare che Arendt non avesse del tutto escluso la dipendenza del politico dal biologico, definendo quest’ultimo come terreno prepolitico o extrapolitico. Il politico potrebbe ben dipendere da una dimensione che non è tale, senza doverla comprendere nella propria sfera di pertinenza. Perché Butler si ostina nel voler fare della vita (biologica, mortale, precaria) oggetto centrale dell’esistenza pubblica?

 

A questo punto lo sguardo di Butler si sposta sulla realtà sociopolitica contemporanea: sembra infatti che la precarietà sia una condizione che affligge gli individui in modo diseguale. Vediamo facilmente con lei che nella società odierna ha luogo una «esposizione differenziale alla morte e alla mortalità»: la distribuzione diseguale della precarietà, che pone alcuni individui o categorie più in pericolo di morte rispetto ad altri, è dovuta a fenomeni quali razzismo, sessismo, o «altre forme di deliberato abbandono» da parte delle istituzioni. Posta l’appartenenza (formale) ad una data collettività, e supposta un’equità di partecipazione (ad esempio: godiamo tutti e tutte della cittadinanza, oppure: siamo tutti e tutte esseri umani), alcune vite sono più vicine alla morte, più precarie, più dispensabili di altre. Perché questo accade, e che cosa significa?

 

Notiamo che l’esposizione differenziale alla morte è dovuta ad una mancanza di riconoscimento da parte delle istituzioni, dell’opinione pubblica, delle altre persone. Vale a dire, le vite precarie non vengono riconosciute quali degne di partecipare all’uguaglianza tra coloro che entrano a pieno titolo a far parte di una collettività. Fanno parte delle vite precarie, ad esempio, le persone non-binarie, la cui identità di genere non viene riconosciuta dal sistema giuridico o dalla collettività, e per questo sono più a rischio di subire violenze (dalla discriminazione culturale, sociale, fino a quella giuridica e alla pena di morte). Oppure, troviamo il caso degli apolidi: non possedendo la cittadinanza, non hanno accesso ai diritti fondamentali garantiti da essa; in altre parole, è loro precluso l’accesso allo spazio pubblico, al diritto di avere diritti. Vivere ai margini della pubblicità significa non poter esperire la libertà, significa essere estromessi dalla realizzazione piena dell’esistenza umana. Chi non è esistente, bensì è mera vita, non è propriamente umano: sappiamo bene come il razzismo e altre forme di discriminazione si sviluppino sulla bestializzazione del bersaglio, persona o categoria cui non viene riconosciuto il proprio stesso grado di umanità. Gli apolidi potranno anche essere oggetto di un discorso pubblico, ma non saranno mai soggetti agenti di tali discorsi: restano infatti invisibili alla pubblicità, relegati a quell’extrapolitico di cui ci parla Hannah Arendt.

 

Butler denuncia così il deficit principale della teoria arendtiana: lo spazio pubblico, lungi dall’essere regno dell’uguaglianza, è definito da specifiche norme di accessibilità, ossia ha confini determinati da criteri di apparizione. Se tali criteri non vengono rispettati, una vita non ha il diritto di apparire sulla scena pubblica, quindi non accede ai diritti fondamentali ed è inevitabilmente soggetta ad una maggiore precarietà (per mancanza di tutela da parte delle istituzioni o, semplicemente, per una discriminazione socialmente diffusa). In questa prospettiva, vediamo che la sfera pubblica non si crea a partire dall’azione libera, eguale e reciproca di una pluralità, bensì, ad un livello più originario, dalle sue stesse frontiere: senza un di fuori, formato da coloro che mancano della possibilità di apparire, non si potrebbe infatti identificare un di dentro. Ecco che emerge di nuovo con forza l’importanza dell’extrapolitico per il politico stesso: la collettività libera ed esistente è definita da confini oltre i quali sussistono vite precarie, esistenze non riconosciute; la luce di cui gode il riconosciuto è tale perché esiste l’ombra del non-riconoscibile che ne delinea i contorni.

 

Perché abbia luogo l’azione libera e plurale (ossia, affinché esista uno spazio pubblico) occorrono dunque dei criteri di riconoscibilità, vale a dire dei criteri di esclusione dall’agire. È evidente che questo aspetto allontana radicalmente il politico dalle sue aspirazioni essenziali, ossia la realizzazione di uguaglianza e libertà in un contesto plurale. Allora, afferma Butler, è di vitale importanza e quanto più urgente denunciare questa frattura fondamentale e portare sulla scena pubblica il tema della precarietà, del riconoscimento delle vite precarie, dell’accesso ai diritti fondamentali. Se l’essenza del politico si fonda sulla libertà, la libertà deve essere la preoccupazione primaria dell’agire pubblico. E la libertà fondamentale, originaria, è quella che precede la libertà esperita nell’agire di concerto: è la libertà di accesso allo spazio pubblico, ovvero la libertà di apparire.

 

La libertà di apparire deve diventare, dunque, secondo Judith Butler, missione delle collettività politiche e obiettivo delle istituzioni. Peraltro, c’è un ultimo aspetto da prendere in considerazione: questa libertà politica è innanzitutto una decisa rivendicazione da parte di quelle stesse vite precarie che, stando ai margini della pubblicità, contribuiscono a fondarne l’identità. Quelle mere vite che non appaiono quali esistenze politiche (agli occhi di coloro che invece godono di tale riconoscimento) sono in realtà esseri umani coscienti, interrelati, a loro modo agenti. Si presenta perciò ai nostri occhi un nuovo modello di agency: quello dei precari che, aggregandosi, manifestando il proprio disagio e la propria indignazione, avanzando richieste e costituendo una pluralità dissidente, fondano uno spazio dell’agire tutto proprio e peculiare. Nel rivendicare la libertà di apparire essi ed esse esercitano già una forma di libertà, quella dell’agire arendtiano, la stessa dalla quale la teoria filosofica li esclude.

 

Ai margini del pubblico troviamo dunque corpi che agiscono, rivendicando diritti politici fondamentali per di più già esperendo una forma tutta particolare di libertà. È questa un’esperienza che dovrebbe entrare a pieno titolo nella riflessione politica e nel discorso pubblico e che, tuttavia, resta ancora in gran parte ignorata, sia dalle istituzioni che dal pensiero politico. La proposta teorica di Judith Butler si condensa dunque in questo appello al riconoscimento delle vite precarie e ad una rivendicazione plurale e poliedrica della libertà: «La libertà di apparire è centrale in ogni lotta democratica; ed essa sottintende che la critica delle forme politiche di apparizione, incluse le costrizioni e le mediazioni attraverso cui una simile libertà si dà, è cruciale per comprendere ciò che la libertà può essere, e quali tipi di intervento richieda.».

 

 

Per saperne di più:

L’edizione italiana dell’opera di Judith Butler è L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Milano 2017. Il testo principale in cui trovate l’elaborazione più completa della teoria politica di Hannah Arendt è Vita Activa, Giunti Editore, Milano 2017. Infine, un interessante confronto tra le due filosofe è proposto da Adriana Cavarero nel suo recentissimo testo Democrazia sorgiva, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019, di piacevole lettura e accessibile anche chi non sia specializzato in filosofia. 

 

 

Immagine di Robert Ramirez da Unsplash; C.C. - licenza libera da attribuzioni commerciali

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Le armi dei deboli. Il corpo e la malattia come strumenti di denuncia sociale

La dimensione culturale del corpo consiste nella sua capacità di costituire un veicolo di significato, di diventare il soggetto principale di rituali, simbologie, immagini, all’interno di un contesto collettivo umano. I momenti ed i movimenti di cui il corpo è protagonista fanno parte di una fitta trama di schemi rituali e ordini culturali definiti e accettati da una comunità umana. All’interno di questo intreccio di modelli istituzionalizzati, l’individuo che appartiene ad un dato contesto socio-culturale-antropologico adotta, in modo più o meno consapevole, comportamenti in grado di comunicare con il resto della comunità attraverso la sola immagine del proprio corpo; ciò che comunica sono significati che non avrebbe modo di esprimere altrimenti, alla luce degli ordini di codificazione che caratterizzano il proprio ambiente culturale, tramandati e sedimentati attraverso la memoria e le pratiche sociali.

 

Entro questo orizzonte, ciò che viene espresso attraverso il corpo è nella maggior parte dei casi un disagio radicato nella propria condizione di uomini e donne socialmente determinati, individuati, identificati. Tale disagio trova voce attraverso un particolare espediente: la malattia. Laddove un corpo che si ammala è in grado di suscitare l’attenzione degli altri individui e conquistare la scena pubblica, un sagace meccanismo psicologico sembra essere in grado di riprodurre esattamente i sintomi della malattia e, perciò, assegnare un ruolo di protagonismo a individui che occupano i gradini inferiori della scala sociale, che soffrono di una sovradeterminata debolezza e impossibilità di riscatto. La malattia che adempie a questi scopi, poi, spesso acquisisce centralità in pratiche rituali che entrano a pieno titolo nella tradizione culturale di un gruppo umano, riconducendo quindi l’azione di rottura all’interno degli schemi istituzionalizzati. Dunque, in seno allo stesso paradigma che li limita, gli individui più deboli di una società trovano un peculiarissimo spazio di espressione personale della quale il corpo è principale strumento e catalizzatore. Analizzando lo specifico fenomeno antropologico del tarantismo, si può ben osservare questo concetto di corpo quale efficace strumento di comunicazione e denuncia sociale, quello che Scott definisce con il termine “arma dei deboli”.

 

Nel fortunato tentativo definitorio di Ernesto De Martino (La terra del rimorso, 1961), il tarantismo è individuato quale fenomeno eminentemente culturale e antropologico, non ascrivibile ad alcuna categoria medico-psichiatrica (né a reali episodi di aracnidismo); è un dispositivo di incanalamento e deflusso di un malessere sociale (declinato in modo soggettivo dai vari individui), di un acuto disturbo esistenziale, attraverso un preciso schema rituale istituzionalmente modellato e accettato.

Il tarantismo è un fenomeno circoscritto alla regione pugliese (in particolare al Salento) del quale troviamo le prime attestazioni in fonti mediche e storiche quattrocentesche, benché verosimilmente affondi le proprie radici già in pratiche religiose e culturali dell’epoca classica. Si presenta come un rituale coreutico-musicale di guarigione dei tarantati, coloro che sono stati morsi dalla taranta. Le vittime del morso di tale ragno cadono in uno stato di agitazione psicomotoria, ossia si scazzicano: sono soggetto di «una stimolazione abnorme e irresistibile degli affetti e dei bisogni corporei, un loro indominabile stuzzicamento e scatenamento» (De Martino). Tra le principali passioni scazzicate è rilevante l’appetito venereo, un «prorompere incontrollato dell'impulso erotico contro ogni disciplina della convenienza e del costume»; in alcuni casi, poco numerosi, il tarantato (o la tarantata) versa invece in uno stato di depressione. Il tratto più distintivo del tarantismo è una spiccata disposizione dell’individuo alla stimolazione musicale, specialmente a quella melodia che prende appunto il nome di “tarantella”; il tarantato risponde agli stimoli sonori e spesso richiede insistentemente la musica, mosso da un impulso irresistibile al ballo. La danza accompagnata da musicisti professionisti appare l’unica cura per il malato e assume l’aspetto di un esorcismo coreutico-musicale. Si dà dunque luogo al rituale di guarigione, durante il quale il malato segue cicli coreutici ben definiti che si ripetono in modo continuativo e preciso per un variabile lasso di tempo (anche proseguendo per tre, quattro giorni). Una prima fase a terra vede il malato muoversi con spasmi e convulsioni che ricordano un’eccitazione muscolare tipicamente epilettica, ad eccezione del fatto che seguono fedelmente il ritmo incalzante della musica; poi, il tarantato si solleva a danzare in piedi, in un incessante saltellare a tempo di musica, accompagnato dall’attenzione dei suonatori alla stimolazione sonora.

 

Conclusa questa fase, la musica si interrompe per alcuni minuti, durante i quali al malato ora nuovamente sdraiato, semi-cosciente, viene deterso il sudore e portata dell’acqua, mentre i suonatori si riposano; può capitare ora che il tarantato riferisca la memoria di un’allucinazione, spesso un colloquio con San Paolo (protettore delle vittime del morso), non mostrando tuttavia di avere coscienza né ricordi della danza appena compiuta.

 

Terminata la breve pausa un nuovo ciclo ha inizio, interrompendo il rituale soltanto tra mezzogiorno e le tredici e durante la notte.  L’intero esorcismo ha luogo solitamente in una stanza della casa del tarantato arredata con alcuni elementi simbolici, affollata da familiari in preghiera e da curiosi che assistono la danza, in una dimensione pubblica che somiglia a quella di un palcoscenico o di una piazza. La guarigione giunge in modo improvviso nella forma di grazia del Santo, che segue anch’essa modalità e tempi rigorosamente definiti: «Il Santo fa la grazia o alle 12 o alle 13, o alle 15 o alle 17: se alle 17 la grazia non arriva, se ne parla domani», scandisce con sicurezza un esperto suonatore nel corso di un esorcismo osservato dall’équipe di De Martino nel ’59.

 

Come descritto, lo schema rituale è dettagliato e preciso; i comportamenti dei malati seguono un modello mimico fisso; tuttavia, lo stato di agitazione psicomotoria è clinicamente attestato (nonostante un’assenza di lesione organica, quindi l’impossibilità di individuare un effettivo disturbo psichico). Probabilmente, un certo tipo di rituale pagano di epoca classica – che già conservava  tale funzione di deflusso di ansie all’interno del contesto sociale – è stato in età medievale assimilato al culto cattolico e rimodellato secondo un’appropriata morfologia, affinché potesse essere mantenuta una pratica profondamente radicata nell’identità popolare e difficilmente estirpabile, coerentemente all’ortodossia. Nel tarantismo salentino, pertanto, San Paolo è il santo che concede la guarigione e, allo stesso tempo, talvolta infligge la maledizione del morso; la sua festa cade secondo il calendario cattolico il 29 giugno, giorno che tradizionalmente vede la celebrazione di esorcismi collettivi nella cappella di Galatina, in provincia di Lecce. È notevole che il periodo tra giugno e luglio coincida quasi sempre con una ricaduta della vittima, un ripresentarsi di quei sintomi che avevano accompagnato il primo morso e una conseguente necessità di un nuovo esorcismo domestico, un nuovo pellegrinaggio alla sacra dimora del santo. La ricomparsa su base annuale e stagionale dei sintomi segue il calendario agricolo e religioso, contribuendo alla costruzione di quello spazio simbolico sopra descritto; in particolare, il mese di giugno coincide con l’inizio della stagione dei raccolti, periodo evocatore di ansie e conflitti per la classe contadina (pressoché la sola classe sociale partecipe del tarantismo).

 

Eliminate le ipotesi di un disturbo psichiatrico e di un reale avvelenamento da aracnide, il tarantismo nel suo rigoroso schema performativo costituisce pertanto, sottolinea De Martino, un «dispositivo tecnico di evocazione (…), di ricerca, di ripresa e di liquidazione rispetto a certi contenuti critici sepolti nell'inconscio e in atto di convertirsi in sintomi nevrotici», in un ordine culturale approvato dalla comunità civile e religiosa. Il ri-morso cadenzato del ragno è il rimordere di un passato disturbato sepolto nell’inconscio, il rimorso di una scelta non compiuta o di un desiderio soffocato e il ripresentarsi dell’angoscia esistenziale; «un momento alienato di un interiore rimordere che cerca sé stesso, «una certa intestina gravezza e oppressione», come già diceva il Serao, «l'orizzonte di un'angoscia che è sintomo cifrato di scelte incompiute e di conflitti operanti nell'inconscio», come diciamo oggi» (De Martino, 1961).

 

In Antropologia medica. I testi fondamentali, la malattia e il disagio fisico e psicologico vengono definiti «forme quotidiane di resistenza a ciò che per molti è la realtà quotidiana, monotona e oppressiva, di fatica e lavoro» (Lock, Scheper-Hughes); la malattia quale rituale di resistenza sarebbe perciò un’alternativa a quell’attività politica aperta e organizzata che le classi sociali svantaggiate non possono permettersi. Tale alternativa consiste di una serie assortita di resistenze, tra le quali figurano esempi di «comportamento istituzionalizzato» – stregoneria, malocchio, trance. Questa teoria prende le mosse dal concetto di «personalità incorporata», che vede il corpo dell’individuo tanto legato alla propria psiche quanto al tessuto sociale in cui è immerso, al quale risponde e, se necessario, si ribella:

«il corpo individuale dovrebbe essere visto come il terreno, più immediato e prossimo, in cui vengono messe in scena le verità e le contraddizioni sociali, come anche luogo di resistenza, creatività e lotta personale e sociale».

In una terra oppressa dalla povertà (il Salento), una classe soffocata dall’impossibilità di riscatto e dalla fissità di ruoli sociali risolve dunque il conflitto della propria esistenza e rifonda la propria originale identità in ciò che è diventato un’istituzione necessaria alla salvezza del singolo: il tarantismo.

 

Questa lettura è supportata da quei dati statistici che rilevano una schiacciante maggioranza femminile all’interno del fenomeno: fra i casi osservati nel ’59, 32 individui tarantati su 37 sono donne, e anche tutte le più antiche fonti storiche e mediche sul tarantismo riportano una maggioranza femminile che si aggira intorno all’80%. Le donne, infatti, costituiscono da sempre uno dei gruppi sociali più svantaggiati: vittime di subordinazione nelle società androcratiche, private di libertà sentimentale e di uno spazio sulla scena pubblica, possono riconquistare un ruolo di protagonismo all’interno della comunità attraverso questo tipo di “malattia” culturalmente condizionata. Ecco che, dunque, è facile ravvisare la potenza di questo dispositivo negli antecedenti storici del tarantismo, quali i riti orgiastici dionisiaci a sola partecipazione femminile (menadismo), diffusi in Magna Grecia a partire dall’VIII secolo a.C.: le fonti testimoniano crisi collettive di invasamento divino che spinge al suicidio, danze frenetiche e libidinose, rituali dalla fortissima valenza erotica. Nel momento in cui menadi, baccanti, thyadi, bassaridi, dysmainai e clodones stravolgono l’ideale di austerità e pudicizia della donna greca, confermano la necessità di fuggire la prigione eretta da tale modello.

 

Infine, vorrei offrire uno sguardo sul mondo contemporaneo: recentemente la cronaca europea ha reso nota la uppgivenhetssyndrom, la cosiddetta Sindrome da Rassegnazione (SR), che da più di un decennio colpisce inspiegabilmente bambini e adolescenti profughi in Svezia. Si tratta di una curiosa patologia non ancora categorizzata dagli scienziati, denotata da uno stato comatoso e apatico, incontinenza, paralisi, insensibilità agli stimoli fisici, pur in assenza di lesioni organiche. Soltanto figli di rifugiati provenienti da paesi ex sovietici e dalla ex Jugoslavia, o appartenenti ad altre minoranze, cadono vittima del morbo, e specificamente quando viene loro negato il diritto di soggiorno; parallelamente, quando l’asilo viene concesso ai bambini e ai familiari, la guarigione è pressoché immediata.

Quando manca la possibilità di una lotta politica al potere costituito (ai suoi canoni estetici, culturali, comportamentali), questo tipo di malattia è materia prima dei rituali di resistenza; queste sono le incredibili «armi dei deboli» (Scott, 1985), questo il fortissimo potere del corpo usato come veicolo semantico di valori, disagi, richieste d’aiuto, lotta.

 

 

Per saperne di più:

Come citato, il tarantismo viene analizzato e definito con un sapiente approccio interdisciplinare nel volume La terra del rimorso di Ernesto De Martino. Antropologia medica. I testi fondamentali, a cura di Ivo Quaranta, è stato invece fonte delle riflessioni circa la dimensione antropologica del corpo e della malattia. Interessante può essere a riguardo Antropologia del corpo e modernità di David Le Breton, per una visione generale del concetto di corpo in tale ambito disciplinare.

 

Immagine di pubblico dominio; stampa di Athanasius Kircher (1673). Da wikimedia commons