Il Chiasmo

Alessandra Mattoscio

Alessandra Mattoscio è una studentessa al quinto anno di Giurisprudenza presso La Sapienza di Roma e allieva della Scuola Superiore di Studi Avanzati Sapienza. I suoi interessi accademici sono variegati, perché da sempre ha avuto difficoltà a scegliere la sua materia preferita! Apprezza molto, infatti, l’impronta interdisciplinare della Scuola, che permette di navigare in mari sempre nuovi. Si appassiona ai temi dell’ambiente, dei beni comuni e dei servizi pubblici, in effetti forse possiamo dire che le piaccia il diritto amministrativo, ma non solo, perché il suo grande amore è anche il diritto romano. Lo scorso autunno ha trascorso un periodo in Cina per un Corso di Alta Formazione sul rapporto tra il nuovo diritto civile cinese e il diritto romano, in primavera invece uno scambio presso l’École Normale Supérieure di Parigi per una ricerca sulla corruzione amministrativa. Nel tempo libero, oltre a dedicarsi alla Rete, in qualità di rappresentante, perché da sempre ne apprezza la dimensione di interscambio umano e culturale, le piace sperimentare nuove ricette culinarie con la sua compagna di stanza e, dulcis in fundo, ama viaggiare, ballare e scrivere poesie.

Pubblicazioni
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La bellezza in crisi: il paesaggio e il delicato equilibrio tra uomo e natura (parte seconda)

 

 

Il problema è capire se effettivamente questo lavoro venga congiuntamente svolto da Ministero e Regioni. Il primo rapporto su Pianificazione e Paesaggio di Italia Nostra Onlus, un’antica associazione ambientalista dei beni culturali, artistici e naturali, mostrava nel 2010 che in realtà in nessuna regione risultava effettivamente operante l’elaborazione congiunta con lo Stato dei piani paesaggistici e il ministero non aveva nemmeno provveduto a definire criteri uniformi per la redazione degli accordi di pianificazione.

 

Una recente sentenza della Corte costituzionale, la sent. 21 febbraio-30 marzo 2018 n. 66, è particolarmente incentrata proprio su questo rapporto tra Ministero e Regioni. Afferma che l’elaborazione dei piani paesaggistici o dei piani urbanistico-territoriali con considerazione dei valori paesaggistici implicati, con i quali si sottopone il territorio a specifica normativa d’uso, deve avvenire congiuntamente tra Ministero e Regioni, limitatamente ai beni paesaggistici di cui all’articolo 143, comma 1, lettere b), c) e d) [...]. «L’elaborazione del piano deve avvenire congiuntamente con riferimento agli immobili e alle aree dichiarati di notevole interesse pubblico ai sensi dell’art. 136 (le c.d. bellezze naturali), alle aree tutelate direttamente dalla legge ai sensi dell’art. 142 e, infine, agli ulteriori immobili ed aree di notevole interesse pubblico (art. 143, lettera d). Dato, quindi, che la legislazione statale pone un obbligo di elaborazione congiunta del piano paesaggistico, non si può ammettere la generale esclusione o la previsione di una mera partecipazione degli organi ministeriali in procedimenti che richiedono la cooperazione congiunta. La sentenza specifica anche che la ricognizione dei beni da sottoporre a vincoli paesaggistici deve essere realizzata congiuntamente con lo Stato e, per esso, con il Ministero per i beni e le attività culturali, come emerge dalla lettera del menzionato art. 143, cod. beni culturali, che annovera la ricognizione dei beni di rilevanza paesaggistica tra le attività ricomprese nella "elaborazione" del piano. Posto che l'elaborazione deve avvenire, ai sensi dell'art. 136, comma 1, cod. beni culturali, "congiuntamente tra Ministero e Regioni", ne discende che anche l'attività ricognitiva deve essere frutto di un percorso condiviso, in ogni suo passaggio e in ogni sua fase, da Stato e Regioni.» Elemento caratteristico dei procedimenti di approvazione dei piani paesaggistici è, come evidenziato all’art. 144, la partecipazione dei soggetti interessati e delle associazioni portatrici di interessi diffusi e la pubblicità prevista in ampie forme. La pianificazione paesaggistica va poi sempre coordinata con gli altri strumenti di pianificazione, sia territoriale che di settore, oltre che con «piani, programmi e progetti nazionali e regionali di sviluppo economico.» (Art. 145 Codice dei beni culturali e del paesaggio).

 

Dinanzi a beni che sono soggetti a tutela paesaggistica, è opportuno comprendere come vengano gestiti e quali comportamenti siano permessi a coloro che ne sono proprietari. Rilievo centrale assume l’art. 146 del Codice.

 

Ai proprietari, ai possessori o ai detentori a qualsiasi titolo di immobili o aree di interesse paesaggistico, è preclusa la possibilità di distruggere i beni in questione o di apportarvi modifiche che possano recare pregiudizio ai valori paesaggistici. Qualora volessero intraprendere degli interventi, sono tenuti a richiedere un’autorizzazione alle amministrazioni competenti. Fondamentale notare, poi, che «l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio.» (Art. 146, comma 4, Codice dei beni culturali e del paesaggio). Fuori dai casi di cui all'articolo 167, commi 4 e 5, l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi. L'autorizzazione è valida per un periodo di cinque anni, scaduto il quale l'esecuzione dei progettati lavori deve essere sottoposta a nuova autorizzazione.

 

Competente al rilascio di tale autorizzazione è la Regione, ma può delegare l’esercizio della funzione anche «a province, a forme associative e di cooperazione fra enti locali come definite dalle vigenti disposizioni sull'ordinamento degli enti locali, ovvero a comuni, purché gli enti destinatari della delega dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia.» (Art. 146, comma 6, Codice dei beni culturali e del paesaggio).L’autorizzazione diventa efficace quando siano decorsi trenta giorni dal suo rilascio e va allora trasmessa alla soprintendenza, il cui ruolo nel procedimento di rilascio è rilevante; infatti, la regione deve richiedere un parere vincolante del soprintendente «in relazione agli interventi da eseguirsi su immobili ed aree sottoposti a tutela dalla legge o in base alla legge, ai sensi del comma 1, salvo quanto disposto all'articolo 143, commi 4 e 5.» (Art. 146, comma 5, Codice dei beni culturali e del paesaggio).

 

Il D.P.C.M. 12 dicembre 2005 prevede un ulteriore strumento, quello della relazione paesaggistica. Rappresenta un documento che necessariamente deve essere presente tra gli elaborati da produrre in aree sottoposte a tutela paesaggistica. È, in breve, un’autovalutazione dell’intervento proposto. Presenta alcune affinità con lo strumento del Piano paesaggistico, nonostante siano anche molto diversi. Di certo, entrambi hanno come tema centrale quello della conoscenza, si devono fondare sulla medesima lettura del contesto, inteso come insieme di natura e storia che nel tempo ha prodotto quello che noi chiamiamo paesaggio, e sul medesimo riconoscimento ed apprezzamento dei luoghi e dei loro valori specifici.

 

Le differenze si innestano, invece, sul fatto che, mentre il Piano Paesaggistico è un atto di pianificazione territoriale con attenta analisi della configurazione del paesaggio, come poc’anzi visto; la Relazione Paesaggistica è un documento di progetto, con specifica considerazione degli aspetti paesaggistici, che evidenzia gli impatti sul paesaggio che derivino da uno specifico intervento. Ulteriore ruolo è quello di dimostrare la coerenza dell’intervento con i principali obiettivi della tutela paesaggistica, ossia la conservazione, la valorizzazione e la riqualificazione del determinato contesto in questione. Deve dar conto: - dello stato dei luoghi prima dell’esecuzione delle opere previste; - delle caratteristiche progettuali dell’intervento; - dello stato dei luoghi dopo l’intervento. I contenuti hanno perciò una stabile articolazione.

 

Per quanto attiene alle funzioni, ne possiede varie, quella di documento funzionale di riferimento per la valutazione svolta dalla Commissione per il Paesaggio; quella di riferimento di supporto metodologico d’ausilio per tutti i tecnici delle Amministrazioni competenti nel procedimento di autorizzazione paesaggistica; e, infine, quella di strumento metodologico per la progettazione paesaggisticamente compatibile rivolto a tutti i professionisti incaricati da committenti, sia pubblici che privati, allo scopo di elevare la qualità del progetto.

 

Il 9 luglio 2010 è stato poi emanato il D.P.R. n. 139 rubricato “Regolamento recante procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità”, con il quale sono state stabilite procedure semplificate per il rilascio dell’Autorizzazione Paesaggistica. La semplificazione riguardava tre diversi aspetti, si poteva parlare infatti di semplificazione documentale, procedurale e organizzativa. Tale decreto fu poi abrogato dal successivo D.P.R. n. 31 del 13 febbraio 2017, rubricato “Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata”. Questo è, infatti, teso a esentare trentuno tipologie di intervento dall’autorizzazione paesaggistica.

 

È evidente come sia possibile parlare di paesaggio in tante sfumature diverse, le stesse che si colgono con lo sguardo ammirando un paesaggio, l’intera gamma di colori in un unico tempo e spazio. Se ne potrebbe discutere ancora a lungo in termini giuridici, si potrebbe scavare il profilo di collocazione nella classificazione dei beni, e comprendere che forse potrebbe inserirsi tra i tanto discussi beni comuni. Cerulli Irelli sottolinea, infatti, che esaltare il momento collettivo potrebbe essere di grande valorizzazione e di stimolo per la protezione di queste risorse. E ancora l’inquadramento di alcuni di questi beni nel contesto dei diritti collettivi si potrebbe tradurre nella previsione di forme – variamente disciplinate e calibrate – di legittimazione ad agire in capo a tutti i componenti di una determinata collettività per proteggere interessi fondamentali condivisi tra tutti. Ciò non per tutelare interessi adespoti, ma per salvaguardare beni di cui ciascuno è titolare, insieme agli altri componenti del gruppo. Si potrebbe continuare il discorso addentrandosi nei rapporti tra tutela del paesaggio e urbanistica, scandagliare il settore edilizio e il percorso storico segnato dall’abusivismo edilizio e le misure di sanatoria utilizzate, quali il condono, di natura eccezionale, o la sanatoria ordinaria, in veste di accertamento di conformità.

 

Interessante la visione di uno studioso francese, esperto di geografia ed ecologia, Pierre Donadieu, che concepisce il diritto al paesaggio come un’esperienza in quattro tappe: la prima vista come il diritto a godere di una certa veduta, liberamente, senza costrizioni e di contestare le negatività e la cementificazione; la seconda concepisce l’importanza del concetto globale di diritto all’ambiente e il rifiuto quindi di un concetto di paesaggio legato solo all’aspetto visuale ed ai connessi rapporti economici; la terza è focalizzata sul diritto di agire con tempestività, anche precauzionalmente, a fronte dei distruttori del paesaggio, siano essi costruttori, agricoltori o inquinatori; la quarta tappa, infine, si rifà, invece, al paesaggio e all’ambiente desiderato, quale aspirazione collettiva a servizio del cittadino.

 

Il paesaggio è, dunque, un bene di grande delicatezza, ed esige una tutela precipua ed effettiva, anche perché difendere un paesaggio significa difendere una parte della propria vita, la geografia esistenziale di ciascun essere umano.

 

Tutelare e difendere il paesaggio, tutelare e difendere il delicatissimo equilibrio tra uomo e natura. Tutelare e difendere il paesaggio per osteggiare una crisi valoriale e una crisi di capacità ad incantarsi. Tutelare e difendere il paesaggio per promuovere un ritorno alla bellezza.

 

 

Per ulteriori approfondimenti:

Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42); S. Florio, La protezione giuridica del paesaggio in Italia e in Francia, 26 agosto 2015, HAL, archives-ouvertes.fr.; V. Cerulli Irelli, l. De Lucia, Beni comuni e diritti collettivi; La Relazione Paesaggistica: finalità e contenuti, Relazione presentata da Marinella Del Buono nell’ambito della giornata di approfondimento tecnico tenutasi a Firenze il 12 giugno 2007 sul tema “La Relazione Paesaggistico: contesto normativo e casi di studio”; Corte costituzionale, sent. 21 febbraio-30 marzo 2018 n. 66; https://www.studiocataldi.it/articoli/21324-il-vincolo-paesaggistico-e-l-abusivismo-edilizio.asp.

 

 

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La bellezza in crisi: il paesaggio e il delicato equilibrio tra uomo e natura (parte prima)

Crisi, una parola a dir poco inflazionata oggi, un termine sempre pronto per ogni contesto. Ogni giorno e ogni dove si parla di crisi, e la si declina per l’ambito economico, sociale, politico, culturale, ambientale. Qui, in queste pagine, vorrei però si riflettesse su un campo spesso inesplorato, su un tema che tocca chiunque, ma non sempre sfiora tutti. È la bellezza, estetica e interiore, spesso si frantuma la bellezza per intendere quella esteriore e distinguerla da quella interiore, forse però non serve, perché in fondo la bellezza è indivisibile, qualcosa che sia bello dentro, ad ogni modo lo è anche fuori, e poi non esistono certezze e parametri scientificamente provati, quando c’è di mezzo la bellezza, vi è solo al centro il proprio modo di vederla, di incontrarla e conoscerla. Oggi sempre più spesso si è disabituati ad entrare in contatto con questa, ed è nelle nuove generazioni, e in quelle meno giovani, che lo hanno dimenticato, che si riscontra una crisi della bellezza. Cercando un punto di vista, una prospettiva dalla quale analizzare questa crisi della bellezza, è utile partire da ciò che è intorno, da ciò che l’occhio vede e l’anima sente, dalla bellezza del paesaggio. Per poter garantire ancora bellezza, serve tutela del paesaggio, serve cura ed esercizio a proteggere la meraviglia, lo stupore e l’importanza di uno sguardo.

 

Ma cos’è il paesaggio? Calvino lo raccontava così: «il paesaggio è una raggiera di frecce che continuano in tutte le direzioni, uno spazio che implica sempre altri spazi e di cui è difficile stabilire i limiti, così che il quadro si estende ad altri paesaggi, ad altre condizioni di vita».

 

Il paesaggio è un termine che può rivelare diversi e variegati significati, è un termine polisenso, un diamante dalle molteplici sfaccettature. La citazione di Calvino indica proprio le varie direzioni nelle quali il paesaggio porta l’interprete. Se ne può discorrere vestendo i panni del poeta, del geografo, dell’ecologista o del giurista. Complesso, dunque, trovarne una definizione chiara e precisa, complesso stabilirne la tutela e complesso agire nel suo interesse alla conservazione e alla preservazione. Ciò che è interessante è che il paesaggio è prima di tutto un’esperienza sensoriale, è prima uno sguardo, una visione, è ciò da cui gli occhi sono ammaliati, è la bellezza esteriore dei luoghi che circondano l’essere umano.

 

L’art. 131 del Codice dei beni culturali e del paesaggio sottolinea proprio l’aspetto di stretta connessione tra il paesaggio e l’uomo, quando dice che “per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni.” Il paesaggio riceve anche in Costituzione una tutela, ai sensi dell’art. 9 Cost. si parla, infatti, di tutela del paesaggio, ma molto discussa è stata l’interpretazione da conferirle. C’è chi come Sandulli preferisce assegnare al paesaggio un significato legato alle bellezze naturali, e chi, invece, come Alberto Predieri si orienta verso una tutela più ampia, una tutela da intendersi come regolazione globale conformativa del territorio, una tutela non limitata alla conservazione, ma che comprende tutta la forma del territorio creata dalla comunità umana interagente con la natura. Predieri arriva, infatti, a considerare il paesaggio come forma e immagine dell’ambiente, che comprende il visibile e l’invisibile.

 

La tutela del paesaggio riceve in Italia la sua prima legge in età giolittiana, precisamente nel 1922, quando Benedetto Croce, allora Ministro della Pubblica Istruzione, sensibilizzò il Governo ad occuparsi delle peculiarità e bellezze del territorio italiano. Per Croce non si trattava solo di una necessità morale, ma anche di un tema di pubblica economia. Giova ricordare che questo intervento si colloca comunque in un percorso che, nel passato, era stato tracciato da varie leggi preunitarie, seppur frammentate, a tutela del patrimonio storico e culturale. Ad esempio, infatti, sotto il re Carlo VII di Borbone nel 1755, erano stati emanati vari bandi a tutela del patrimonio storico-artistico, e ancora nel 1841-1843 alcuni decreti borbonici vietavano di alzare fabbriche che togliessero amenità o veduta lungo Mergellina, Posillipo e Capodimonte. Per lo Stato pontificio, di grande rilievo, per la legislazione dei beni culturali, furono gli editti promulgati, nei primi decenni dell’800, da papa Pio VII Chiaramonti, in cui il patrimonio artistico era avvertito come parte del tessuto statale e urbano.

 

In epoca fascista due sono i principali riferimenti in materia. La legge n. 1089 del 1939, meglio conosciuta come legge Bottai, considerata dai più e, in particolare da Salvatore Settis, la tutela maggiormente organica e avanzata del mondo dell’epoca, focalizza l’attenzione sulle cose d’arte, beni rilevanti per il loro valore estetico e costituenti oggetti materiali, e inizia ad introdurre anche strumenti per la tutela paesistica. Di maggior importanza per la tutela, che qui si analizza, è la successiva legge n. 1497, sempre del 1939, rubricata “Protezione delle bellezze naturali”. Con questa si dispone, infatti, che il Ministro per l’educazione nazionale ha la facoltà di redigere un piano territoriale paesistico, da depositare nei singoli Comuni, per impedire che la bellezza panoramica riceva pregiudizio dall’utilizzo del territorio. Questo strumento nasce così, inizialmente, come competenza dello Stato, più avanti invece diventerà prerogativa delle Regioni. La legge n. 1497 si caratterizza così per la sua concezione principalmente estetica del paesaggio e per la suddivisione delle bellezze naturali in: bellezze individue, cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o geologica come ville e parchi, che si distinguono per la non comune bellezza; e bellezze d’insieme, complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale come le bellezze panoramiche.

 

Nel 1948 la tutela del paesaggio, come già detto, entra tra i principi fondamentali della Repubblica, con l’art. 9, che è forse uno degli articoli che trova meno analogie nelle altre costituzioni di tutto il mondo, come ricorda l’ex presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, in suo discorso del 2003.

 

Nel dopoguerra, quando il Paese doveva risollevare le proprie sorti e lo ha fatto con grande entusiasmo e ardore, dalle distruzioni e dalle rovine, che la guerra aveva lasciato come scenario principale, il volto dell’Italia in pochi anni cambiò radicalmente. L’Italia, infatti, nei primi anni ’60 raggiunse l’acme della produzione e dello sviluppo industriale, edilizio e di ogni altro settore economico. Sono stati questi i famosi anni del boom economico, della rinascita e del progresso. Così l’incremento demografico e la crescita edilizia resero le aree urbane più coinvolte nei Piani territoriali e paesistici, che finirono per essere inglobati nell’urbanistica. Nel 1972, poi, come già accennato, con l’istituzione delle Regioni, la competenza a redigere i Piani paesistici passò a queste e rimase allo Stato solo la generica funzione di indirizzo e coordinamento. Inoltre, si confusero i vari ambiti, la parola paesaggio venne più spesso sostituita dalla parola ambiente, in qualche modo in essa inglobata, senza più comprenderne i tratti distintivi. Paesaggio e urbanistica finirono poi per non distinguersi più. Tornarono, invece, ad essere distinte le due nozioni di ambiente e paesaggio, quando nel 1985 venne istituito il Ministero per l’ambiente. Si coglie così quanto complessa e delicata sia la materia, data la sua contingenza con tanti assetti simili e differenti allo stesso tempo.

 

L’8 agosto 1985 venne emanata la legge Galasso, legge di conversione del decreto Galasso del 21 settembre 1984. Con essa si posero alcuni cardini della tutela che ancora oggi rivestono grande importanza. Dispose la redazione di piani paesistici o di piani urbanistico-territoriali per la gestione e la valorizzazione degli ambiti tutelati ai sensi della legge 1497/1939. Inoltre, venne istituito il vincolo di tutela su tutto il territorio nazionale avente particolari caratteristiche naturali, come esplicitato proprio all’art.1. La differenza sostanziale tra la legge del 1939 e quest’ultima è che mentre con la prima le località protette erano più ristrette e circoscritte, con la seconda l’ambito tutelato si amplia e più rilevante diventa la connessione tra paesaggio e territorio, spesso l’intero suolo regionale.

 

Va poi ricordato il Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali 490/1999, il cui principale obiettivo era di riorganizzare l’intera disciplina, rendere più omogenea la tutela abrogando la legislazione precedente. All’art. 149 veniva regolata la materia dei piani territoriali paesistici, con i quali si aveva interesse alla salvaguardia dei valori paesistici e ambientali. Nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione, il nuovo art. 117 assegna come competenza esclusiva dello Stato la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, mentre rientra tra le materie di legislazione concorrente la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali.

 

Nel 2004 si razionalizza, finalmente, la tutela grazie all’emanazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio, d.lgs. 42/2004, meglio conosciuto anche come Codice Urbani, dal nome dell’allora Ministro dei beni e delle attività culturali Giuliano Urbani. Non è fonte esclusiva, ma abroga le precedenti normative. In parte si ispira al Testo Unico, di cui sopra, e in parte recepisce le varie direttive comunitarie.

 

In ambito europeo, infatti, nel luglio del 2000 venne adottata la Convenzione Europea del Paesaggio dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. L’Italia l’ha ratificata con legge n. 14 del 9 gennaio 2006. Qui il concetto di paesaggio è interpretato come la rappresentazione del contesto di vita abituale delle popolazioni e costituisce elemento fondamentale del complessivo benessere. Di grande pregio tale Convenzione anche per il fatto che offre una definizione giuridica di paesaggio: «il paesaggio designa una parte di territorio per come è percepita dalle popolazioni, i cui caratteri risultano dall’azione dei fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni». Interessante cogliere da questa definizione la componente oggettiva, la parte di territorio, e la componente soggettiva, data invece dalla percezione che di esso ha la popolazione. La Convenzione non vincola gli Stati in relazione alla pianificazione, tranne per far sì che essa riguardi l’intero territorio e comprenda, dunque, anche le zone più degradate. Questo perché molteplici sono gli strumenti, di cui gli Stati possono disporre, e poiché diverse sono le esigenze che ciascun territorio esprime. Tornando ora al Codice Urbani, che si suddivide in due macro-aree, i beni culturali e i beni paesaggistici, è opportuno focalizzare l’attenzione sui principali strumenti di tutela dei beni paesaggistici. La Parte Terza del Codice è dedicata ai beni paesaggistici, nello specifico definiti dall’art. 134 e poi dall’art. 136.

 

Gli articoli 136 – 141bis regolano il procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico. Il procedimento prevede che la Regione nomini una commissione regionale, che acquisisca le informazioni necessarie e valuti se sussista o meno un notevole interesse pubblico degli immobili e delle aree, di cui all’art. 136. «La proposta è formulata con riferimento ai valori storici, culturali, naturali, morfologici, estetici espressi dagli aspetti e caratteri peculiari degli immobili o delle aree considerati ed alla loro valenza identitaria in rapporto al territorio in cui ricadono, e contiene proposte per le prescrizioni d'uso intese ad assicurare la conservazione dei valori espressi.» (Art. 138 Cod. dei beni culturali e del paesaggio).

 

Ad emanare il provvedimento relativo è la Regione, sulla base della proposta della Commissione, e deve procedervi entro sessanta giorni dalla data di scadenza dei termini di cui all’art. 139, comma 5. È poi da sottolineare che, come si legge ai sensi dell’art. 140, «la dichiarazione di notevole interesse pubblico detta la specifica disciplina intesa ad assicurare la conservazione dei valori espressi dagli aspetti e caratteri peculiari del territorio considerato. Essa costituisce parte integrante del piano paesaggistico e non è suscettibile di rimozioni o modifiche nel corso del procedimento di redazione o revisione del piano medesimo.»

 

Oltre ai beni che possono essere riconosciuti di particolare interesse pubblico secondo la procedura appena descritta, e dunque beni vincolati per provvedimento ministeriale o regionale, vi sono, ai sensi dell’art. 142, alcune aree tutelate per legge e sottoposte perciò alle disposizioni del Titolo I, Parte III del Codice dei beni culturali e del paesaggio, beni quindi vincolati per legge.

 

Ulteriore strumento di tutela è la c.d. pianificazione paesaggistica, regolata dal Capo III del Codice. L’art. 143 stabilisce cosa debba essere ricompreso nell’elaborazione del piano, e individua così tutti gli elementi, oggetto di ricognizione, dal territorio agli immobili e aree di notevole interesse pubblico, dalle aree vincolate per legge ad eventuali contesti da sottoporre a misure di salvaguardia, dall’analisi dei fattori di rischio ad interventi di recupero e di riqualificazione di aree degradate, dai necessari interventi di trasformazione a obiettivi di qualità.

 

L’elaborazione dei piani paesaggistici avviene congiuntamente tra Ministero e Regioni, come indicato al comma 1 dell’art. 135 del codice. Inoltre, «le Regioni, il Ministero ed il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare possono stipulare intese per la definizione delle modalità di elaborazione congiunta dei piani paesaggistici.» (Art. 143, comma 2, Codice dei beni culturali e del paesaggio).

 

Il fatto che sia competente, oltre alle Regioni, anche il Ministero, è indice di novità, se si effettua il confronto con la legge Galasso, che prevedeva, invece, l’esclusiva competenza regionale. Questo permette anche di realizzare in modo più efficace, quanto disposto dall’art. 131, comma 2, e cioè «la tutela del paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono presentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali.»

 

Per saperne di più

Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42); S. Florio, La protezione giuridica del paesaggio in Italia e in Francia, 26 agosto 2015, HAL, archives-ouvertes.fr.; V. Cerulli Irelli, l. De Lucia, Beni comuni e diritti collettivi; La Relazione Paesaggistica: finalità e contenuti, Relazione presentata da Marinella Del Buono nell’ambito della giornata di approfondimento tecnico tenutasi a Firenze il 12 giugno 2007 sul tema “La Relazione Paesaggistico: contesto normativo e casi di studio”; Corte costituzionale, sent. 21 febbraio-30 marzo 2018 n. 66; https://www.studiocataldi.it/articoli/21324-il-vincolo-paesaggistico-e-l-abusivismo-edilizio.asp.

 

 

 

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Dal centro alle periferie. Dinamiche di una città

Centro e periferia. Capire come si formano e si mescolano questi due elementi della città è cercare una via per comprendere meglio quest’ultima, il luogo in cui l’uomo vive e si muove, lo spazio nel quale case, uffici, centri commerciali, negozi, supermercati e luoghi di culto pullulano, il centro pulsante della gestione, dell’organizzazione e della governance del territorio, il cuore dell’intrattenimento, del divertimento e dell’istruzione. La città è tutto questo e molto e molto altro. Questa, infatti, non può che rappresentare lo specchio dell’essere umano, ad ogni latitudine del globo caratterizzata dalle sue tradizioni, dai suoi comportamenti, dal gusto architettonico e dal suo stile di vita. La città circonda e ospita l’uomo, e l’uomo la modifica, spesso inconsapevolmente, e a danno dell’ambiente naturale. Il termine città è oggi più spesso definito non solo in base alle sue caratteristiche formali e strutturali, ma anche rispetto ai suoi caratteri funzionali, o per meglio dire al suo essere luogo di incontro tra produzione e consumo, tra domanda e offerta, città nel senso di spazio commerciale.

 

La città, in un’ampia prospettiva di ricerca, va intesa, inoltre, prendendo in esame alcuni criteri: da un lato quello politico-amministrativo (municipalità), contemplando così le autorità comunali avente potere decisionale nell’area determinata; da un altro quello morfologico, stringendo l’area stessa in un tessuto urbano suddiviso in particelle, solitamente individuate in quadrati di lato 1 km; e dall’altro ancora quello metropolitano, il quale focalizza le zone tra loro interconnesse di mercato del lavoro.

 

L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCDE o OCSE) ha realizzato una classificazione delle città europee in: grandi aree metropolitane (>1,5 milioni di abitanti); aree metropolitane (tra 500.000 e 1.500.000 abitanti); aree urbane medie (tra 200.000 e 500.000 abitanti); aree urbane piccole (tra 50.000 e 200.000 abitanti).    

 

A livello mondiale, invece, si utilizza un’ulteriore suddivisione, che è stata fornita dalle Nazioni Unite: mega città (>10.000.000 abitanti); grandi città (tra 5 e 10 milioni di abitanti); città medie (tra 1 e 5 milioni di abitanti); le città di minori dimensioni vengono poi ulteriormente suddivise in base a due soglie, 500.000 o 300.000 abitanti.

 

È interessante capire come cambiano e si evolvono le città, come chi le vive si sposta da una parte all’altra e per quali ragioni decide di farlo. Se la città più popolosa del mondo negli anni ’50 era New York, oggi è Tokyo e nel prossimo 2030 sarà Jakarta, nell’antichità una delle città che ebbe la maggiore concentrazione di popolazione fu Roma durante l’età imperiale, periodo anche di massima espansione territoriale dell’impero stesso. Roma era una città dotata di diverse infrastrutture e servizi, e, soprattutto, grandi strade, che resero più rapide le comunicazioni tra luoghi lontani e favorirono il trasporto e l’espansione. Le città romane erano dominate dalle domus adibite ad abitazioni, e nel periodo di massima densità della popolazione si arrivò a realizzare le insulae, grandi e alti caseggiati che andarono a sostituire le piccole case unifamiliari, per favorire un migliore sfruttamento del suolo. Al tempo di Augusto a Roma viveva circa 1 milione di abitanti in uno spazio circoscritto dalle mura e ampio 50 km2. Tale elevatissima densità di popolazione era causata non solo dal miglioramento delle condizioni di vita in cui versavano gli abitanti, ma anche e soprattutto dalle correnti migratorie; erano in moltissimi a dirigersi verso la città più prospera del Mediterraneo, anche se la totalità di questi spostamenti non era spontanea, trattandosi nella maggior parte dei casi, infatti, di schiavi e liberti.

 

La città evolve e si trasforma. La città non vive, però, solo momenti in cui realizza una concentrazione verso il centro, bensì è un fenomeno dinamico che percorre diverse età di vita, varie fasi di evoluzione in cui si mostra e si comporta in modi differenti. Come se si trattasse di un essere vivente, infatti, la città manifesta un proprio ciclo di vita con fasi di crescita e di contrazione delle aree metropolitane, indotte da dinamiche inerenti alla demografia, ai rapporti sociali ed economici. Sono quattro le fasi caratterizzanti il ciclo di vita urbano.

 

1. La prima fase, detta di urbanizzazione, è caratterizzata da un’attrazione verso il centro, mediante lo sviluppo di nuove attività, aumento della vivacità finanziaria, incremento e progresso delle infrastrutture. Prevale così l’effetto pull in direzione del centro città. È questa la fase dei fenomeni della migrazione e del pendolarismo: la popolazione del centro cresce a livelli più elevati rispetto a quella dei sobborghi.

 

2. Nella seconda fase, definita come suburbanizzazione, invece, sono le aree esterne al centro, le zone limitrofe, a svilupparsi in modo accelerato rispetto al centro stesso, che al contrario rallenta la sua crescita. Si verificano degli spostamenti nelle zone in questione di nuclei familiari a medio ed alto reddito. Questo è il cosiddetto effetto push.

 

3. Vi è poi la fase di de-urbanizzazione, in cui si registra una crescita di insediamenti nelle zone ancora più esterne che non risulta in grado di compensare la decrescita rilevante del tessuto sociale del centro. L’area della città si allarga sempre più, ed è in questo caso che si parla di urban sprawl, fenomeno caratterizzato da una bassa densità abitativa e un peggioramento delle condizioni ambientali. Questa fase di saldo negativo della popolazione urbana del centro si determina come conseguenza di una serie di elementi: la grave crisi economica, il graduale invecchiamento della popolazione urbana, lo spostamento di attività economiche e di interesse, l’insediamento di gruppi di diversa etnia nel centro, il perdurare di una situazione di degrado, l’insediamento di centri commerciali, oltre ad un numero elevato di attività industriali, che rendono economicamente indipendenti dal centro i sobborghi, ed infine situazione di massima concentrazione nelle zone, cosiddette dell’hinterland, o per meglio dire di sazietà delle zone più vicine al centro, che comporta lo spostamento delle strutture residenziali in aree più distanti.

 

4. La quarta ed ultima fase, detta di re-urbanizzazione, prevede una fase di restaurazione del centro urbano, una maggiore attenzione ed interesse per le questioni ambientali e l’incremento di attività del settore terziario ad alta tecnologia, finanziarie e amministrative. Si realizza così una crescita della popolazione nel centro, mentre per l’hinterland si registra una decrescita e una riduzione della popolazione che, in parte continua a spostarsi nelle zone più esterne, come causa di un processo irreversibile, precedentemente verificatosi.

 

Con la suburbanizzazione, seconda fase del ciclo vitale, inizia a perdere rilievo il fenomeno della città compatta, in favore di un modello di dispersione e ingrandimento dell’area urbana. Gli effetti della suburbanizzazione sono rilevanti: come primo elemento caratteristico, si osserva ad esempio l’aumento della superficie edificata in modo non proporzionale all’andamento demografico, registrandosi al contrario in quest’ultimo ambito un calo. Si avvia dunque, come poc’anzi affermato, la fase di de-urbanizzazione, la quale comporta la costruzione di nuovi edifici e intere aree urbane lontane dal centro. Emerge qui il fenomeno dello sprawl, concetto completamente opposto a quello di area metropolitana: se quest’ultimo era tradizionalmente associato a metropoli ordinate ed efficienti, l’urban sprawl va in un’altra direzione, essendo figlio di un individualismo capitalistico e di un sentimento di appropriazione che ha come obiettivo primario quello di costruire in un dato spazio il proprio modello ideale di abitazione individuale (ma anche di impresa commerciale). 

 

Lo sprawl urbano interessa sempre di più i territori della contemporaneità, il disordine, l’irrazionalità dell’insediamento, le continue trasformazioni del mondo economico e sociale, il fluire di culture, idee e etnie differenti. I modificati assetti amministrativi e politici si rispecchiano perfettamente nel fenomeno, che, dunque, si presenta come loro effetto, se considerato in una dialettica di causalità. Dal modello ormai abbandonato della città compatta si transita allora verso una città diffusa, caratterizzata dalla dispersione urbana. Viene dunque meno quel paradigmatico contrapporsi di città–campagna, in favore del concetto di puro consumo di suolo, connotato apparentemente da una logica irrazionale ed incoerente nel procedere. Sembra pertanto mancare una reale pianificazione urbanistica e i responsabili dello sviluppo delle post-metropoli appaiono le forze di mercato. Parlare di post-metropoli serve a definire meglio aree senza confini e in cui non si è in grado di individuare un dentro e un fuori città. La dispersione urbana conduce, infatti, ad un modello di città–territorio, un enorme spazio che comprende, senza precise distinzioni e proporzioni, zone edificate e non, aree industriali e commerciali e aree verdi. Lo sprawl dunque appare chiaramente come un fenomeno di disordine e caos,  portatore di un nuovo stile e di una nuova estetica, quella della frammentazione, della una rottura della continuità e della proporzionale armonia. La frammentazione urbanistica e architettonica, del resto, si sviluppa e si articola su fondamenta sociali. Se esistono diffuse e molteplici isole territoriali all’interno di una città, allo stesso modo esistono vari gruppi sociali i quali, spesso seguendo la logica urbana, si suddividono per caratteristiche simili, mentre altre volte si mescolano convivendo. Oggi guardare una città diffusa è come guardare tante isole, tante aree che rispecchiano i comportamenti e gli atteggiamenti individualistici dei suoi abitanti. Se si volesse inoltre rapportare il fenomeno alla variabile del tempo, allora sarebbe facile paragonare lo sprawl alla dinamicità, alla velocità, alla rapidità con cui i mutamenti e le trasformazioni interessano il territorio, spesso inconsapevoli e irresponsabili nei confronti dell’ambiente e del microsistema naturale che vive in quello spazio e che viene danneggiato ed oppresso senza pietà.

 

È opportuno allora cercare di individuare una definizione del termine sprawl; si può ricorrere a quella data dall’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA), secondo cui si tratta di un modello fisico a bassa densità delle grandi aree urbane, soprattutto a scapito delle aree agricole, a condizioni di mercato. Quando si pensa ad una città che vive una fase di de-urbanizzazione, la si può immaginare come una città con molteplici spazi vuoti, simbolo dell’inefficienza dello sviluppo.

 

A tracciare queste linee di spostamenti dalla città verso la campagna, che così si urbanizza, sono non solo le famiglie a basso reddito, spinte dalla vita del centro che richiede alti costi di vita, ma anche le famiglie ad alto reddito, alla ricerca, sia dal punto di vista ambientale che da quello della sicurezza, di una maggiore qualità della vita, assente nel centro. Un fattore determinante del fenomeno è rappresentato dall’offerta di servizi di notevoli dimensioni e dalla grande distribuzione commerciale, che opta a stanziarsi più favorevolmente su strade a grande scorrimento, così da poter godere di più ampi spazi per l’attività e di migliori interconnessioni con reti di trasporto e materie prime. Nonostante si registri una crescita dei sistemi di trasporto, anche a costi minori, sfruttata dalle nuove imprese situatesi all’esterno della città, i collegamenti tra il centro e le nuove aree periferiche risultano complessi e molto difficoltosi. Tale fattore comporta consequenzialmente un aumento massiccio dell’uso dell’automobile privata e questo, in una reazione a catena, produce una spaventosa intensità del traffico che a sua volta danneggia l’ambiente a causa del maggiore inquinamento provocato e riduce il livello di qualità e benessere della vita, fattore spesso sottovalutato ma molto influente sulle condizioni di salute psichica e fisica di un abitante della città. La domanda che potrebbe sorgere spontanea è: ma se questa nuova conformazione è simile a tante isole che sembrano autonome e autosufficienti, perché allora è ancora così necessario il rapporto con il centro?

 

La risposta è che, pur diventando sempre più attrezzate e ricche di servizi, le zone esterne traggono ancora linfa dal centro – e così i collegamenti – e perciò gli spostamenti in questa direzione rimangono fondamentali. Lo sprawl urbano ha così determinato un nuovo modello di città diffusa in cui, se non è avvenuto un incremento della popolazione, si è invece registrata una sua redistribuzione sul territorio; si tratta di un fenomeno migratorio dalla città alla periferia (e oltre) o, per definirlo più correttamente, dalla città alla città.    

                                                                   

Sono di grande impatto le conseguenze del fenomeno e la Commissione Europea le ha individuate nel “consumo di spazi verdi, alti costi energetici ed infrastrutturali, incremento della segregazione sociale e divisione funzionale dell’uso del suolo, aumento della mobilità individuale e della dipendenza del trasporto motorizzato privato, con conseguente congestione del traffico, consumo di energia ed emissioni inquinanti”.

 

È emblematico il caso della Città di Roma, dal 2014 Città Metropolitana a seguito della legge Bosetti e Gatti del 2014. L'Urbe è infatti in una fase del suo ciclo vitale in cui indossa bene le vesti di una città diffusa, subendo gli effetti dell’urban sprawl. La Città Metropolitana di Roma è la prima per popolazione rispetto alle altre Città Metropolitane, contando 4.342.046 abitanti, mentre la sua estensione territoriale è pari a 5.363,3 kmq. Il territorio sulla quale si estende è sicuramente molto variegato, per il 30% costituito da pianure, per il 50% da colline e per il 20% da aree montane. Proprio come una città diffusa, il verde si alterna agli spazi edificati, i centri commerciali ai piccoli negozi (sempre più rari), le aree agricole al centro storico, senza che un filo razionale segua questi mutamenti. Se la fase di sub-urbanizzazione ha interessato Roma verso l’inizio degli anni ’70, è verso la fine del secolo sorso che si è avviato il periodo di de-urbanizzazione. Da quando è diventata capitale d'Italia, Roma ha subito un’imponente espansione urbanistica; ai primi anni del Novecento risalgono diversi Piani Regolatori tesi ad ampliare le superfici edificate. Durante il periodo fascista il centro fu oggetto di riqualificazione e abbellimento, proprio in linea con la politica mussoliniana di mostrare Roma come simbolo del potere. Durante il dopo-guerra la legge 28 febbraio 1949 “INA–Casa” si prefissava l’obiettivo di agevolare la costruzione di nuove abitazioni per i lavoratori in modo da incrementare l’occupazione operaia. L’assetto urbanistico della città subì modifiche anche per via dell'organizzazione delle Olimpiadi del 1960, in occasione delle quali, senza contare gli impianti sportivi, fu costruito il Villaggio Olimpico nella zona Flaminio come alloggio degli atleti, oltre ad altri costruiti a Decima, vicino l’EUR, e successivamente destinati agli impiegati statali. Negli anni ’60 e ’70 la città si ampliò sempre di più e vennero alla luce nuovi quartieri, a seguito di diversi PEEP (Piani per l’Edilizia Economica Popolare). Attualmente Roma è costituita da un nucleo centrale, in costante espansione verso le zone periferiche, con continui incrementi di attività commerciali e strutture residenziali. Il Piano Regolatore Generale, vigente dal 2008, presenta Roma suddivisa in città storica, città consolidata, città da ristrutturare e città della trasformazione, a cui si aggiungono poi le centralità urbane e metropolitane, gli ambiti di riserva a trasformabilità vincolata e il sistema dei servizi pubblici generali. Il Piano Regolatore Generale definisce così Roma come un sistema di città contigue: la vera sfida non è però averle così nominate, ma riuscire a realizzare una vera interconnessione efficiente tra le stesse.

 

Centro e periferia sono gli elementi imprescindibili della città, che appare come un organismo vivente, come specchio di chi la vive e di tante altre variabili, che ne modificano in itinere volto e conformazione. La città non è immobile, ma dinamica e in continua trasformazione. La città, giorno dopo giorno, cambia e si evolve. Molte delle città contemporanee, soprattutto europee, stanno attraversando la fase di de-urbanizzazione e protagonista è il fenomeno dell’urban sprawl, che, come già detto, è portatore di innumerevoli effetti negativi. La sfida da sostenere oggi è proiettata verso politiche di riqualificazione dei territori già urbanizzati, così da incrementare la loro efficienza e capacità satisfattoria del fabbisogno abitativo, senza dover ricorrere a nuovi consumi di suolo di altre zone esterne. L’obiettivo è ripartire dalle periferie già esistenti, senza costruirne altre, e far sì che quelle esistenti possano essere nuovi centri autosufficienti, e non spazi in cui ci si senta soli e “fuori”. Le periferie dovranno poter essere nuovi centri, collegati al centro originario, perché solo l’interconnessione efficiente tra i vari centri sarà in grado di offrire benefici agli abitanti della città.

 

Concedetevi quindi di immaginare le città del futuro coese, attrattive, sane, ricche di spazi verdi, meno inquinate e capaci di dimostrare che la diversità culturale, etnica e generazionale rappresenta la loro forza e la loro bellezza.

 

 

Per saperne di più:

  1. Carlucci, L. Salvati, La città metropolitana di Roma Capitale (Cmrc): una descrizione dell’area, Urban@it Background Papers, Rapporto sulle città 2015. Metropoli attraverso la crisi, ottobre 2015; A. Di Somma, Lo sviluppo del tessuto urbano del Comune di Roma dal dopoguerra ad oggi, Atti 15o Conferenza Nazionale ASITA – Reggia di Colorno 15-18 novembre 2011; https://www.istat.it/it/files/2017/05/Urbanizzazione.pdf; http://ec.europa.eu/regional_policy/sources/docgener/studies/pdf/citiesoftomorrow/citiesoftomorrow_summary_it.pdf; Interessante è poi la web mapping application che potrete trovare qui: https://www.arcgis.com/home/item.html?id=4e6b10329f804c1c8c04aaa4898c206e.

 

Immagine: Suburban landscape shows cookie-cutter residential housing. Crediti: Konstantin L / Shutterstock