Il Chiasmo

Tommaso Ghezzani

Nato a Pisa nel 1996, Tommaso Ghezzani è dottorando in filosofia presso la Scuola Normale Superiore, in cotutela con l’Università di Ginevra. Si occupa di storia della filosofia del Rinascimento, di estetica, e di filosofia dell’arte. La sua tesi di laurea magistrale presso l’Università di Pisa si è focalizzata sull’estetica di Francesco Patrizi («Per una teoria poetico-amorosa in Francesco Patrizi da Cherso: follia, memoria, magia»), mentre la sua tesi di licenza presso la Scuola Normale si è concentrata sulle possibili relazioni tra Patrizi e Michel de Montaigne («Consonanze tra Francesco Patrizi e Michel de Montaigne: materiali per un confronto “estetico”»). Il suo progetto di ricerca, «I Teatri del Mondo: “Memoria” e “Inventio” da Giulio Camillo a Jean Bodin e Robert Fludd», è finalizzato alla mappatura della parabola vitale di un fenomeno culturale tra 1500 e 1600, i “teatri del mondo”, ossia delle specie di enciclopedie visive strutturate come architetture teatrali (o simili forme architettoniche), inaugurate in contesti ermetico-platonici. I suoi saggi si concentrano su tematiche di estetica, poetica, arte della memoria, trattati di amore e storia della scienza, e compaiono in diverse sedi editoriali nazionali e internazionali, di cui si ricordano “Philosophia. Rivista della Società Italiana di Storia della Filosofia” e il “Bulletin de la Société internationale des amis de Montaigne”.

Pubblicazioni
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Il meraviglioso come equilibrio poetico: fusione di credibile e incredibile nella Poetica di Francesco Patrizi (parte seconda)

[leggi la prima parte]

 

Oltre al testo poetico in sé, cioè l’oggetto mirabile, però Patrizi si sofferma anche sull’analisi dell’effetto psicologico (inteso come reazione dell’anima) che questo produce nel lettore (o ascoltatore), ossia la meraviglia. Spostandosi dall’oggetto estetico al soggetto, permane in ogni caso l’architettura armonica di fondo; se per quanto riguardava la poesia la condizione essenziale era l’equilibrio di credibile e incredibile, nell’uomo la ricezione poetica provoca uno stato di momentanea armonia delle parti dell’anima. In realtà in questo punto la trattazione si fa intricata ma si può comunque affermare con una certa sicurezza che, così come il mirabile media in qualche modo credibile e incredibile, analogamente la meraviglia media le due principali potenze dell’anima, l’affettiva e la conoscitiva. Oltre a queste due vi è infatti anche una potenza ammirativa che fa da ponte tra esse e rende possibile all’uomo di poter provare meraviglia.

 

Se la meraviglia produce dunque un momentaneo equilibrio delle potenze dell’anima, successivamente sta alla disposizione del singolo fruitore lasciarsi condurre in alto, verso la vita contemplativa, o in basso, verso quella bestiale, ma in ogni caso è certo che non avvengono passaggi da una qualsiasi tipologia di vita all’altra senza passare per lo stadio medio reso possibile dalla meraviglia. In vista di ciò Patrizi riconosce alla meraviglia un fondamentale valore civilizzatore: l’uomo ferino e passionale infatti non può superare la sua bestialità senza prima la mediazione della meraviglia, e proprio per questo i primi poeti dell’umanità elessero il mirabile come essenza della poesia. Tutto ciò ci dà la chiave per comprendere i prodigi che poeti come Orfeo riuscivano a compiere tramite il canto poetico, in particolare la capacità di rendere mansuete le belve feroci, incantate da una poesia tanto mirabile… e forse potremmo togliere anche noi, come fa buona parte della tradizione antica, il velo allegorico da queste vicende e riconoscere in Orfeo non tanto un ammaestratore di bestie ma un educatore di uomini.

 

Andando ad analizzare più a fondo le modalità dell’esperienza del mirabile, Patrizi ritrova un importante presupposto cognitivo, indispensabile perché si possa provare meraviglia: il soggetto non deve essere né completamente ignorante né completamente sapiente. Questa condizione va ad arricchire le coppie in gioco: se da un lato abbiamo il credibile e l’incredibile, e dall’altro l’affettivo e il cognitivo, quest’ultima coppia viene ora a essere corroborata dalla diade di ignoranza e sapienza. Tutto questo risulta più chiaro tramite uno degli esempi che Patrizi usa per spiegare come una completa ignoranza o una completa sapienza determinino la morte della meraviglia, a suo dire tratto da Averroè.

 

Sia presa la seguente vicenda mirabile: una donna, senza avere avuto rapporti sessuali, rimane incinta dopo essere stata al bagno. Qui abbiamo innanzitutto le due componenti necessarie perché tale evento sia mirabile: da un lato il credibile, si parla infatti di una donna ordinaria che noi crediamo soggiacere alle regolari leggi della natura, dall’altro l’incredibile, cioè il fatto che lei rimanga incinta pur senza essere entrata in contatto con alcun uomo. Questo fatto mirabile, recepito da un fruitore, attiva la potenza ammirabile della sua anima, mediandone l’affettiva e la cognitiva, ma perché ciò avvenga è necessario appunto quello stadio intermedio di ignoranza e conoscenza. Se il fruitore fosse infatti completamente all’oscuro di tutta la storia non potrebbe ovviamente provare meraviglia, così come non ne proverebbe se fosse a conoscenza della causa scatenante l’evento. Se infatti, continuando l’esempio di Patrizi, dovessimo scoprire che questo è accaduto poiché un uomo aveva sparso precedente il suo seme nel bagno, la cosa non ci desterebbe alcuna meraviglia (quantomeno immedesimandoci nella cultura medica dell’epoca).

 

La meraviglia nasce dunque solo dopo la cognizione dell’evento mirabile, ma non deve essere una cognizione completa; per usare altri termini, la meraviglia deriva dalla conoscenza del fatto ma non dalla sua causa scatenante. Andando a tirare le fila del suo discorso, il filosofo chersino ci offre infine un’utile sintesi definitoria:

 

È adunque in sua essenza la maraviglia un movimento della potenza ammirativa, per notizia nuova sorto, e un formamento di essa per ignoranza precedente e conseguente fin alla cagione; ovvero un movimento della medesima formato in dubbio tra sì e no, e tra crede e non credere. E con ciò viene a essere conforme al mirabile sua cagione, che dicemmo essere cosparto di credibile incredibile, o di incredibile credibile.

 

L’armonia che affonda le sue radici nel mirabile poetico si proietta dunque anche nell’anima umana e nella sua portata cognitiva. Da questo Patrizi coglie importanti riflessioni che vanno ben al di là della mera questione della composizione poetica, aprendoci uno spiraglio verso una visione universalizzante dell’equilibrio della poesia che arriva a interessare il terreno entro cui l’essere umano può muoversi e conoscere, fino ad andare a coinvolgere le strutture più profonde che determinano il mondo.

 

Questa Poetica non è solo un testo sulla natura della poesia ma, per chi li sa cogliere, fornisce importanti indizi sulla visione del cosmo e di quel microcosmo che è l’uomo; l’equilibrio meraviglioso può essere elevato a principio costituente di tutto il reale. Procedendo con ordine e soffermandoci innanzitutto sulle implicazioni gnoseologiche della meraviglia come stato mediano tra conoscenza e ignoranza, non sorprende che Patrizi giunga a posizioni condivise anche dal tanto avversato Aristotele. L’equilibrio del sapere in una posizione intermedia come condizione necessaria alla meraviglia non può che rimandarci al dettato platonico, ma condiviso anche dallo stagirita, per cui dalla meraviglia nasce la filosofia, dunque la «meraviglia sempre il filosofo accompagna». Così come il poema non è tale se non si mantiene tra credibile e incredibile e la meraviglia scompare a causa di un’ignoranza assoluta o di una conoscenza completa, allo stesso modo il filosofo è colui che, ricercando la sapienza, non la possiede ma se fosse completamente ignorante non potrebbe nemmeno iniziare a ricercarla. Questa condizione filosofica in realtà rappresenta la condizione propria dell’uomo: se conoscesse tutte le cause del reale sarebbe un dio, se ignorasse ogni tipo di ricerca razionale non sarebbe altro che un animale incapace di provare piacere cognitivo. Il fatto medesimo che l’uomo provi piacere verso le cose mirabili e analogamente nella ricerca filosofica è, secondo Patrizi, una riprova non solo della legittimità di questo stato intermedio ma soprattutto della sua costituzione a parte integrante della natura dell’umano.

 

Conoscere tutto, essere degli dèi porta con sé la perdita di ogni piacere, proprio unicamente dello stato mediano in cui l’uomo si inserisce: «E proprio è il diletto dell’imparamento, per che questo è un ritorno in perfezione di natura, e le così tali tutte piacere arrecano; sì come contrarie, conducenti a peggioramento e distruzione, recano il contrario dolore». Come anticipato però la poesia non ci aiuta solo a comprendere l’essenza dell’uomo ma si spinge ad essere metafora della realtà universale. I passi utili a tal proposito sono in realtà molteplici: Patrizi non esita a paragonare i fonti topici della poesia ai principi primi del reale che nel Filebo di Platone strutturano la realtà, ma soprattutto ci dice anche che il poeta racchiude in sé tre tipologie dell’attività creativa (ancora una volta la fonte è il filosofo greco). Costui plasma infatti la poesia come un artigiano plasma il suo prodotto dalla materia che ha a disposizione. Il poeta però crea anche come crea la natura, cioè facendo crescere da semi immateriali tutto il mondo materiale. Infine, e questo è il passo decisivo, il poeta crea anche come Dio ha creato la realtà, cioè dal nulla. Egli infatti deve attenersi a dei limiti creativi imposti dalla necessità dei fonti topici, suoi strumenti artigianali, tuttavia nello sviluppare il corpo poetico, così come la natura sviluppa i propri semi, egli diventa in qualche modo il dio di tale universo letterario.

 

Cosa fanno infatti i grandi poeti se non creare mondi alternativi?

 

Ogni poeta nel costituire mondi di parole viene ricondotto alla grandezza divina di cui è immagine, così come le sue poesie sono immagini del mondo e così come la ricerca del sapere rappresentato dalla filosofia è immagine del sapere divino assoluto.

L’equilibrio tra credibile e incredibile, linfa vitale della poesia, da cui nasce la meraviglia, altro non è che la riproduzione umana di quel complesso equilibrio che regola la conoscenza dell’uomo e che dà forma al mondo che abita.

 

 

Per saperne di più:

Per un quadro generale sulla vita e le opere di Patrizi rimando alla voce stesa da Margherita Palumbo per il Dizionario Biografico degli Italiani. La Poetica è attualmente disponibile unicamente nell’edizione in tre volumi curata da D. Aguzzi Barbagli: F. PATRIZI, Della Poetica (3 voll.), Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, Firenze 1969-71. Per approfondire l’opera e indagare il filo rosso che la relaziona al resto della produzione patriziana rimando a L. BOLZONI, L’universo dei poemi possibili. Studi su Francesco Patrizi da Cherso, Bulzoni, Roma 1980.

 
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Il meraviglioso come equilibrio poetico: fusione di credibile e incredibile nella Poetica di Francesco Patrizi (parte prima)

«È del poeta il fin la meraviglia» scriveva Marino, racchiudendo in un solo verso quello che sarebbe diventato un vero e proprio motto non solo della poesia ma di tutta l’arte barocca.

 

Su questa scorta siamo ormai soliti relazionare tale meraviglia, tanto poetica quanto artistico-figurativa, a giochi virtuosistici, a eccessi monumentali, a bizzarrie e arabeschi spesso visti contrapposti alla «nobile semplicità e quieta grandezza» attribuite alla cultura classica con le relative etichette di armonia ed equilibrio. In realtà questi due poli, lontani dall’essere compartimenti a tenuta stagna, dialogano spesso tra loro e, in un momento storico tumultuoso, come il tardo Cinquecento italiano, possiamo assistere a numerosi fenomeni di ibridazione in diversi campi della cultura.

 

Il cosiddetto Manierismo raccoglie l’armonia dei grandi maestri del Rinascimento scuotendone le fondamenta e dirigendola verso le tortuosità del Barocco; se questo è vero per l’arte figurativa, la letteratura non è da meno, e a queste bisogna aggiungere anche la variegata schiera degli stessi teorici delle arti.

 

Fra i molti teorici di arte poetica spicca in particolare il filosofo Francesco Patrizi da Cherso (1529-1597), una fra le più alte voci della filosofia platonica del secolo, fiero avversario della fazione aristotelica. Tra le sue ultime grandi opere vi è appunto una monumentale (e incompiuta) raccolta di deche, Della Poetica, scritte tra il 1586 e il 1588. Nonostante le dieci deche previste, ne scriverà solo sette, delle quali saranno pubblicate solo le prime due; in ogni caso il materiale è più che sufficiente per darci le coordinate di una ricchissima teoria poetica. La tentazione di appiattire questo autore verso posizioni anacronisticamente irrazionalistiche potrebbe essere forte ma la parola chiave per poter comprendere pienamente l’idea che guida tutta l’opera è equilibrio. Questo non va confuso con l’equilibrio ormai deteriore dei teorici aristotelici che, tramite un’interpretazione stereotipata ed esasperata della Poetica di Aristotele, pretendevano di ridurre il fenomeno poetico entro uno spettro limitato di categorie razionalistiche estremamente limitanti. Patrizi scrive infatti un’arte poetica, ossia un insieme di precetti tecnici per comporre e giudicare i prodotti letterari, ma non limita la vera poesia alla mera applicazione di tali norme. La poesia, secondo Patrizi, è un compromesso tra le regole richieste dal soggetto poetico e la libertà del poeta che, entro certi limiti, può plasmarlo come meglio crede. In questa direzione, come vedremo, va appunto quella che per il filosofo è l’essenza della poesia, ossia il mirabile, ciò che produce la maraviglia nel fruitore. I due termini non si riferiscono a fenomeni tanto ineffabili quanto smodati e incontrollati ma sono inseriti all’interno di una misurata e precisa armonia di componenti specifiche, perfetto equilibrio di perizia tecnica e inventività fuori dal comune, di ars e furor.

 

Fin dall’apertura l’intento dell’opera è chiaro, Patrizi rintuzza il principio dell’ipse dixit dei teorici aristotelici «troppo più all’autorità che a’ fatti e alle ragioni credenti». Quello che distinguerà la sua poetica da quelle dei suoi predecessori è appunto anche l’ampio bagaglio di documentazione storica sul materiale poetico, ossia i fatti, usati come base per costruire la sua teoria.

 

Il primo capitolo della prima deca è non a caso un oceanico elenco di tutti i poeti dall’antichità al medioevo di cui è rimasta traccia, corredato da riflessioni più o meno estese sulle loro opere superstiti. Al di là della pedanteria di una simile operazione, quello su cui è importante soffermarsi è la forte connotazione mistico-religiosa della poesia che emerge. Se Aristotele e i suoi seguaci tendevano a collocare la creazione poetica nella dimensione terrena della natura umana, da cui risultava legittima una razionalizzazione dei suoi fondamenti, Patrizi evidenzia l’origine ultraterrena dell’ispirazione poetica. Allargati i confini dei limitati precetti razionalistici tramite la dimensione del trascendente, al di là della ragione umana, l’attività poetica risulta irriducibile a mera tecnica insegnabile razionalmente. Come anticipato sopra però egli non concepisce nemmeno l’attività del poeta come un’attività irrazionalmente sregolata, né il testo poetico è ridotto a confusionario ed eterogeneo guazzabuglio di componenti casuali.

 

La risoluzione di questo conflitto sta appunto nella terza deca della Poetica patriziana, la Deca Ammirabile, cuore della sua teoria. Appurato che la poesia non può essere limitata ad avere un oggetto fisso, che secondo gli aristotelici doveva consistere nelle azioni degli esseri umani, ma che può trattare di qualsiasi cosa, tanto umana, quanto naturale e divina, sorge il problema di capire cosa renda la poesia un genere a sé stante. La risposta va dunque cercata non in un oggetto specifico della poesia, ma nel modo in cui la poesia tratta i suoi oggetti. Tale modalità, come anticipato, è il meraviglioso (o mirabile per dirla in termini patriziani): la poesia può trattare di qualsiasi oggetto voglia, ma deve farlo rendendo tale oggetto mirabile. Per produrre il mirabile, che viene così a diventare l’essenza della poesia, però è necessario ricercare quel già citato equilibrio tra stabilità regolare e guizzo surreale, mediando così di fatto gli aristotelici più pedanti e i manieristi più bizzarri.

 

Entra a questo punto in gioco la dimensione più tecnica della poetica patriziana; il filosofo tenta infatti adesso di dare un taglio sistematico e, per certi versi, razionalistico della creazione del mirabile poetico. In questa complessa operazione si serve di categorie tratte dall’arte retorica, in particolare della nozione di fonte topico, ossia il principio generale da cui deriva un certo discorso. Per meglio spiegare questa nozione credo sia meglio far parlare la disamina di Patrizi. Egli divide i principali fonti topici in due grandi ordini, quello del credibile e quello dell’incredibile.

Ognuno di questi due ordini contiene cinque fonti:
a) CREDIBILE: necessario, probabile, avvenuto, vero, verosimile;
b) INCREDIBILE: non necessario, improbabile, non avvenuto, falso, falsosimile.

 

Così come una poesia costruita unicamente sulla base del necessario, del probabile ecc. risulta piatta, analogamente un testo poetico generato solo tramite fonti incredibili risulta bizzarro e vuoto.

 

Il mirabile deriva dunque dalla fusione dei due ordini, ossia da un’accurata mistione di credibile e incredibile, di cui Patrizi calcola pedantemente tutte le possibilità, giungendo ad ammettere la tendente infinità del risultato finale. Dato questo spettro quasi infinito di combinazioni possibili, alla creatività del poeta è dato il compito di scegliere quelle che meglio si adattano al proprio soggetto e di farlo crescere sulla base di tale esoscheletro.

 

[leggi la seconda parte]

  

Per saperne di più:

Per un quadro generale sulla vita e le opere di Patrizi rimando alla voce stesa da Margherita Palumbo per il Dizionario Biografico degli Italiani. La Poetica è attualmente disponibile unicamente nell’edizione in tre volumi curata da D. Aguzzi Barbagli: F. PATRIZI, Della Poetica (3 voll.), Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, Firenze 1969-71. Per approfondire l’opera e indagare il filo rosso che la relaziona al resto della produzione patriziana rimando a L. BOLZONI, L’universo dei poemi possibili. Studi su Francesco Patrizi da Cherso, Bulzoni, Roma 1980.

 
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Il teatro della memoria di Giulio Camillo

Un'utopia neoplatonica

 

Vi sono molte espressioni, nel nostro parlato quotidiano, inerenti alla memoria e alla sua visibilità: quando si vuole, ad esempio, spingere qualcuno a ricordarsi qualcosa lo si esorta a imprimerselo bene in mente, quando dobbiamo ricordarci i molteplici contenuti di un manuale scolastico ci consigliano sempre di costruirci degli schemi mentali, quando rievochiamo costantemente un evento del nostro vissuto e lo facciamo oggetto di molteplici e disparate interpretazioni ci accusano di farci dei film mentali. Tutte queste espressioni fanno riferimento ad una sorta di materialità, ma soprattutto di visibilità del contenuto mnemonico. Quando vogliamo ritrovare una determinata esperienza è come se dovessimo ripercorrere a ritroso una catena di immagini, una precisa sequenza di ricordi, per isolare il fotogramma che andiamo ricercando, come se la nostra memoria fosse il nastro di una cinepresa. Questo modello concettuale mnemonico-visivo, nonostante l’apparente attualità e superficialità, fa riferimento a un depositato culturale che oggi è praticamente estinto, ma che fino a pochi secoli fa toccava buona parte degli aspetti della vita quotidiana; mi riferisco alla tradizione millenaria dell’arte della memoria. Molte delle metafore sulla memoria che siamo abituati a usare oggi, anche con una certa leggerezza, affondano, infatti, le proprie radici in epoche in cui la capacità mnemonica era di primaria importanza, vista anche la scarsità di supporti tecnologici, a cui oggi siamo abituati, i quali si fanno carico, al nostro posto, di molti compiti di memorizzazione. In una ristrettissima cerchia rinascimentale, essenzialmente di matrice neoplatonica ed ermetico-cabalistica, l’arte della memoria assurse inoltre ad onori ben maggiori di quelli che gli si riconoscono attualmente come mero sapere empirico e utile solo a memorizzare conoscenze inerenti ai più diversi ambiti. Uno dei più celebri esempi di questo utilizzo, quasi iniziatico, della memoria, è l’opera del retore e filosofo Giulio Camillo, detto Delminio (1480-1544), che avvicinò la memoria, come noi abbiamo fatto prima, ad una diffusa esperienza visiva, ovviamente non all’esperienza cinematografica ma, mutatis mutandis, a quella teatrale; suo progetto era quello di erigere un vero e proprio teatro della memoria.

 

Per capire la portata del progetto e il suo livello di innovazione dobbiamo però fare, in via preliminare, un passo indietro: lasciamo momentaneamente da parte le sontuose corti rinascimentali per rivolgerci ad un ricco banchetto della Grecia preclassica. Come era comune all’epoca, questi simposi erano accompagnati da composizioni di poeti professionisti e fra queste aveva grande importanza quella dedicata ad esaltare il padrone di casa che aveva generosamente offerto la festa. Il nostro ospite, senza badare a spese, aveva ingaggiato, per tessere le sue lodi, un poeta di immensa fama: Simonide di Ceo. Il fato avverso, però, forse proprio per punire il padrone di casa che non aveva voluto pagare a Simonide il prezzo pattuito per i suoi servigi, non risparmia il nostro banchetto: la casa crolla su se stessa uccidendo tutti i convitati, tranne il divino Simonide che, nel momento del crollo, si trovava fuori dal palazzo. In quanto unico superstite, egli fu richiamato dai parenti disperati degli invitati a riconoscere i corpi dei loro cari sfigurati dalle macerie. Il poeta allora riuscì a risalire all’identità di ogni cadavere semplicemente ricordando la disposizione al banchetto degli sventurati ospiti. Fu allora che venne inventata la cosiddetta arte della memoria.

 

In questo racconto leggendario emergono tutti gli elementi costitutivi di quest’arte, così come ci vengono tramandati dalle fonti latine (le uniche testimonianze giunteci sull’arte della memoria presso l’antichità): le immagini, i luoghi e l’ordine. La teoria tradizionale prevede infatti che, per ricordare delle informazioni, sia necessario assimilarle ad immagini, spesso figure umane intente a svolgere determinate azioni. Queste andranno poi collocate in specifici luoghi i quali dovranno seguire un ordine determinato, in modo tale da poter ripercorrere mentalmente le nostre informazioni secondo la loro esatta successione.

 

Per usare un esempio pseudo-ciceroniano tratto dalla Retorica ad Erennio (l’arte della memoria presso i latini era infatti coltivata dai retori che non a caso avevano grande necessità di memorizzare le proprie orazioni) potremmo fingerci oratori che, presso un tribunale, devono accusare un imputato, reo di aver ucciso un proprio parente per impadronirsi dell’eredità, ma tradito dalla presenza di alcuni testimoni. Per ricordare questo è necessario visualizzare la figura dell’accusato, presso il letto di un uomo defunto (il parente ucciso), recante in una mano una coppa di veleno (emblema dell’omicidio), nell’altra delle tavolette (rappresentanti il testamento) e dei testicoli di ariete (per affinità verbale, testiculus, richiama la presenza dei testimoni, testes). Questa è la nostra immagine agente: si è infatti propensi a ricordare più facilmente immagini in movimento. Questa potrebbe essere la prima parte del processo, in seguito alla quale noi, oratori dell’accusa, potremmo voler discutere riguardo alle prove che adduciamo, a loro volta esemplificate in immagini agenti. È dunque importante che tutte queste immagini siano collocate in luoghi separati fra di loro e dotate di un ordine tale da non confondere quanto bisogna dire prima e quanto dopo. Per rimanere sulla scia dell’esempio di sopra potremmo collocare l’immagine dell’omicida entro una stanza, la prima di un lungo corridoio, e le altre immagini della nostra orazione nelle stanze successive, rispettando il susseguirsi di informazioni così come vengono affrontate nel discorso. In questo modo, l’arte della memoria sfrutta la naturale propensione della mente umana verso il ricordo di immagini, edificando vere e proprie architetture mentali. Nel Medioevo troverà largo impiego presso i predicatori, ma sarà soprattutto il Rinascimento, nelle sue derive ermetiche e neoplatoniche, a conferirle nuove funzioni, sebbene presso il largo pubblico rimarrà essenzialmente una pratica empirica per gli oratori e gli studiosi.

 

Torniamo quindi presso le nostre città rinascimentali, in particolare quelle venete; lì girovagava, fra Padova e Venezia, un personaggio assai singolare, additato dai più come genio, ma anche folle, divino e ciarlatano, come asceta e, infine, puttaniere. Il nostro uomo è il già citato Giulio Camillo, oggi nome ignoto, ma all’epoca uno degli uomini più famosi del secolo; amico di Ariosto e Tiziano, acerrimo rivale di Erasmo da Rotterdam; perfino Calvino si scomodò per tenere d’occhio la sua sospetta sosta in Svizzera. L’opera di questo singolare umanista, retore di professione ma filosofo per elezione, è tutta incentrata su un unico immenso progetto, quello del Teatro della memoria. Il corpus dei suoi scritti maggiori può essere visto come un insieme di progettazioni, appendici, apologie, approfondimenti e chiarimenti sul Teatro. Egli purtroppo rifiutò fino all’ultimo momento di mettere per iscritto una trattazione monografica su questo progetto; arrivato in fin di vita decise di dettarne, a un amico fidato, un abbozzo estremamente schematico e laconico, intitolato Idea del theatro. Chiunque oggi voglia tentare di capire la portata del Teatro non può non partire da quest’opera, che ne fornisce la chiave interpretativa principale. Tuttavia, essendo estremamente povera di approfondimenti e chiarimenti esaustivi, è necessario tenere costantemente sotto osservazione anche le altre opere dell’autore, che spesso ci vengono in soccorso.

 

Una delle prime grandi distanze, che separa Camillo dall’arte della memoria tradizionale, è il fatto che egli volesse portare l’architettura mentale fuori dalla sua testa per darle materia: questo Teatro era stato pensato per essere costruito davvero. Per quanto ne sappiamo, Camillo era riuscito ad ammaliare diversi finanziatori importanti, fra cui il re di Francia, ed era riuscito addirittura a farne costruire una versione in piccolo che poteva contenere fino a due persone insieme. Oggi purtroppo giace sepolta dalle intemperie del tempo e degli uomini; fu infatti impietosamente abbattuta. Per noi rimane comunque davvero suggestivo pensare come, all’epoca, pochi eletti abbiano davvero potuto varcare le soglie di quel luogo e proprio da una di queste visite eccezionali ebbe occasione una preziosa testimonianza sull’effettiva esistenza fisica di questo luogo. Camillo mostrò il suo prototipo proprio ad un fidato amico del suo rivale Erasmo, Viglio van Aytta. Così egli descrive il suo tour proprio a Erasmo:

«L’opera è in legno, segnata con molte immagini e gremita, in ogni parte, di piccole cassette; e vi sono diversi ordini e gradi. […] Egli [Camillo] chiama questo suo teatro con molti nomi, dicendo ora che è una mente e un’anima artificiale, ora che è un’anima provvista di finestre. Pretende che tutte le cose che la mente umana può concepire e che non si possono veder con l’occhio corporeo possano tuttavia […] essere espresse mediante certi simboli corporei in modo tale che l’osservatore può, all’istante, percepire con l’occhio tutto ciò che altrimenti è celato nelle profondità della mente umana. E appunto a causa di questa percezione corporea lo chiama un teatro».

Tentare di visualizzare quanto ci dice Viglio potrebbe risultare piuttosto complicato ma in nostro soccorso viene questa utile animazione.

 

Già da questa scarna descrizione possiamo farci un’idea delle molteplici implicazioni del Teatro. Esso porta nel mondo materiale l’architettura mentale nascosta della memoria con tutto il suo apparato di immagini, poste nei luoghi destinati agli spettatori, secondo l’ordine delle gradinate teatrali. Camillo non fu certo modesto; concepì questo Teatro non come semplice dispositivo mnemonico, ma come vero e proprio ricettacolo di tutto il sapere umano. Ciò che pone definitivamente il progetto al di là dell’arte della memoria tradizionale è proprio la volontà che c’è dietro: il Delminio non voleva semplicemente dare ai suoi discepoli un metodo per memorizzare le varie conoscenze che essi incontravano nelle loro attività quotidiane. La sua intenzione era quella di edificare un sistema mnemonico che ricalcasse perfettamente il funzionamento della mente umana, in cui racchiudere tutto il sapere dell’uomo, da lui selezionato e organizzato. Più che un metodo mnemotecnico, ricorda una vera e propria enciclopedia.

 

Senza addentrarci nelle complesse istruzioni che guidano l’utilizzo del Teatro, basti sapere che esso si basa su un sistema di quarantanove luoghi. Vi sono infatti sette ordini o gradi (sistema orizzontale) che si intersecano con sette corridoi (sistema verticale). In ogni luogo, vi è una porta su cui sono impresse diverse immagini, dietro le quali sono contenuti degli scritti ad esse relazionati. Facciamo un esempio: prendiamo il luogo posto nell’ultimo grado (il settimo) del corridoio centrale. Nei luoghi del settimo grado vi sono gli scritti dedicati a tutte le attività umane, in particolare nel settimo grado del corridoio, dedicato al Sole, vi sono le attività umane che rispecchiano l’influsso astrale del suddetto pianeta. Fra le immagini che dunque decorano questo luogo non può mancare la poesia, la più nobile delle attività umane ispirate dal più nobile degli influssi astrali; essa sarà infatti indicata da un’immagine, quasi topica, di Apollo fra le muse. Ovviamente delle incantevoli immagini non ci si sono rimaste che le descrizioni fatte da Camillo.

 

Ma quali scritti sono conservati dietro le innumerevoli immagini dei quarantanove luoghi? Ovviamente scritti di Cicerone! Camillo, grande classicista, spende moltissime delle sue energie per selezionare i passi più importanti delle opere ciceroniane e di pochi altri eletti autori che, divise per argomento secondo il sistema classificatorio del teatro, possono essere facilmente consultate, così archiviate, da chi si prende la briga di imparare il funzionamento della grande macchina mnemonica.

 

Come detto prima, però, non si deve assolutamente pensare che questo dispositivo si limitasse ad essere una raccolta di passi letterari retoricamente efficaci ad uso degli oratori, che potevano usarli per le proprie orazioni. Come si può facilmente evincere da alcuni passi dell’Idea del Theatro e soprattutto grazie a un altro scritto, il De transmutatione, chi compie il suo percorso all’interno di questa architettura si forma non solo da un punto di vista elocutorio ma anche da un punto di vista specificamente iniziatico. Il sistema del Teatro, infatti, rispecchia sia il funzionamento della mente umana, sia l’ordine del cosmo secondo la visione neoplatonica. Si passa non a caso dal grado più alto, in cui tradizionalmente risiedevano gli spettatori meno nobili, fino a quello più in basso e più vicino al palco, in cui trovavano posto gli spettatori di rilievo. Analogamente, l’uomo può risalire dal mondo materiale, rappresentato appunto dal grado più alto e meno nobile (quello delle attività umane), fino ad arrivare ai gradi ontologicamente più alti della realtà, fino alla mente di Dio. L’uomo che si libera della prigione corporea, trasfigurandosi in puro spirito, esemplifica il processo alchemico tramite cui la materia vile si spoglia delle scorie basse e ignobili, trasfigurandosi in metallo prezioso. Analogo è anche il processo retorico, tramite il quale la parola umana si libera dai vincoli del limitato, facendosi parola divina e universale.

 

La memoria, intesa come deposito di tutte le verità, si unisce così all’elevazione mistica della tradizione neoplatonica tramite un singolare percorso iniziatico, nel quale l’eloquenza, con tutta la dimensione di sacralità che investe il linguaggio umano, si sposa alla dimensione visiva. Ricordo e conoscenza, immagine e parola, vista e udito, vanno così perdendo le loro differenze specifiche in un indissolubile connubio, presso una civiltà, quella del Rinascimento, in cui conservare la memoria del passato significa edificare il presente.

 

 

Per saperne di più:

Per approfondire le implicazioni legate al Teatro il rimando è all’edizione più recente dell’opera, curata da Lina Bolzoni, G. Camillo, L’idea del theatro (1550), in L’idea del theatro, con «L’idea dell’eloquenza», il «De transmutatione» e altri testi inediti, Adelphi, Milano 2015. Chiara e maneggevole, sia per quanto riguarda Camillo, sia per quanto riguarda la storia dell’arte della memoria, è inoltre la monografia di F. Yates, L’arte della memoria, Einaudi, Torino 2007, sebbene superata per quanto riguarda i capitoli su Giordano Bruno.

 
Immagine di Caba2011. Pubblicata su wikimedia con licenza CC BY-SA 4.0

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Pittura e poesia, un’identità inscindibile?

Le forme artistiche processate dalla filosofia

 

«Ahi! Tu mordi e non baci», scrive Giovan Battista Marino in Bacio Mordace: egli usa un artificio retorico per porre sullo stesso piano il bacio e il morso. Nonostante la metafora voglia apparentemente sovrapporre in modo completo i due elementi, non è ovviamente intenzione dell’autore eliminarne le differenze specifiche. Quello che ci sta dicendo è che il bacio dell’amante ha sull’amata l’effetto di un morso, in quanto l’amore passionale brucia proprio come un morso. I due elementi sono sovrapposti solo per alcune somiglianze che non pretendono di eliminare le loro differenze (notevoli fra un morso e un bacio...): senza sciogliere la metafora si otterrebbe, infatti, il quadro comico e grottesco di un innamorato che azzanna selvaggiamente la sua amata. Come ci mostra questo esempio, è fuorviante porre elementi diversi in un rapporto di identità completa. Quando si parla di identità come di una corrispondenza completa fra uno o più enti, dunque, si corre il rischio di annullarne le differenze specifiche che li distinguono. Il caso della metafora, come visto, è più che eloquente.

 

Non risulta però sempre spontaneo, come invece accade nel caso del bacio-morso, preservare le differenze fra gli elementi. Non a caso, a un certo punto, un poeta greco sovrappose pittura e poesia, dando vita al plurisecolare principio estetico dell'ut pictura poesis; il poeta era Simonide di Ceo e il verso fatale, giuntoci tramite Plutarco, suona così: «La pittura è una poesia muta e la poesia una pittura parlante». Questa massima attraverserà quasi indisturbata i secoli e, passando per Orazio che la renderà celebre nell’Ars Poetica, arriverà fino alla modernità, regnando sovrana nella critica artistica. Se escludiamo Leonardo, che già all’alba del ‘500 si era opposto all’autorità dell’ut pictura, bisognerà attendere il XVIII secolo per vedere degli autorevoli rifiuti a questa norma ormai imperante. Notevoli tentativi si possono osservare in Francia con Diderot, espressi nella Lettre sur le sourds et les muets, ma la vera svolta si attuerà in Germania. Sarà infatti Gotthold Ephraim Lessing, drammaturgo tedesco dagli interessi filosofici, a porre in crisi una volta per tutte l’eccessivo utilizzo del motto di Simonide. Egli riprenderà gli insegnamenti di Diderot e, coniugandoli con le teorie e i consigli dell’amico Moses Mendelssohn, noto esponente dell’illuminismo ebraico, darà vita nel 1766 al saggio Laocoonte, ovvero dei confini della pittura e della poesia (in originale Laokoon, oder über die Grenzen der Mahlerey und Poesie).

 

L’opera è assai eterogenea e riunisce vari ambiti del sapere (filosofia, critica artistica, archeologia, analisi testuale), ma fin da subito il suo progetto appare chiaro: ristabilire le differenze fra arte figurativa e arte letteraria. Secondo Lessing l’aforisma di  Simonide è stato interpretato alla lettera dai moderni, che hanno così radicalizzato il suo messaggio. Come si diceva sopra, i moderni sono caduti nell’identificazione completa fra i due elementi, dimenticando le loro differenze costitutive (lo stesso errore del lettore che non scioglie la metafora nel verso di Marino). Lessing enuncia tutto questo senza mezzi termini nell’apertura del saggio:

«[Gli antichi] limitando il detto di Simonide all'effetto delle due arti, non trascurarono di sottolineare che a prescindere dalla perfetta somiglianza di tale effetto, esse sono tuttavia diverse sia nei soggetti che nel modo della loro imitazione [...]. Tuttavia proprio come se non esistesse alcuna differenza, molti critici moderni hanno dedotto da questa armonia le cose più triviali di questo mondo».

Poesia (macrocategoria che include anche la prosa e la musica) e pittura (macrocategoria che include ogni arte figurativa) imitano la realtà secondo modalità ben distinte, di conseguenza i «soggetti prediletti» di una non possono essere i medesimi dell’altra e l’esempio più evidente di ciò si trova nel titolo stesso dell’opera. Il noto gruppo scultoreo del Laocoonte, frutto della perizia degli scultori rodesi Agesandro, Atenodoro e Polidoro, mostra una rimarchevole differenza rispetto alla descrizione del medesimo episodio tramandataci dal secondo libro dell’Eneide. Lessing osserva come, nel primo caso, allo spettatore non si mostri un Laocoonte che «clamores horrendos ad sidera tollit» («innalza fino alle stelle grida terribili»). Il Laocoonte scultoreo, infatti, non palesa una sofferenza smodata come quello virgiliano e da questa sostanziale divergenza risale a quella che è la differenza ontologica fra arte figurativa e arte poetica: l’una si esprime tramite lo spazio e l’altra tramite il tempo. La pittura e la scultura imitano la realtà attraverso i corpi, vale a dire oggetti le cui parti costitutive sono percepite dalla nostra vista tutte insieme nello stesso momento, in quanto il corpo acquista senso solo se colto nella sua simultanea totalità spaziale. La musica e la poesia invece imitano il reale tramite le azioni, cioè oggetti che acquistano senso solo in quanto le loro parti costitutive seguono una precisa successione temporale.