Il Chiasmo

Francesco Livorno

Francesco Livorno (21/05/1999) è allievo della Scuola di Studi Superiori “Giacomo Leopardi” di Macerata. Diplomatosi con lode presso il Liceo Classico “Publio Virgilio Marone” di Avellino (AV), attualmente è iscritto al III anno del Corso di Laurea in Lettere (L-10) presso l'Università di Macerata. Tra i suoi interessi di ricerca vi sono Platone, Giacomo Leopardi, la ricezione della cultura classica nell’Estremo Oriente e la questione meridionale.

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Salvati da Rigel

 

Nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912, come tutti sanno, la nave più famosa della storia, il Titanic, si inabissò nelle acque dell’Atlantico in seguito alla collisione con un iceberg. In seguito al naufragio cominciarono a circolare sui giornali numerosi e affascinanti aneddoti intorno al transatlantico e al suo unico, fatale viaggio, aneddoti nei quali è spesso difficile stabilire il confine tra realtà e leggenda. È il caso, ad esempio, della storia di Rigel, un Terranova che, grazie ai suoi latrati, avrebbe consentito il salvataggio di una scialuppa di naufraghi da parte dell’equipaggio del Carpathia, la prima nave giunta in soccorso sul luogo del disastro. L’affascinante vicenda di questo cane-eroe ha generato in tempi recenti un’ampia letteratura, scientifica e non, a essa dedicata, condita anche da un libro per bambini e addirittura da un’app; tuttavia, sulla sua reale consistenza aleggiano non pochi dubbi.

La presenza di passeggeri a quattro zampe a bordo del Titanic, innanzitutto, non deve sorprendere: oltre a un gatto (forse due), abbiamo notizia di ben dodici cani, dieci dei quali di proprietà di passeggeri di prima classe – pressoché gli unici a potersi permettere il prezzo del loro biglietto, che costava quanto quello di un bambino –, desiderosi di portarli con sé come souvenir del vecchio continente; di questi cani molti dovevano essere di razza, se fu organizzata anche una piccola esposizione che tuttavia non si svolse mai, prevista com’era per il giorno successivo al naufragio. Né poteva essere lasciata al caso, sulla nave più lussuosa al mondo, la loro giornata tipo: per non lasciarli troppo a lungo nelle gabbie, un membro dell’equipaggio li portava a spasso due volte al giorno (mattino e pomeriggio) sul ponte di poppa, mentre potevano trascorrere il resto del tempo con i proprietari.

Quando quella fatidica notte la nave impattò con l’iceberg, non tutti si preoccuparono dei propri cuccioli, anche perché non compresero immediatamente l’entità del pericolo, e quando lo fecero era ormai tardi per pensare ad altro che a salvarsi: così, molti cani rimasero chiusi nelle cabine dei padroni – come accaduto alla barboncina dei coniugi Walton Bishop – o semplicemente lasciati al proprio destino. Testimoni, tuttavia, raccontarono che l’imprenditore John Jacob Astor, dopo aver fatto salire su una scialuppa la moglie incinta, si recò alle gabbie per liberare tutti i cani, tra cui la sua airedale Kitty, per dare loro una possibilità di salvarsi. Astor e la sua cagnolina perirono nel naufragio; lo stesso destino fu scelto da Ann Elizabeth Isham, che si rifiutò di salire sulla scialuppa senza il suo fedele cane (probabilmente un alano): furono poi trovati in acqua l’uno accanto all’altra. Non sopravvissero al naufragio neppure il campione di bulldog francese Gamin de Pycombe, per il quale il padrone Robert William Daniels chiese, a titolo di risarcimento, l’astronomica cifra di 750$ (dell’epoca), né il chow chow di Henry Henderson, anche lui campione. Solo tre cani, alla fine, ebbero la fortuna di calpestare il ponte del Carpathia: due pomerania, uno dei quali nascosto tra i vestiti della proprietaria, e un pechinese, il quale, come riferì il padrone, non occupava spazio nella scialuppa e fu quindi accettato a bordo di buon grado.

 

I cani a bordo, in realtà, potrebbero essere anche stati tredici – e quindi i sopravvissuti quattro – se consideriamo come vera la storia di Rigel, raccontata ai taccuini del New York Herald da Jonas Briggs, uno dei membri dell’equipaggio del Carpathia. Questo esemplare di Terranova nero apparteneva a William McMaster Murdoch, primo ufficiale del Titanic: finito in mare insieme alla nave (o semplicemente attratto da esso, dato che questa razza ama moltissimo l’acqua), nuotò nel gelido Atlantico per tre ore, alla vana ricerca del suo padrone, perito nel naufragio. Ci si potrebbe chiedere come abbia fatto Rigel a sopravvivere così a lungo in acqua a una temperatura di -2°. Bisogna tuttavia considerare che il Terranova, razza frutto di incroci antichissimi con cani orso al fine di fortificarla, presenta i piedi palmati, usa la coda come timone ed ha il pelo impermeabile, disponendo degli stessi meccanismi di termoregolazione degli orsi polari; inoltre, ha un forte istinto al salvataggio, tanto che ha la tendenza a riportare a riva anche bagnanti non in pericolo.

 

Non riuscendo a trovare Murdoch, Rigel si accostò alla scialuppa n. 4: era troppo grande e pesante per poter salire a bordo, ma decise comunque di rimanere vicino ad essa. Quando il Carpathia giunse sul luogo del disastro intorno alle 4 del mattino – quasi due ore dopo l’inabissamento del Titanic – la scialuppa, che si trovava sotto la prua sul lato di dritta, non fu affatto vista dall’equipaggio, probabilmente anche a causa del buio, e rischiava di essere travolta dalla nave stessa; gli occupanti, stremati dal freddo e dal terrore, non avevano la forza di farsi notare lanciando grida di aiuto. Fu allora che Rigel cominciò ad abbaiare, riuscendo ad attirare l’attenzione del capitano Arthur Henry Rostron, che ordinò di fermare la nave e di soccorrere i naufraghi, i quali furono condotti a bordo insieme al loro salvatore a quattro zampe.

In seguito, il cane fu adottato dallo stesso Briggs, il quale gli avrebbe imposto il proprio nome, Briggs per l’appunto. Diversa, tuttavia, a riguardo, la posizione di Stanley Coren, professore di psicologia presso la University of British Columbia, che in un articolo del 2012 sostiene che in realtà Rigel fu adottato da John Brown, capitano d’armi del Carpathia. Questi riteneva che il cane, da lui ribattezzato Captain, appartenesse a uno degli ufficiali della nave, ma non sapeva quale, né aveva effettuato ricerche in merito. Una volta andato in pensione, lo portò con sé nella sua casa di campagna in Scozia, dove trascorse serenamente il resto della sua vita al fianco del padrone.

Per questo e altri elementi della storia di Rigel da lui portati alla luce, Coren fa appello a diversi articoli dell’Herald che avrebbero riportato testimonianze di alcuni degli occupanti della scialuppa 4 e dei membri dell’equipaggio del Carpathia, e, soprattutto, alla testimonianza fornita dalla nipote di John Brown in un’intervista concessa alla BBC in occasione del cinquantesimo anniversario del disastro (1962). Tali elementi, tuttavia, non sembrano essere fededegni, non trovando alcun riscontro nelle fonti. Non si ha notizia, ad esempio, di un ampio articolo sulla storia di Rigel, citato da Coren, che sarebbe stato pubblicato dall’Herald il giorno dopo l’arrivo del Carpathia a New York (quello sopracitato è del 21 aprile 1912, mentre il Carpathia era approdato a destinazione il 18 aprile), tantomeno degli altri articoli suddetti; inoltre, non è possibile accertare se sulla scialuppa 4, come vorrebbe lo studioso, ci fosse abbastanza spazio per Rigel, benché fosse troppo pesante per poter essere issato a bordo (la scialuppa fu calata in mare con 30-35 persone a bordo, su una capienza di 65 posti, ma al momento del salvataggio ve n’erano circa 60); né risulta, come sostiene ancora Coren, che Murdoch abbia avuto con sé il suo cane anche a bordo dell’Olympic, la nave gemella del Titanic. Infine, il capitano d’armi del Carpathia, che avrebbe adottato il cane, non era scozzese, ma di Leicester, in Inghilterra. 

 

Al di là dei dettagli, comunque, le posizioni degli scettici poggiano su basi molto solide. Essi osservano innanzitutto che Rigel non è attestato come passeggero del Titanic (prova, tuttavia, non dirimente, dato che si pensa che ci fossero altri cani a bordo non registrati ufficialmente), né gli occupanti della scialuppa 4 (o lo stesso capitano Rostron, o altri membri dell’equipaggio del Carpathia eccetto Briggs) ne fecero alcuna menzione nei loro racconti: il cane scomparve così dalla storia immediatamente dopo il naufragio, cosa decisamente singolare per un “eroe” che aveva salvato molti (e soprattutto ricchissimi) passeggeri dello sfortunato transatlantico altrimenti destinati alla morte. 

 

A infliggere un colpo ancor più duro alla veridicità della storia di Rigel è però la testimonianza di Richard Edkins, residente di Dalbeattie, cittadina natale di Murdoch, che l’ha definito come “un pezzo di completa spazzatura” inventato da Jonas Briggs: egli afferma, infatti, che né Murdoch né sua moglie Ada hanno mai avuto un cane, tanto meno un Terranova. A ciò si aggiungano le considerazioni di Dan Parkes, autore di un sito internet interamente dedicato al primo ufficiale Murdoch, il quale osserva che, se i coniugi avessero davvero avuto un cane e si fosse trattato proprio di Rigel, Briggs sarebbe stato certamente tenuto a restituirlo alla vedova e che gli ex-colleghi di Murdoch se ne sarebbero accertati: il secondo ufficiale Charles Lightoller, sopravvissuto al naufragio, non ne fa invece alcuna menzione nella sua lettera a Ada.

Il fatto che Rigel non appartenesse a Murdoch non esclude comunque la sua appartenenza a un altro padrone, e quindi la sua effettiva esistenza e presenza a bordo del Titanic. Tuttavia, Parkes si spinge oltre, o meglio a monte della storia, affermando anche che non c’è alcuna prova della presenza di un Jonas Briggs nell’equipaggio del Carpathia: si tratta probabilmente di un nome inventato a partire da quello di Mrs. Florence Briggs Cumings, una degli occupanti della scialuppa che sarebbe stata salvata da Rigel. Sembra difficile, peraltro, ipotizzare la presenza, che sarebbe a dir poco singolare, di due persone con lo stesso nome nella medesima vicenda: questo elemento, da solo, potrebbe bastare per etichettare come falsa l’esistenza di Briggs e quindi per distruggere dalle fondamenta l’intera architettura della vicenda.

 

Due, in conclusione, le possibili ipotesi sull’origine del racconto. Nei giorni successivi al naufragio i giornali erano alla continua e spasmodica ricerca di nuove, affascinanti storie sul Titanic da dare in pasto alla curiosa avidità dei lettori. Storie per le quali, pur di essere i primi a raccontarle, erano disposti a pagare profumatamente. Per questo motivo non si può escludere a priori la possibilità che un tale Jonas Briggs, spacciandosi come membro dell’equipaggio del Carpathia, abbia spontaneamente raccontato – vale a dire inventato – una vicenda coinvolgente e toccante per ricavarne denaro e al tempo stesso fama. Più probabile, però, alla luce di quanto detto, che la storia di questo cane-eroe sia stata interamente inventata dall’autore dell’articolo e attribuita a un fantomatico marinaio, la cui identità sarebbe stata costruita ad arte mediante l’unione di un comunissimo nome americano (John), opportunamente modificato, con quello di una degli occupanti della scialuppa prescelta. Certo è che, se il racconto della vicenda di Rigel mirava a fornire al pubblico uno scoop affascinante e succulento, l’obiettivo è stato indubbiamente raggiunto.

Poco importa, in ogni caso, se quella di Rigel sia una storia vera o, per usare le parole di Parkes, un’incredibile e commovente leggenda che non ha alcun fondamento. Poco importa che si voglia credere o meno ad essa: finché ci sarà qualcuno che si occuperà del Titanic, questo piccolo, grande eroe a quattro zampe continuerà a vivere. Anzi, tutta la curiosità e l’interesse che la sua vicenda hanno suscitato e ancora oggi suscitano, dimostrano che la Storia, a ben vedere, ha già espresso il suo verdetto, consegnando di fatto Rigel all’immortalità.

 

Per saperne di più:

Numerosi, come accennato, i testi dedicati alla storia di Rigel. Tra questi si segnalano il libro di Christine Jamesson, The Legend Of Rigel, Hero Dog of the Titanic, AuthorHouse, 2005, e il libro per bambini di Lorna Olitch The Legend of Rigel -Hero of the Titanic, scritto dal punto di vista dello stesso Terranova.

 

L’articolo del New York Herald del 21 aprile 1912 è riportato integralmente in L. Marshall, Sinking of the Titanic and Great sea disasters, The John C. Winston Company, Philadelphia, 1912, p. 92, < https://library.um.edu.mo/ebooks/b32144970.pdf >, e in id., On Board the Titanic: The Complete Story with Eyewitness Accounts, Dover Publications, 2006, p. 94, < https://books.google.pt/books?id=umvFuvx8RlYC&pg=PA94&redir_esc=y#v=onepage&q&f=false >, sua riedizione. Ulteriori informazioni su Rigel e sui cani del Titanic si trovano invece in:  

C. Bossi, I cani a bordo, titanicdiclaudiobossi.com, 25 marzo 2013,  < http://www.titanicdiclaudiobossi.com/Html/Cani%20a%20bordo_51.htm >.

S. Coren, The Heroic Dog on the Titanic, Psychology Today, 7 marzo 2012, < https://www.psychologytoday.com/us/blog/canine-corner/201203/the-heroic-dog-the-titanic >.

“La Stampa”, Titanic, anche 12 cani nella tragedia, 15 aprile 2012 (ultima modifica 30 giugno 2019), < https://www.lastampa.it/la-zampa/2012/04/15/news/titanic-anche-12-cani-nella-tragedia-br-1.36486241 >.

D. Parkes, Did Murdoch have a heroic dog named ‘Rigel’?, williammurdoch.net, < https://www.williammurdoch.net/articles_09_Murdochs_herioc_dog_Rigel.html >. Anche qui è riportato integralmente l’articolo dell’Herald.

T. Martin, E. Aston, 101 Things You Thought You Knew About the Titanic…but Didn’t!, Penguin, 2011.

R. Matthews, Titanic. The tragic story of the ill-fated ocean liner, Arcturus Publishing, 2011.

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«Una maravigliosa e strana immobilità»: Leopardi e la scrittura cinese

Giacomo Leopardi cominciò le sue indagini sulla Cina e sulla lingua cinese, affidandole allo Zibaldone, nell’aprile 1821: è l’inizio di quel periodo (‘21-‘23) in cui prende corpo la sua teoria delle lingue. Si trattò, tuttavia, di un interesse breve, seppur acceso: già dopo il maggio dello stesso anno egli non si occuperà più dell’argomento.

 

A suscitare la curiosità del Recanatese a riguardo fu la lettura degli “Annali di Scienze e Lettere”, rivista milanese curata da Giovanni Rasori, Michele Leoni e Ugo Foscolo, alla quale era abbonato fin dal 1811. Al suo interno, infatti, venivano pubblicati numerosi articoli e studi sinologici: in particolare, un saggio in tre parti (anonimo, ma spesso attribuito al Foscolo) dal titolo Sul Codice penale della China, estratti dell’Essai sur la langue et la littérature chinoise di Abel Rémusat e, dello stesso autore, gli Éléments de la grammaire chinoise, dai quali il giovane Leopardi apprese le nozioni di base sulla lingua e la scrittura cinesi. Notevoli stimoli provenivano anche dalla ricchissima biblioteca paterna, che conservava molti scritti relativi all’Asia e alla Cina; tra questi spiccava la Historia della China, contenuta all’interno di una raccolta di saggi e documenti sulla controversia dei riti cinesi pubblicata da padre Juan Gonzales di Mendoza nel 1585: l’opera fu di fondamentale importanza per la conoscenza della Cina in Europa e costituì la principale fonte di informazione del Recanatese, insieme agli Annali. Poco o nulla, invece, Leopardi lesse e conobbe delle principali opere del pensiero cinese, nonostante l’esistenza di alcune – seppur approssimative – traduzioni in francese e in tedesco redatte dai padri gesuiti. Non v’è traccia, nello Zibaldone, della filosofia confuciana (lo stesso Confucio è citato solo tre volte), né è mai menzionato il missionario maceratese Matteo Ricci (1555-1610), autore, di una parafrasi latina dei Quattro libri confuciani e i cui diari di viaggio erano stati tradotto in latino dal gesuita fiammingo Nicolas Trigault. Probabilmente Leopardi, preso com’era in quel periodo dall’indagine linguistica, si concentrò esclusivamente su di essa, tralasciando il resto della cultura cinese.

 

L’assioma da cui prende le mosse l’indagine leopardiana è l’antinomia Natura-Ragione, che viene utilizzata anche per stabilire un rapporto tra lo stato naturale dell’uomo e i processi conoscitivi. Alla nascita, la «fabbrica intellettuale dell’uomo» è composta da «pochissimi elementi»; tuttavia questi, nell’attrito con le più svariate circostanze naturali (ad esempio il clima o la condizione civile e sociopolitica) o accidentali, «producono infiniti e svariatissimi effetti» (Zib. 1736-7), plasmando la psicologia dell’uomo fino a costituire abitudini, forme di vita, e anche lingue, varie e diversificate.
L’evoluzione della lingua, quindi, va di pari passo con l’‘incivilimento’ – ossia con l’alterazione dello stato naturale – della mente umana, e la lingua, quindi, risulta essere lo specchio del carattere della nazione che la parla: quanto meno la lingua di un popolo è «perfetta», tanto più esso è lontano dall'incivilimento.


Ora, un primo allontanamento dalla natura si ebbe, secondo Leopardi, con l’introduzione della scrittura e della geroglifica. Tuttavia l’uomo conservò ancora una parte del suo stato primitivo fino all’invenzione dell’alfabeto: esso nacque dal «mirabile pensiero» di «applicare i segni della scrittura ai suoni delle parole invece di applicarli alle cose e alle idee» (Zib. 2748), come si fece con la scrittura geroglifica e con la scrittura ideografica cinese. L’alfabeto, inoltre, sarebbe stato concepito da un uomo solo, giacché «[n]on è presumibile che un'invenzione ch'è un miracolo dello spirito umano (o forse ha la sua origine dal caso come il più delle invenzioni strepitose) sia stata ripetuta da molti, cioè fatta di pianta da molti spiriti» (Zib. 2620); dalla diffusione di quest’unico alfabeto originario sarebbero poi derivati tutti gli altri.

 

Si può quindi comprendere, alla luce di quanto si è detto, lo sconcerto del giovane Leopardi di fronte alla Cina: una nazione che non ha alfabeto, quindi rimasta vicina allo stato primitivo, eppure «così colta» e capace di produrre una letteratura sconfinata. Una civiltà ricchissima, eppure immobile, immutata da secoli, e che contraddiceva la sua tesi del rapporto tra lingua ed evoluzione della civiltà: davanti ad essa l’indagine leopardiana, nel suo procedere a suon di analogie e di induzioni, non può che sospendersi con stupita meraviglia.

 

 

Per Leopardi è un mistero il fatto che possa esistere una lingua non-alfabetica che non sia morta (come la geroglifica egiziana) e che quindi le alfabetiche non siano le uniche scritture possibili nella modernità. Da un lato egli sostiene che «[l]e nazioni che non hanno, o non hanno avuto commercio con alcun'altra, o con alcun'altra letterata, non hanno avuto o non hanno alfabeto» (Zib. 2620); dall’altro, osserva che «[l]a maravigliosa e strana immobilità ed immutabilità […] della nazione Chinese, dev'esser derivata certo in grandissima parte, e derivare dal non aver essi alfabeto né lettere, […] ma caratteri esprimenti le cose e le idee». «Un tal popolo – conclude Leopardi – dev'essere insomma necessariamente stazionario» (Zib. 942-3), non avendo potuto (o voluto) adottare l’alfabeto «per la natura sua, e per la difficoltà di mutare o distruggere le usanze antichissime e universali nella nazione, […] e d'introdurne universalmente delle affatto nuove e troppo diverse di genere» (Zib. 3671). Così l’assenza di alfabeto è causa e al tempo stesso conseguenza dell’immobilità cinese.

 

Le perplessità di Leopardi non finiscono qui. Un’altra sua esplicita convinzione era quella del carattere nazional-culturale delle lingue: in una lettera all’amico Pietro Giordani del 13 luglio 1821, egli afferma che «la lingua e l'uomo e le nazioni per poco non sono la stessa cosa». In questo carattere nazional-culturale il Recanatese sosteneva altresì che la lingua scritta dovesse uniformarsi alla lingua parlata, e non viceversa. Questo postulato, tuttavia, non è applicabile alla lingua cinese, che non solo è completamente autonoma dalla lingua parlata, ma presenta anche una complessa indipendenza tra scrittura e lettura. Spiega Leopardi:

la scrittura Chinese non rappresenta veramente le parole (che le nostre son quelle che le rappresentano, e ciò per via delle lettere, che sono ordinate e dipendenti in tutto dalla parola) ma le cose; e perciò tutti osservano che il loro sistema di scrittura è quasi indipendente dalla parola: […] così che si potrebbe trovare qualcuno che intendesse pienamente il senso della scrittura chinese, senza sapere una sillaba della lingua, e leggendo i libri chinesi nella lingua propria, o in qual più gli piacesse, cioè applicando ai caratteri cinesi quei vocaboli che volesse, senza detrimento nessuno della perfetta intelligenza della scrittura, e neanche del suo gusto […] E così viceversa bene spesso taluni, dopo avere soggiornato venti anni alla China, non sono tampoco in grado di leggere il libro più facile, benché sappiano essi parlar bene il chinese, e farsi comprendere (Zib. 944-5).

È molto difficile imparare a leggere e scrivere in cinese, dal momento che i caratteri non sono «nelle mani e nell'uso del popolo»: essi, pertanto, «conservano molto più facilmente le loro forme essenziali e la loro significazione, di quello che facciano le parole che sono nell'uso quotidiano e universale». Di conseguenza, «conservato l'uso, la forma, e il significato de' caratteri antichi, è conservata», conclude Leopardi, anche «la piena intelligenza delle antiche scritture» cinesi (Zib. 1179-80).

 


Il Recanatese sosteneva altresì che «[u]na lingua non si forma né stabilisce mai, se non applicandola alla letteratura. […] Nessuna lingua non applicata alla letteratura è stata mai formata né stabilita, e molto meno perfetta» (Zib. 1037-8). Anche in questo caso, però, l’assioma leopardiano non trova conferma nel cinese:

La lingua cinese può perire senza che periscano i suoi caratteri: può perire la lingua, e conservarsi la letteratura che non ha quasi niente che far colla lingua; bensì è strettissimamente legata coi caratteri. Dal che si vede che la letteratura cinese poco può avere influito sulla lingua, e che questa non ostante la ricchezza della sua letteratura, può tuttavia e potrà forse sempre considerarsi come lingua non colta, o poco colta (Zib. 1019).

Sicchè la letteratura chinese poco o nulla può influir sulla lingua, e quindi la lingua chinese non può fare grandi progressi (Zib. 1059).

 

In questo caso, dunque, l’equivalenza lingua-letteratura non funziona, la lingua non evolve anche se dà vita ad una letteratura ricca ed erudita: infatti la Cina «ha infiniti libri, ha prodotto un Confucio, ha letteratura, ha gran numero di letterati, […] ma non ha alfabeto» (Zib. 2620-1), contraddicendo anche il principio secondo il quale «senza il progresso della lingua […] è nullo il progresso dello spirito umano» (Zib. 1238).

 

Lo sconcerto e la meraviglia davanti all’unicità della lingua cinese non impediscono, comunque, a Leopardi di rivolgere una critica alla sua scrittura e ai segni linguistici da essa utilizzati. Scopo della parola, secondo il Recanatese, è l’oggettivazione, materiale e sensibile, del dato psicologico cognitivo: «un'idea senza parola o modo di esprimerla, ci sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita e mal nota a noi medesimi che l'abbiamo concepita. Colla parola prende corpo, e quasi forma visibile, e sensibile, e circoscritta» (Zib. 95). Pertanto una scrittura come quella cinese, i cui segni linguistici non rappresentano le parole, ma le cose e le idee, non poteva certo incontrare l’approvazione di Leopardi, che si spinge addirittura ad affermare che

La scrittura chinese non è veramente lingua scritta, giacchè quello che non ha che fare (si può dir nulla) colle parole, non è lingua, ma un altro genere di segni; come non è lingua la pittura, sebbene esprime e significa le cose, e i pensieri del pittore (Zib. 1059).

Più preciso (e severo) a proposito della natura della scrittura è il Recanatese in un altro passo dello Zibaldone:

La scrittura dev'essere scrittura e non algebra; deve rappresentar le parole coi segni convenuti, e l'esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti, ovvero i pensieri e gli affetti dell'animo, è ufficio delle parole così rappresentate. Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi la cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee. Che altro è questo se non ritornare l'arte dello scrivere all'infanzia? (Zib. 975-6).

È proprio da questa infanzia cinese, tuttavia, che Leopardi era ineffabilmente attratto: ciò che lo affascinava – anche, o forse proprio perché non riusciva a comprenderlo – era il paradosso di un popolo così lontano, diverso, chiuso, ma civile «in diversissimo modo», e che egli ha indagato, seppur brevemente, mediante un’analisi esclusivamente storico-linguistica. In un’epoca in cui il mito illuministico di una Cina “modello per l’Europa”, promosso dai gesuiti, stava crollando, Leopardi ha cercato, con la mentalità squisitamente moderna che lo contraddistingue, di guardare alla Cina in modo nuovo, cioè come ad una concreta realtà storica che, pur nella sua diversità e unicità, è parte integrante della storia delle lingue, e quindi della «storia della mente umana» (Zib. 2591).

 

Per saperne di più:

Oltre alla lettura dello Zibaldone (l’edizione di riferimento qui è quella di G. Pacella, Milano, Garzanti, 1991), si segnalano:

B. Amato (a cura di), Leopardi e l'Oriente: antologia dei testi, Provincia di Macerata, 1999, pp. 281-298.

P. Corradini, Leopardi di fronte alla civiltà cinese, in F. Mignini (a cura di), “Leopardi e l'Oriente: Atti del Convegno internazionale, Recanati 1998”, Provincia di Macerata, 2001, pp. 191-198.

P. Morelli, Leopardi e il mistero della scrittura cinese, Zibaldoni e Altre Meraviglie, 2013.

M. C. Pisciotta, Il cinese nella linguistica leopardiana, in F. Mignini (a cura di), “Leopardi e l'Oriente: Atti del Convegno internazionale, Recanati 1998”, Provincia di Macerata, 2001, pp. 217-231. 

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