Il Chiasmo

Valentina Pagnanini

Redattore

Valentina Pagnanini si è laureata in Lettere presso l’Università di Macerata ed è allieva della Scuola di Studi Superiori Giacomo Leopardi. Nel 2017 è stata Italian Global Ambassador al G(irls)20 Summit, presso la KPMG di Monaco.

Pubblicazioni
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La regina e la straniera: dietro le quinte del teatro alfieriano

 

Tra i monumentali arazzi di fastose regge o nel silenzioso andirivieni tra le mura domestiche, immerse nella sontuosa vita di corte o condannate alla solitudine dell’esilio, le eroine del mito e della tragedia classica sperimentano una condizione di prigionia duplice: di isolamento e di esclusione dal tessuto sociale. La letteratura teatrale attraverso il medium della rappresentazione scenica, con espedienti narratologici e artistici, dà loro voce nel tessuto diegetico, forma nelle figure di imperatrici e regine, parola nell’uso di un linguaggio performativo. Quando il sipario si chiude, re e regine non sempre trionfano, più spesso avvertono di soffrire l’esclusività, o meglio, l’esclusione dalle passioni comuni.

 

Nel teatro di Vittorio Alfieri si riscontrano motivi, tendenze e tematiche che danno espressione a quell’amaro sentire la solitudine nelle cosiddette tragedie d’amore e del conflitto interiore. Alfieri è un acuto investigatore della psiche umana. Il verso alfieriano scandaglia nell’intimità, indaga l’origine prima delle umane pulsioni per restituire al lettore e allo spettatore una catarsi interiore. La «conversione letteraria» avviene nel 1775, quando Alfieri «si rende conto di come proiettare i propri sentimenti nella poesia costituisca l’unico mezzo per trovare un superamento dei propri tormenti» (G. Baldi), e per dominare le proprie passioni. Dietro le quinte del teatro alfieriano si cela infatti un preciso metodo di elaborazione del corpus tragico, illustrato dall’autore nella Vita e scandito da tre distinti momenti, tre «respiri»: l’ideare, lo stendere, il verseggiare. Se l’ispirazione poetica si scolpisce, modella e configura con attento e accurato labor limae, l’aspirazione civile, lo slancio, le utopie si incarnano nelle protagoniste delle tragedie alfieriane, interpreti di un sentimento titanico di evasione, sublimato nell’azione.

 

Da dietro gli scuri, alla finestra della sua reggia-prigione, l’Ottavia di Alfieri, colpevole di un sentimento non corrisposto per l’amato Nerone, sogna la libertà dalla tirannia e da suo marito, non pretende amore. L’azione drammatica, in rispetto delle tre unità aristoteliche, si svolge all’interno del palazzo imperiale; qui vi sono ambientate le gesta dei personaggi, Poppea, Tigellino e Seneca, qui Nerone fa condurre Ottavia dall’esilio per ucciderla.

 

OTTAVIA: Misera me!... Che piú mi avanza? In bando dal talamo, dal trono, dalla reggia, dalla patria; non basta?... Oh cielo! intera mia fama sola rimaneami; sola mi ristorava d'ogni tolto bene: sí prezíosa dote erami indarno da colei, che in non cal tenne la sua, invidíata: ed or mi si vuol torre, pria della vita?

 

Mentre reclamano il potere esclusivo su Roma, Nerone teme e trema all’udire la folla infervorata che acclama sua moglie Ottavia al trono, Poppea medita e premedita con Tigellino la morte di lei, volendo per sé l’esclusività regale che spetta però di diritto dinastico alla sua rivale. Se da un lato con un linguaggio ingannevole e menzognero, Tigellino tenta di denigrare la purezza di Ottavia, d’altro canto non riesce ad intaccarne l’integrità morale, il candore e l’onestà di cui si fa invece stoico difensore Seneca, dal primo al quinto atto: «Intatta, godi, è pur sempre la innocenza tua. Le tue tante virtú d'alcun lor raggio infiammato a virtude hanno i piú bassi servili cori.»

 

Ideata nel 1779, trascritta in prosa nel 1780, verseggiata tra il 1780-81 e il 1782, l’Ottavia di Alfieri sembra ispirarsi ai modelli precedenti, per poi riadattarli. Non è infatti l’Ottavia tacitiana, e neppure l’Ottavia di Seneca, piuttosto potrebbe essere definita come la sorella più virtuosa ed eroica delle tre, disposta a morire pur di non divenire schiava di Poppea, straniera e illegittima sovrana, del trono che lei aveva ereditato.

 

OTTAVIA: Or via; Neron, che tardi? […] Entro i recessi cupi di questa reggia, atro funesto albergo di fraude e morte, a tuo piacer mi traggi; e mi vi fa svenare. Anzi, tu stesso puoi di tua man svenarmivi: mia morte, non che giovarti, è necessaria omai. Del sol morir dunque ti appaga. Ogni altra strage de' miei ti perdonai giá pria; me stessa or ti perdono: uccidi, regna, e uccidi ancor: tutte le vie del sangue tu sai; giá in colorar le tue vendette Roma è dotta: che temi? in me dei Claudj muore ogni avanzo; ogni memoria e amore che aver ne possa la plebe.

 

È Ottavia la regina dei valori morali che, pur detronizzata e cacciata dalla sua reggia in esilio, qui vi ritorna da straniera per ordine di Nerone e, pur di preservare l’innocenza e la reputazione, prigioniera nel suo stesso palazzo, si suicida. Un gesto estremo introdotto per la prima volta da Alfieri per sottolineare il sacrificio, in nome di un ideale più nobile, di un innocente.

 

Similmente affacciata, dalla balaustra sommitale della sua reggia, Mirra, principessa d’Epiro, volge lo sguardo ad osservare l’estensione dei possedimenti di suo padre Ciniro, primo re di Cipro, verso il quale, infelice, si accende di un sentimento platonico. Prigioniera nella sua stessa dimora, scissa tra la gelosia per la propria madre Cecri e l’amore irrealizzabile per il padre, Mirra vive un conflitto interiore duplice, psicologico e affettivo: il complesso di Edipo al femminile, o complesso di Elettra, secondo la definizione di Jung.

 

Ideata in Alsazia nel 1784, poi stesa nel 1785 e verseggiata nel 1786, la Mirra di Alfieri eredita alcuni tratti dalle Metamorfosi di Ovidio, e da Igino, ma acquisisce caratteri inediti e virtuosi rispetto alla tradizione; il carisma di un’innocente che, vittima della vendetta di Venere, è pronta a tutto pur di non macchiarsi del peccato ovidiano di concepire Adone. Desidera un affetto “naturale” e felice nei confronti dei propri genitori, e pur di ottenerlo è disposta a sposare Pereo, principe d’Epiro, per fuggire con lui dalla reggia, via da Cipro e lontano da suo padre, diventando così straniera in terra d’altri.

 

MIRRA: […] Tosto, piú o meno, il mio destin mi chiama nella reggia d'Epíro: ivi pur debbo con Peréo dimorarmi. A voi ritorno faremo un dí, quando il paterno scettro Peréo terrá. […] Al sol novello, deh! concedete, che le vele ai venti meco Peréo dispieghi. Io sento in cuore certo un presagio funesto, che dove il partir mi neghiate, (ahi lassa!) io preda in questa reggia infausta oggi rimango d'una invincibil sconosciuta possa: che a voi per sempre io sto per esser tolta...

 

Proprio nel momento del matrimonio Alfieri fa riaffiorare i sentimenti più puri della giovane fanciulla, la pietà e l’ammirazione, la delicatezza e la tenerezza con cui tenta di frenare la vergogna per un sentimento di per sé irrefrenabile e non degno del suo nobile spirito, tenace ed eroico: «Amo, sí; poiché a dirtelo mi sforzi; io disperatamente amo, ed indarno. Ma, qual ne sia l'oggetto, né tu mai, né persona il saprá: lo ignora ei stesso... ed a me quasi io 'l niego» rivela al padre.

 

L’acme del pathos tragico si raggiunge con lo svelamento a Pereo della passione invincibile di Mirra, “estraniata” dal soggetto, come volontà di forze superiori che espongono gli umani, anche i più puri, alle sorti più dolorose – in linea con il pessimismo alfieriano –, a cui per tali ragioni né un matrimonio né una catarsi morale possono porvi fine. Mirra, futura regina, nel momento in cui rivela la sua turpe passione diventa per i suoi genitori un’estranea, o meglio, una straniera nella sua stessa dimora.

 

CINIRO: Ti arretra... Inorridisci... Vieni... Ella... trafitta, di propria man, s'è col mio brando...
CECRI: E lasci cosí tua figlia?... Ah! la vogl'io…
CINIRO: Piú figlia non c'è costei. D'infame orrendo amore ardeva ella per... Ciniro…
CECRI: Che ascolto? – Oh delitto!...
CINIRO: Deh! vieni: andiam, ten priego, a morir d'onta e di dolore altrove.

 

Nelle due tragedie l'esclusione è declinata anche al maschile e si esprime nell'ultracrepidarianismo dei protagonisti. La tendenza al criticismo immotivato e la facilità al giudizio negativo emergono in Ciniro e in Nerone allorquando essi avvertono di essere profondamente esclusi dalle nobili virtù del loro corrispettivo femminile.

 

Esclusa dagli affetti familiari, Mirra si trova a vivere e consumare il suo dramma nella solitudine, un dramma tutto interiore, che non può dominare né comunicare all’esterno. «L’incubo qui è tutto nell’anima della protagonista, che dalla reggia non vuole intimamente allontanarsi» (A. Di Benedetto, V. Perdichizzi). Così ella, come Ottavia, pur di conservare l’innocenza, percorre l’unica via in grado di preservare l'integrità morale e salvarla dalle sue stesse volontà: il suicidio.

 

Ottavia e Mirra, due tragedie del silenzio e nel silenzio, vissute nella lotta disperata tra le tempeste del cuore e la strenua difesa dell’onore, all’interno di regge-prigioni da cui sono escluse le comuni passioni, che sono, nell’ineluttabilità della fine, le più desiderate, da principesse e regine.

 

Per saperne di più:

Si propone la lettura integrale delle tragedie alfieriane Mirra e Ottavia: Mirra, Garzanti, Milano, 2014; Ottavia (a cura di Ettore D'Avanzo), Napoli, Rondinella, 1932. Si suggerisce inoltre la lettura del saggio di Walter Binni, Lettura della "Mirra" di Alfieri, in Alfieri - scritti 1938-1963, Il Ponte Editore, Firenze, 2015, pp. 169-193. Infine, per la ricostruzione del profilo biografico di Alfieri, si consiglia il testo di Arnaldo Di Benedetto, Vincenza Perdichizzi, Alfieri, Salerno, Roma, 2014.

 

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Interspazi di genere nella didattica

«La storia delle donne è lo strumento principale della loro emancipazione» (Gerda Lerner).

 

Dall’Oriente all’Occidente, dall’antica Grecia all’eterna Roma, attraversando i secoli e le periodizzazioni, conquistatori ed esploratori, storici e storiografi hanno scritto la storia animati da un comune desiderio: occupare uno spazio nella memoria dei posteri. Uno spazio e un compito che oggi, tra i banchi di scuola, si affida all’insegnamento della storia, raccontata nei manuali o, più raramente, sperimentata nei laboratori sulle fonti storiche. Si tramanda il passato per comprendere i fenomeni del presente e fare previsioni sul futuribile. Spesso però si dimentica una parte fondamentale della storia generale, frequentemente relegata ai margini dei libri di testo ufficiali in appendici e approfondimenti iconografici: la storia delle donne.

 

«Io non sapevo che le persone come me potessero esistere nella letteratura» racconta l’attivista e scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie, autrice del celebre saggio We should all be feminists, in una recente TED talk nella quale sollecita, esorta, avverte del pericolo di leggere, scrivere e insegnare una storia “unica”: una narrazione rigida e univoca degli eventi storici che non contempli l’alterità e il diverso, per razza e genere.

 

La storia unica crea stereotipi e il problema degli stereotipi non è che non siano veritieri, ma che sono incompleti. Fanno diventare una storia la sola storia. […] la conseguenze della storia unica è questa: spoglia le persone della propria dignità, ci rende difficile riconoscere l’umanità che è uguale alla nostra, mette enfasi sulle nostre diversità piuttosto che sulle nostre somiglianze. […] Molte storie sono importanti. Le storie sono state usate per espropriare, e per diffamare, ma le storie possono anche essere usate per ridare potere, e per umanizzare. Le storie possono spezzare la dignità di un popolo, ma le storie possono anche riparare quella dignità spezzata.

A ricucire gli strappi della fitta trama storica sono intervenute numerose scrittrici e storiche, acute interpreti della cosiddetta storia di genere, che sottrae finalmente la donna al silenzio cui era stata relegata da una storia e una storiografia al maschile sin dalla classicità, come sottolinea Lorenza Pamato in Storia delle donne, ‘gender studies’ e ricerca storico-religiosa, da Tucidide e Polibio, per poi essere invece riscoperta dagli studi sull’opera biografica di Plutarco, antecedente illustre della storia delle donne. Nell’antichità, infatti, se secondo Tucidide il nome delle donne per bene non varcava neppure le mura domestiche, secondo Plutarco invece era degno di memoria e di menzione storica al pari degli uomini, tanto che nelle Vite parallele presenta esempi di coraggio ed eroica virtù per entrambi i sessi.

 

Tra Ottocento e Novecento inizia una nuova stagione di ricerche sulle opere classiche, riprendendo i lavori di ricerca dei secoli precedenti, come dimostra l’Introduzione all’opera Il Plutarco femminile (1872) del filologo Pietro Fanfani.

 

Scrivendo le presenti Vite io ho avuto il proposito, come tutti gli altri, di ammaestrar le fanciulle con l’esempio, e di infiammare gli animi loro a quelle virtù che leggono descritte; ma sopra ciò ho voluto che quelle vite mi dessero materia a ragionare delle qualità di esse virtù: a trattare quistioni di istituzione femminile: a parlare di morale, di buona creanza, di educazione, dell’ufficio della donna nell’umano consorzio: a trattare argomenti di storia letteraria: a dar brevi e sicuri precetti dell’arte di scrivere, di buona composizione, di grammatica, di proprietà e di eleganza.

Il filo rosso tracciato da Eva Cantarella (autrice della voce enciclopedica “matriarcato”) nel saggio Gli inganni di Pandora. L'origine delle discriminazioni di genere nella Grecia antica (2019) ha condotto ad individuare proprio nell’antichità greca soluzioni moderne per i problemi di genere del nostro presente, dalla filosofia alla letteratura, già nell’Atene del V secolo: se nelle arti si assisteva a una straordinaria fioritura culturale, nella poesia e nel mito si andava enucleando anche l’idea dell’inferiorità della donna per natura, a partire dalle infelici similitudini di Semonide di Amorgo che accostava le donne agli esseri animali secondo i rispettivi difetti, sino al mito di Pandora, donna bellissima e irresistibile ma col dono delle parole ingannevoli, fonte di infelicità per gli uomini e punizione divina dell’umanità intera per aver rubato il fuoco agli dei. Anche la medicina e il diritto erano intrecciati a filo doppio a questioni di etica: se in ambito medico si attribuivano malattie indeterminate al corpo femminile per ignoranza di quest’ultimo, in letteratura si assolve l’Oreste di Eschilo dal matricidio di Clitennestra perché secondo le norme dell’epoca era l’uomo il “vero” genitore. La doppia morale che nasce in Grecia prevedeva, così, da un lato l’imposta monogamia femminile, dall’altro la libera poligamia maschile, rappresentata anche da Omero nella figura di Ulisse.

 

Un’onda di rinnovamento nella storia e nella letteratura si genera nel Novecento con l’affermazione degli studi di genere. La nascita della storia delle donne e l’avvento dei primi movimenti femministi, in America e in Europa, negli anni Sessanta e Settanta conducono a una fase attiva di riconoscimento della presenza femminile nella storia, nella quale si affermano i periodici Donna Woman Femme, Memoria. Rivista di storia delle donne e si istituiscono le prime commissioni per le Pari opportunità. Tra le protagoniste più celebri di questi anni si ricorda Natalie Zemon Davis autrice del saggio Women’s History in Transition: The European Case, fondamentale nell’inaugurare una visione onnicomprensiva della storia che ampliò la prospettiva alle relazioni tra i sessi, con teorizzazioni che poi saranno riprese dai gender studies di Joan Scott.

 

Con la storia delle donne riemergono esempi di storia religiosa delle donne, compaiono sante e martiri cristiane come modelli di vita religiosa al femminile, donne di lettere che leggono e scrivono già nel Medioevo, come Dhuoda, Brigida di Svezia, Rosvita di Gandersheim e Ildegarda di Bingen, le quali si distinguono per la fruizione di documenti letterari in contesti di diffuso analfabetismo. La fervente produzione letteraria si scontra però con l’annoso problema dell’autorialità dei testi femminili: come stabilire il genere di una scrittura adespota?

 

Janet Nelson ha tentato l’attribuzione della Vita Mathildis reginae antiquior alla regina Matilda, madre di Ottone I, considerando nei testi la presenza di alcuni fattori come la presenza di descrizioni di protagoniste femminili, l’interesse alla soggettività dei fatti storici o l’adozione di uno stile definito “romanzesco”. Tiziana Lazzari nell’articolo Donne che scrivono di storia nel Medioevo. Intrecci, passioni e avventure tra VIII e X secolo dimostra inoltre il fatto che, in passato, nei casi in cui individuare il genere della persona scrivente non era possibile, seguendo un procedimento non basato su parametri scientifici ma su criteri soggettivi, secondo un automatismo implicito le testimonianze storiche sarebbero state attribuite più a scrittori che scrittrici.

 

Lo storytelling femminile si è rivelato allora essenziale nell’affermazione identitaria e storica delle donne e ha rappresentato una valida soluzione all’assenza di una narrazione storiografica, in modo particolare grazie alla riscoperta e l’elaborazione di biografie: microstorie che si innestano nella macrostoria. Gianna Pomata in Storia particolare e storia universale. In margine ad alcuni manuali di storia delle donne individua nella biografia un genere che, pur essendo particolare, ha avuto «un posto ufficiale nella storiografia», grazie al quale si iniziò a raccontare la storia delle donne scegliendo una particolare tematica: «la storia di famiglia, la storia religiosa di piccola scala, la memorialistica legata alla vita di corte». Cronache di generazioni passate, storie di monasteri, memorie di relazioni sociali iniziarono ben presto a diffondersi e permisero di individuare e riscoprire il ruolo femminile nelle società del passato.

 

Qual è, dunque, il peso della storia delle donne nei meandri della storia ufficiale? Quanto spazio vi si deve dedicare e come integrarla nella didattica della storia? A questi interrogativi hanno cercato di rispondere le studiose Franca Bellucci Alessandra Celi e Silvia Susini, intervistate da Indire, con la formulazione di unità didattiche integrative al manuale, hanno evidenziato infatti la tendenza delle discipline scolastiche a sfumare i riferimenti alla storia delle donne e da qui è nata la loro ricerca per fonti, con l’obiettivo di insegnare la storia secondo un metodo di confronto critico delle interpretazioni, che contempli insieme una visione del maschile e del femminile, in una prospettiva universale e onnicomprensiva.

 

Oltre gli interspazi dei libri di testo, la storia delle donne attraverso le nuove tecnologie digitali diventa didattica attiva, di tipo laboratoriale. Al fine di superare gli stereotipi insiti nei manuali, dove spesso la sottorappresentazione delle donne si traduce in sottocategorie e box a latere, Agnese Portincasa e Igor Pizzirusso nell’articolo Il digitale come risorsa per la didattica laboratoriale esaminano le opportunità offerte dal digitale per rendere fruibile e accessibile l’insegnamento della storia europea telematicamente. Il Digital Learning Environment, ad esempio, è uno strumento molto diffuso tra i docenti di storia per un apprendimento continuativo e non limitato all’età scolare; la piattaforma può considerarsi un laboratorio sulle fonti digitale, dove gli stessi insegnanti possono «progettare, costruire, definire, modificare il proprio laboratorio» da presentare agli alunni, condividendo contemporaneamente a livello nazionale ed europeo i propri contenuti, le fonti reperite e gli obiettivi raggiunti. Un esempio di come il digitale possa facilitare l’attuazione di modalità didattiche che altrimenti sarebbero penalizzate proprio dalle tempistiche di esecuzione.

 

Grazie alle potenzialità offerte dal digitale e dai laboratori tecnico-pratici di storia applicata, lo studente di oggi può adattare le nozioni acquisite ai contesti e ricostruire storie particolari, come la storia delle donne, a partire dalle fonti. Ancora oggi, agiografie, cronache e biografie sono utilizzate come strumenti di didattica della storia per favorire una maggiore appropriazione dei contenuti e l’immedesimazione nelle epoche storiche, in modo particolare attraverso l’identificazione con attori e attrici della storia passata.

Di recente anche il cinema ha acceso i riflettori sulle storie di self-made women. Nel 2020 su Netflix è uscita la serie tv Self Made: la vita di Madam C.J. Walker, dedicata all'imprenditrice donna afroamericana, Sarah Breedlove, che nei primi decenni del Novecento sfidando le convenzioni del sistema americano avviò la Madam C. J. Walker Manufacturing Company, inizialmente un'attività porta a porta, che riuscì poi a trasformare in un business milionario. A chi le domandava le ragioni del suo successo, nel 1912 Breedlove rispose: «sono una donna che è arrivata dalle piantagioni di cotone del Sud. Da lì sono stata promossa alla tinozza del bucato e poi alla cucina. Infine ho promosso me stessa».

 

Per saperne di più:

Si consiglia la lettura dei contributi di: Eva Cantarella, Gli inganni di Pandora. L'origine delle discriminazioni di genere nella Grecia antica, Milano, Feltrinelli, 2019; Tiziana Lazzari, Donne che scrivono di storia nel Medioevo. Intrecci, passioni e avventure tra VIII e X secolo, «Storicamente», 2013, pp. 1-6; Lorenza Pamato, Storia delle donne, ‘gender studies’ e ricerca storico-religiosa. Note introduttive, «Annali di studi religiosi», 3 (2002), pp. 375-409; Gianna Pomata, Storia particolare e storia universale. In margine ad alcuni manuali di storia delle donne, «Quaderni storici», 74, 1990; Agnese Portincasa e Igor Pizzirusso, Il digitale come risorsa per la didattica laboratoriale. Si propone inoltre la visione delle interviste a Franca Bellucci, Alessandra Celi e Silvia Susini.

 

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I «transmutati» versi

Lo scrittore che aspirasse alla libertà di pensiero doveva o fuggire o tacere. Ma poiché lo scrittore si affida alla lingua, se tace per troppo tempo è come se si suicidasse. Se vuole evitare il suicidio e l’esser ridotto al silenzio, e per di più, ha necessità di parlare con la propria voce, non può scegliere che l’esilio. Così è sempre stato, e basta pensare alla storia letteraria, in Oriente come in Occidente, per trovare conferma: da Qu Yuan a Dante, da Joyce a Thomas Mann, a Solzenicyn (Gao Xingjian, La ragion d’essere della letteratura, Discorso pronunciato davanti all’Accademia Svedese il 7 dicembre 2000, traduzione dal cinese di Maria Cristina Pisciotta, Rizzoli, Milano, 2000).

 

È il 2000, Gao Xingjian si trova davanti ai giurati dell’Accademia Svedese, sta per ritirare il premio Nobel per la letteratura, e tra tutti gli scrittori e autori del passato, per la sua prolusione intitolata La ragion d’essere della letteratura sceglie due poeti, un italiano e un cinese: Dante Alighieri e Qu Yuan. Un accostamento un po' insolito sembrerebbe per uno scrittore cinese, ma è tanto più interessante se si pensa a quante e quali possano essere state le contaminazioni culturali veicolate dalle recentissime traduzioni cinesi delle opere dantesche, segno di un eccezionale avvicinamento, seppur tardivo, alla storia della letteratura italiana.

 

Tra Ottocento e Novecento infatti numerosi studiosi cinesi guardarono all'Occidente, in particolare all’Italia e al poema dell'Alighieri, come rappresentazione completa e attuale degli ideali del popolo cinese. Il nostro poeta avrebbe influenzato tanto la letteratura quanto la politica cinese. «La Divina commedia è stata vista come simbolo di abbattimento del feudalesimo ed esaltazione di unità nazionale: Dante riflette gli interessi del popolo e svela i crimini della vecchia macchina statale» ha dichiarato in una recente intervista il professore Wan Zheng, docente di letteratura italiana all'Università di Studi Internazionali di Pechino. L'Unità d’Italia divenne l'esempio occidentale da seguire, come il risultato di un lungo processo di unificazione, portato avanti coraggiosamente dagli eroi italiani. Gli intellettuali del partito riformista cinese videro nel Risorgimento italiano un modello di rinascita e di rinnovamento per il loro paese.

 

«Soltanto l'Italia presenta degli aspetti simili a quelli della Cina d'oggi, soprattutto se teniamo presenti le condizioni in cui essa si trovava prima del raggiungimento della sua unità nazionale» affermava agli inizi del Novecento l’intellettuale Hu Shi 胡适 (1891-1962). In particolare, «il fatto che l’Italia, paese di antica civiltà e sede un tempo di un grande impero, successivamente decaduto e assoggettato allo straniero, fosse riuscita con le proprie forze a riacquistare l’indipendenza, costituì per i Cinesi più colti e più aperti alle nuove idee provenienti dall’Occidente un esempio ed un monito a fare altrettanto» conferma G. Bertuccioli che individua tra i due paesi condizioni oppressive molto simili: «anche la Cina infatti era stata sede di un grande impero, che per centinaia di anni aveva dettato legge ai barbari confinanti; ma nel secolo scorso si trovava governata da un popolo straniero, i Mancesi, che l’avevano conquistata nel 1644 dopo averne abbattuto l’ultima dinastia nazionale dei Ming ed era inoltre sottoposta alle continue offese infertele da altri stranieri».

 

Alla luce di questi riscontri, la situazione italiana venne studiata con i migliori auspici in particolare dai due maggiori esponenti del partito riformista, Kang Youwei e Liang Qichao, che continuarono le ricerche nel corso dei loro viaggi. Kang arrivò in Italia nel 1904 per un breve soggiorno e nel suo resoconto di viaggio annotò: 

 

L’Italia, come la Cina, ha molte terre incoltivate e una popolazione numerosa; come la Cina, è povera e priva di macchinari; come la Cina, è un paese antico con antichi costumi; come la Cina, è costretta a far emigrare i suoi abitanti; come la Cina, è ancora poco industrializzata. Per conseguenza il nostro paese può imitare il modo con cui l’Italia si è rinnovata.

 

Il rinnovamento italiano venne studiato anche dal punto di vista culturale, ideologico e letterario attraverso la figura di Dante che entrò nella letteratura, filosofia, e soprattutto nel pensiero cinese del primo Novecento. Si determinò di conseguenza un processo di imitazione della cultura italiana. Lo scrittore e giornalista Liang Qichao 梁启超 (1873-1929) «ravvisò in Dante il poeta-vate che contribuì al risveglio della coscienza nazionale italiana e quindi alla successiva indipendenza e liberazione dal dominio straniero» osserva Visintainer. Dopo aver letto di Dante nei saggi di Ueda Bin (1874-1916) e di altri dantisti giapponesi, nel 1902 Liang pubblica il saggio Yidali jianguo sanjie zhuan (Biografie dei tre eroi che hanno fatto l’Italia), nel quale considera Mazzini, Garibaldi e Cavour gli eroi della storia risorgimentale italiana. Tre modelli di virtù, coraggio e amore di patria che, secondo la studiosa A. Brezzi, «dovevano incitare il paese a rispondere alle minacce straniere e a liberarsi dalla fallimentare politica degli ultimi sovrani Qing». Qichao conobbe la storia e la letteratura italiana durante il suo esilio in Giappone, qui continuò i suoi studi comparati sull’Italia e la Cina, e nel 1904 pubblicò il dramma musicale Xin Luoma 新罗马 (La nuova Roma), nel quale immaginava l’anima di Dante in viaggio con Voltaire e Shakespeare per la Cina, un paese in declino politicamente e moralmente. Ripercorrendo le tappe principali del Risorgimento italiano che avevano portato all’unificazione, Liang voleva incoraggiare il popolo cinese a imitare gli eroi italiani per intraprendere un nuovo Risorgimento che trasformasse la Cina in una nuova Roma e a seguire le teorie linguistiche di Dante per aprire la cultura cinese a nuove forme letterarie e ai generi della modernità.

 

Nel prologo del melodramma il poeta fiorentino cavalcava una gru e recitava un lungo monologo sull’Italia nel quale elogiava i suoi connazionali per i successi ottenuti nell’ultimo millennio:

 

Oggi la mia Italia è diventa una potenza europea di prima categoria, completamente indipendente […]
Mentre passeggiavo oziosamente per il Paradiso, ho gettato uno sguardo al polveroso mondo sottostante ed ho pianto, profondamente commosso da un simile spettacolo. Ormai posso ben considerare dileguati del tutto quegli sporchi fumi di rabbia che mi riempivano la pancia in vita ed oggi, libero da preoccupazioni ed impegni, voglio andare a fare un viaggio in Oriente, in Cina, per passare un po’ il tempo (Giuliano Bertuccioli, Un melodramma di Liang Qichao sul Risorgimento italiano, p.314).

 

Il tentativo di Qichao non ebbe soltanto il merito di divulgare la Commedia ma diede il via all’usus letterario di considerare il poeta fiorentino come un punto riferimento da seguire. Per i poeti cinesi del primo Novecento Dante era uno dei più grandi rivoluzionari della letteratura italiana, venerato anche dal poeta e monaco buddista Su Manshu (1884-1918) che in un testo lirico afferma: «Dante e Byron sono i miei maestri: il loro genio fu come il fiume, come il mare; la loro vita fu diritta come un filo».

 

La vera scoperta di Dante inizia proprio nel 1916 con il Movimento della Rivoluzione Letteraria che promuove l’uso letterario della lingua parlata in sostituzione del cinese classico e attinge agli studi italiani sul volgare per confermare questa necessità, prendendo ad esempio l’emancipazione dell’italiano dal latino – una lingua forte, come il cinese classico – per privilegiare una comunicazione più diretta nella lingua volgare. Hu Shi si fa promotore della letteratura vernacolare báihuà e ammette l’importanza linguistica di Dante per attuare una sostanziale riforma della lingua. Egli riprende le teorie espresse nel De Vulgari Eloquentia e ne studia l'applicabilità alla lingua e letteratura cinese. Si riportano a tal proposito le parole di Hu Shi: 

 

Noi cinesi dobbiamo studiare il modo in cui il volgare si è affermato in Italia. E perché mai? Perché le lingue degli altri paesi dell'Europa occidentale o settentrionale differiscono troppo dal latino. In quei paesi fu facile abbandonare l'uso dal latino per cominciare a scrivere secondo le nuove lingue nazionali. Invece coloro i quali proposero di servirsi del volgare in Italia incontrarono molte difficoltà proprio perché nel loro paese aveva avuto sede la capitale dell’Impero Romano e perché i dialetti italiani non differiscono troppo dal latino. Le stesse difficoltà vengono incontrate in Cina da chi sostiene la necessità di scrivere secondo la lingua parlata in un secondo stile letterario. In Italia gli avversari del volgare erano numerosissimi e gli scrittori, per affermare le loro tesi, dovettero creare una letteratura in volgare che si mostrasse superiore, come il latino. Così fecero Dante e Leon Battista Alberti (Ermanno Visintainer, Dante nella letteratura cinese, p.2).

 

Dopo di lui, anche Lu Xun 鲁迅 (1881-1936) legge Dante, ne studia il pensiero politico e le scelte riformative, seguendo alcuni dettami danteschi nell'adozione della lingua più adeguata alle sue opere. Nel Diario di un pazzo, 1918, egli «usò il cinese volgare detto báihuà rigettando per la prima volta la lingua classica, così come a suo tempo Dante abbandonò il latino per la lingua volgare» conferma il professor Zheng, «proprio mentre la Cina stava cercando una nuova identità, Lu Xun esprimeva l'idea che la creazione della lingua italiana da parte di Dante avesse costruito l'anima stessa del suo popolo».

 

Alla luce delle analogie finora riscontrate tra il nostro poeta e gli autori cinesi considerati, separati da più di cinque secoli, ma accumunati da una forte passione ideologica e una curiosità linguistica, appare più evidente l’accostamento effettuato dal poeta Gao Xingjian. È opportuno chiedersi però come questi scrittori conoscessero le opere di Dante. Si ricorda infatti che fino al 1921 non erano ancora state approntate traduzioni in lingua cinese. Paradossalmente, l’influenza di Dante nel pensiero cinese non corrispose ad una corrispettiva e contemporanea diffusione delle sue opere.

Come è arrivato dunque Dante in Cina senza passare attraverso l’opera dei traduttori cinesi?

Come è stato possibile leggerlo, comprenderlo e persino imitarlo, riutilizzando le sue teorie linguistiche come slogan di un movimento culturale e letterario di rinnovamento, senza avere a disposizione una versione completa della sua produzione, integralmente tradotta?

 

La trasmissione delle opere dantesche in Cina non seguì un iter definito e consolidato, piuttosto sarebbe avvenuta grazie alle prime traduzioni in lingua giapponese, che precedettero di molto quelle cinesi. Liang Qichao, primo scrittore cinese a parlare di Dante, lesse del poeta proprio durante il soggiorno in Giappone e proprio dei caratteri giapponesi si sarebbe servito per traslitterarne il nome, coniando il termine “Dantei” secondo la pronuncia giapponese, invece del cinese “Danding”.

 

Il processo di traduzione della Divina Commedia in lingua straniera era iniziato già nel Quattrocento, tuttavia, in Cina troverà compimento soltanto agli inizi del Novecento, nell’esito del lavoro di un giovane interprete cinese, Qian Daosun 钱稻孙 (1887-1968). Fino ad allora, il poeta fiorentino era conosciuto dai lettori cinesi indirettamente, menzionato sommariamente nelle citazioni degli scrittori più illustri, con accenni alla sua biografia. Daosun ebbe il grande merito di tradurre una prima parte del poema, in occasione del seicentenario dalla morte di Dante. Risale al 1921 un intero numero giornalistico dedicato a Dante, da lui curato per la Rivista dei giovani con una prima traduzione della Commedia: Saggio di una versione della Divina Commedia. Per il Mensile di narrativa egli curò la traduzione dei primi tre canti dell'Inferno in lingua cinese classica. Ad essi seguirono altri due canti, tradotti nel 1929 e proposti per la rivista Rassegna Critica: «usò lo schema metrico dei Canti di Chu di oltre 2200 anni fa, e sebbene la sua traduzione si sia applicata solo su cinque canti è considerata a tutt'oggi la migliore», sottolinea Zheng. È questa la prima traduzione cinese in metrica della Divina Commedia

 

L’ispirazione dello scrittore nacque da un viaggio in Italia nel 1908, nel corso del quale si era tanto appassionato alla cultura e ai miti italiani, da trovare in Dante il massimo interprete di una tradizione millenaria e nella Commedia «un ottimo compendio ‘di mitologia greca e romana, di religione cattolica, e di pensiero scientifico e letterario dell’epoca medievale’», a lui accessibile nella traduzione giapponese, lingua che aveva studiato e imparato nella lunga permanenza in Giappone. Si tratta della traduzione a cura di Yamakawa Heizaburo, pubblicata nel 1914 a Tokyo sulla base di esemplari in lingua inglese. Qian avrebbe utilizzato la versione giapponese per trasporre l’Inferno nella sua lingua madre, «attingendo dalla tradizione classica, adattò l’antico schema metrico del saoti, componimento in versi di 6 sillabe, per farci scivolare sopra le terzine dantesche, e mantenere così il legame rimato, tanto caro a Dante». È questo il primo e l’unico tentativo, «fino alla recente pubblicazione di Huang Guobin nel 2003 e di Zhang Shuguang nel 2005, di calcare l’endecasillabo dantesco su un verso cinese, seppur per soli tre canti» sottolinea A. Brezzi. L’autore correda inoltre il testo di un ricco apparato filologico, nel quale segnala le scelte lessicali, fonetiche e morfologiche, parte fondamentale per il lettore cinese che nella glossa apprende tutti quei riferimenti simbolici non traducibili.

 

Negli stessi anni il periodico Eastern Miscellany dedica ben tre articoli alla produzione dantesca: Dante: il poeta e la sua poesia, Il pensiero politico di Dante ed Essenza della Divina Commedia.  Si sottolinea il talento del poeta fiorentino, in attesa del futuro “Dante cinese”:

 

nel celebrare il sesto centenario della morte del Saggio poeta italiano nutriamo una speranza egoistica: quando potrà finalmente nascere il Dante cinese? Il risveglio dell’arte e della letteratura cinese è davanti ai nostri occhi? Nel celebrare questo glorioso anniversario, ci auguriamo che la luce del Saggio poeta risplenda per sempre sulla terra ferma [la Cina]! La gloria del popolo italiano sia eterna come quella del Poeta! Che lo spirito del poeta discenda sul suolo cinese, purifichi gli animi torbidi e smunti del popolo, e li elevi al Paradiso!  (Alessandra Brezzi, Il Novecento cinese di Dante, p.8.)

 

Negli anni Venti anche il traduttore Guo Moruo 郭沫若 (1892-1978) si interessa a Dante, al punto tale da comporre, nel 1923, una lirica sul V canto dell’Inferno in memoria di Paolo e Francesca: La canzone di Paolo (Paolo zhi ge). Si racconta di un amore declinato secondo i canoni della poesia stilnovista, che diventa ancor più sublime e spirituale nel romanzo Tre racconti di vita dissipata. Nella prosa, si narra l’amore a distanza tra uno studente di medicina e un’infermiera, che nel momento della separazione si salutano utilizzando stilemi danteschi: «Tu sei la mia Beatrice! Tu sei la mia Beatrice! Tu sei mia! Un lungo romanzo? Si, è la cosa migliore! Dante ha composto la Divina Commedia per il suo amore, certamente io creerò un lungo romanzo per ricordarti, per renderti eterna. Oh, Ave Maria! Ave Maria! Donna eterna!»

 

Beatrice e il suo amore angelico per Dante sono citati anche dal redattore Zheng Zhenduo che vi dedica un’intera sezione del capitolo Letteratura medievale europea pubblicato per il Mensile di Narrativa dal 1924 al 1927, il sommo poeta è considerato «il ponte tra Medioevo e Rinascimento», autore di «un libro che non ha uguali nella storia dell’umanità»: la Divina Commedia.

 

Negli anni Trenta, invece, Dante è riscoperto nella letteratura d’esilio e di viaggio. Al primo genere afferiscono i saggi sulla letteratura europea di Mao Dun che menziona il sommo poeta e lo accosta – seguendo l’esempio di Qian Daosun - all’esperienza poetica di Qu Yuan, scrittore esule nel III secolo a.C., riscontrando affinità tra i rispettivi capolavori letterari: la Commedia e il Lisao. Due storie che raccontano entrambe di viaggi d'esilio, condotti in mondi soprannaturali, verso luoghi paradisiaci. «Può essere interessante comparare Dante e Qu Yuan, la Divina Commedia e il Lisao. Entrambi questi due grandi poeti, di famiglie aristocratiche, dopo aver subito sconfitte politiche, consegnarono alla poesia il compito di custodire sofferenze e indignazione», scrive Mao. Nella letteratura di viaggio, invece, fanno riferimento a Dante sia il poeta Xu Zhimo che si reca alla sua tomba a Ravenna, sia Zhu Ziqing che a Firenze visita e poi descrive la casa di Dante e di Beatrice. Tuttavia, soltanto alla fine degli anni Quaranta i lettori cinesi potranno leggere la Divina Commedia interamente nella propria lingua. La prima traduzione integrale è pubblicata nel 1949, a partire dalla versione francese. Ad essa seguirono numerose ristampe, nel 1954 si ricorda la traduzione a cura di Zhu Weiji, che afferma: «la Divina Commedia è una delle opere più importanti della storia letteraria mondiale, è l’opera rappresentativa di un artigiano consumato della letteratura nella fase di passaggio dal medioevo al capitalismo moderno, di Dante antesignano del rinascimento italiano. Il poeta che è stato un anello di congiunzione». 

 

Poi, improvvisamente, Dante scomparve dalla letteratura cinese nel periodo della Rivoluzione culturale, dal 1966 al 1976; non venne celebrato neppure il suo sesto anniversario della nascita nel 1965. Le traduzioni della Divina Commedia ripresero alla fine della Rivoluzione Culturale, con maggiori pubblicazioni della Commedia dagli anni Ottanta in avanti; l’edizione del 1984 arrivò a superare le 112 mila copie.  

 

Tra tutte le traduzioni pubblicate dagli anni Venti, l'unica versione basata sull’originale italiano risale agli anni Ottanta, a cura di Tian Dewang 田德望 (1909-2000), a cui lo scrittore si dedica per oltre diciotto anni. Una traduzione accademica che attinse ai contributi dei dantisti italiani come Umberto Bosco, Natalino Sapegno e Arnaldo Momigliano. Infine, nel 1986 videro la luce i primi quattro canti dell'Inferno, seguiti nel 1990 dalla traduzione dell'intera cantica. Nel ventunesimo secolo vennero pubblicate tre nuove traduzioni integrali, basate sulla versione italiana della Commedia: la prima nel 2000 a cura dello studioso Huang Wenjie 黄文杰, nel 2003 la seconda traduzione del docente Huang Guobin 黄国彬, la terza nel 2005 curata dal poeta Zhang Shuguang 张曙光.

 

In conclusione, il lavoro di traduzione dall’italiano al cinese non fu semplice, tantomeno lo fu tradurre l’infinita mole di riferimenti storici, culturali, letterari di cui è piena la Divina Commedia, lo spiega bene Huang Guobin nell’apparato critico: «nella moltitudine dei grandi poeti dell’umanità Dante è ancora l’erudito tra gli eruditi, è l’essenza tra le essenze; chiosare la sua Divina Commedia è come chiosare un’enciclopedia: non si può evitare di parlare di astronomia, geografia, storia, società, mitologia, costumi, politica, teologia, filosofia, medicina, biologia, lingua, letteratura, critica letteraria».

 

Eppure, proprio la Divina Commedia, concepita dal connubio di tutte le discipline, rappresenta la massima manifestazione di quel chiasmo letterario ed enciclopedico che ancora oggi la Cina studia e auspica, in attesa del suo “Dante cinese”.

 

 

Per saperne di più:

Si suggerisce la lettura del volume di Giuliano Bertuccioli, Federico Masini, Italia e Cina, Laterza, Bari, 1996. In riferimento agli studi di traduzione, i contributi di A. Brezzi, Qian Daosun e il suo Inferno. La prima traduzione della Divina Commedia in Cina, in Caro Maestro… Scritti in onore di Lionello Lanciotti per l’ottantesimo compleanno, Cafoscarina, Venezia, 2005 e Il Novecento cinese di Dante in Critica del testo. XIV/3., Dante, oggi / 3. Nel mondo, Viella, Roma, 2011. Per approfondire: Ermanno Visintainer, Dante nella letteratura cinese, in Vox Populi, n.11, a.2006; Leonetta Bentivoglio, Così Dante Alighieri entrò nel Pantheon di Mao Zedong, La Repubblica, Roma, 10/09/2018; Giuliano Bertuccioli, Un melodramma di Liang Qichao sul Risorgimento italiano: Xin Luoma (La Nuova Roma). Introduzione, traduzione e note, in Catai, Comune di Venezia, Venezia, vol.1, n.2, a.1981. 

 

 

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«Libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta»

Per comprendere il senso intimo del Paradiso avevo dovuto studiare l’opera di San Francesco d’Assisi, la più grande anima prodotta dalla terra italiana, ed ecco mi trovavo dinanzi a uno dei suoi gregari che dopo più di sei secoli continuava la sua opera qui negli estremi del continente euro-asiatico […] il vero viaggio cominciava adesso.

L’uomo che riscoprì la libertà grazie a Dante. Così potrebbe essere definito Eugenio Zanoni Volpicelli, il diplomatico italiano che nel primo Novecento intraprese un viaggio in Oriente sulle tracce di Dante accompagnato da religiosi cinesi e giapponesi i quali, come Virgilio nella Commedia, lo affiancarono e guidarono nelle ricerche con il supporto della teologia francescana. Volpicelli non si era mai accontentato di ipotesi teoriche, o di rimandi testuali poco attendibili scientificamente, era alla continua ricerca di una vera e inconfutabile prova della presenza di Dante in Oriente.

 

Il fatto che non si rinvengano nella Divina Commedia riferimenti diretti al Catai, nome con cui era nota la Cina al tempo di Dante, ma soltanto accenni al mondo arabo e all’India è tanto più interessante se si ricorda che nel Trecento, un altro grande viaggiatore e contemporaneo di Dante, Marco Polo (1254-1324), con viaggi e descrizioni contribuì alla diffusione del pensiero orientale in Occidente. In molti si sono interrogati sul perché Dante non abbia menzionato Il Milione di Polo, l’ipotesi più verosimile è quella avanzata dal sinologo Giuliano Bertuccioli, secondo il quale tra l’esploratore e il poeta vi fu una certa indifferenza:

 

Erano infatti tutt’e due divenuti famosi perché reduci da grandi viaggi effettuati in mondi e dimensioni diverse: della fantasia, quello di Dante, che si era mosso in senso verticale, discendendo prima all'Inferno per risalire poi fino al Paradiso; della realtà, quello di Marco Polo, che si era mosso (a stare alle conoscenze geografiche del suo tempo) in senso orizzontale, dall'Europa alla Cina e viceversa. Difficile sarebbe stato per i due incontrarsi nel corso dei loro viaggi.

Anche Volpicelli, come Polo, è stato un grande viaggiatore e mediatore tra l’Italia e la Cina. Intermediario politico di alti ufficiali, responsabile dei rapporti pubblici tra le potenze mondiali e delegato italiano al servizio dell’impero cinese, insomma un diplomatico della più vera specie. Facendo affidamento in ogni incarico sull’uso intelligente delle parole, da semplice interprete e traduttore italo-cinese aveva arricchito il suo curriculum con lo studio e l’esperienza sul campo, passando dalle traduzioni ai colloqui consolari, alle negoziazioni. A testimonianza del suo operato restano gli scritti, i trattati su strategie e tattiche militari, traduzioni e saggi linguistici. Nel 1896 pubblica il testo critico Fonologia cinese, con l’obiettivo di risalire ai suoni originari dell’antico cinese e riscoprirne le sfumature tonali andate perdute. Nel 1991, traduce Le impressioni di un cinese in Italia, un estratto del diario di viaggio dell'ambasciatore cinese Hsie-Fu-Ceng e riscontra nella scrittura la difficoltà di trasporre quei concetti italiani privi di un corrispettivo cinese, tra i quali annovera anche la libertà.

 

[I cinesi] non hanno parole per esprimere “patria” o “libertà”; e noi dobbiamo impiegare similmente molte parole per tradurre il carattere cinese che esprima ‘il sentimento deferente e riverente del fratello minore verso il maggiore’ che costituisce una delle grandi virtù della morale cinese.

In breve tempo la fama di Volpicelli raggiunge anche i campi della linguistica e della filologia cinese. Nell'impiego alle dogane, invece, egli acquisisce quelle competenze ed esperienze che poi gli avrebbero permesso di arrivare a Hong Kong, Macao e Canton, le tre città che gli sarebbero state assegnate «prima come rappresentante consolare italiano, poi come console generale con le prerogative diplomatiche di competenza per tutta la Cina meridionale». Quando nel 1899 viene nominato console generale, il suo impegno a favore delle libertà dell'individuo non si limita più soltanto allo studio linguistico, ma si estende anche all'ambito giuridico e diplomatico, concretizzandosi nella lotta per l’abolizione della tortura nei processi cinesi.

 

Volpicelli traduce in cinese le teorie sull’utilizzo della tortura di Cesare Beccaria espresse nell’opera Dei delitti e delle pene e le invia ai personaggi più influenti di Hong Kong, Canton e Macao, con l’invito a distribuire l’opuscolo nelle alte sfere della corte imperiale cinese, a Pechino e Shanghai. Copie dell’opera - corredata da un fascicolo con annotazioni, riflessioni e suggerimenti dello stesso Volpicelli - arrivarono anche alle autorità provinciali e ai notiziari di Shanghai. Nel giugno 1906 con lo stesso fervore manifesta le sue convinzioni per l'eliminazione della tortura anche a New York. L'impegno per la tutela dei diritti dei prigionieri nell’Estremo Oriente raggiunge in breve tempo una dimensione internazionale. «C’era chi lo chiamava cavaliere, chi commendatore, chi comandante» racconta Eric Salerno, un'onomastica controversa e allusiva ad incarichi che ancora oggi restano nel mistero. Nonostante fosse considerato il rappresentante pubblico italiano più pratico di questioni dell’Estremo Oriente, Volpicelli apprese il vero senso della libertà soltanto dopo aver lasciato gli incarichi pubblici, quando nel 1914 ordini dall'alto lo costrinsero ad abbandonare il suo impiego a Hong Kong.

 

Esiliato dalla patria per cui tanto aveva lottato, Eugenio Volpicelli inizia in questi anni la riscoperta dell’esule poeta fiorentino, in cui tanto si riconosceva. Nel 1919, dopo aver constatato che molti dei suoi amici e religiosi non avevano mai studiato a fondo la terza cantica della Commedia, tiene un’intera conferenza sul Paradiso al Canton Christian College.

 

Dovendo descrivere il Paradiso percorso da Dante con Beatrice, fui costretto di far rilevare ai miei uditori che quella regione non era popolare e che i lettori si fermavano spesso all’Inferno o al Purgatorio trascurando o leggendo superficialmente la terza e più bella cantica.

La conferenza fu accolta molto positivamente, tanto che gli fu offerto di ripeterla per il pubblico cinese. «Questa per alcuni riguardi era più facile e per altri più difficile della prima», confessa Volpicelli, «molti cinesi non conoscono neppure il nome di Dante, quindi potevo risparmiarmi studi profondi di filosofia, teologia e letteratura comparata. Ma d’altra parte dovevo sforzarmi a trovare forme chiare e scegliere fatti salienti». Come conferma Masini ne L’Italia in Cina, «poiché i cinesi non ebbero mai il loro “Marco Polo”, poterono basarsi solo sulle fonti composte dagli stranieri sui loro paesi per conoscere la realtà dell’Occidente». Nonostante ciò, «coll’aiuto di proiezioni anche questa conferenza, data il 19 marzo 1919, dinanzi a un numeroso pubblico di studenti e studentesse cinesi, fu benevolmente accolta» annota Volpicelli.

 

La lettura di Dante salva il diplomatico nel momento più critico della sua vita, quando sembrava aver perso tutto ciò che aveva costruito nella sua carriera. La Divina Commedia l’aveva sollevato dai sospetti, dalle congetture e dalle inutili supposizioni che tanto lo avevano turbato:

 

Le mie letture confortatrici del grande poema, le mie conferenze dantesche, gli studi del buddismo che intensificavo nel momento del distacco, dell’addio dal paese dove avevo passato la maggior parte della mia vita, a cui avevo dedicato i miei migliori studi, per cui avevo anche esposto la vita a pericoli in parecchie occasioni.

Dopo anni difficili, grazie alle conferenze e le lecturae dantis inizia per il console una rinascita. Nel periodo vissuto in Oriente, egli aveva conosciuto e studiato la filosofia orientale e sempre più aveva visto in Confucio il Dante cinese. Tuttavia, per trovare conferma delle sue teorie, Volpicelli sceglie di intraprendere una sorta di pellegrinaggio letterario nelle missioni cinesi e giapponesi con un unico obiettivo e «un sol programma: cercare se anche l’Estremo Oriente potesse fornire informazioni e delucidazioni per lo straordinario Poema che ha occupato tante grandi menti italiane ed estere negli ultimi sei secoli». 

 

Durante il cammino alla ricerca di Dante egli entra nei luoghi di culto, si avvicina ai riti e le cerimonie locali, ma soltanto nei templi ritrova delle somiglianze con la concezione cristiana dell’aldilà, ipotizzate anche dallo studioso Federico Masini: «L’argomento del viaggio negli inferi, in compagnia di una guida, non è completamente estraneo alla cultura cinese: lo si ritrova infatti nella tradizione buddhista. Sia questa che una possibile lontana eco dell'opera di Dante ispirarono forse una novella composta in dialetto cantonese durante il secolo scorso» afferma Masini, che traduce e pubblica «sotto il titolo Una Divina Commedia cantonese». La storia a cui fa riferimento lo studioso racconta del viaggio di un poeta e di un intellettuale nell’oltretomba - «se la propria colpa è grave e non è stata espiata oppure se non la si è ancora espiata completamente, allora c’è la strada dell’inferno» si legge nella traduzione di Masini - e viene per l’appunto intitolata Una visita all’inferno da vivo. «Quando i soldati finivano di battere un dannato, lo trascinavano di fronte ad un funzionario che lo segnava su un libro e poi, in base alla sentenza del Dio degli Inferi, decideva dove mandarlo» si legge nel racconto. Nel corso del viaggio il protagonista riusciva però a salvare una penitente e a liberarla dalla pena a cui era condannata.

 

La novella trattava quindi la stessa tematica religiosa della prima cantica della Commedia, era giunta a Canton tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, all’interno dell’antologia Suyu qingtan (Racconti in lingua volgare) dello scrittore Shao Binru ed «ebbe a Canton ben otto ristampe dal 1870, anno della sua prima pubblicazione, fino al 1915». Tuttavia, di essa non si fa menzione nelle antologie letterarie ufficiali, né è citata tra le fonti dal console nei suoi studi.

 

La missione di Volpicelli rappresenta quindi un unicum nel suo genere e paradossalmente è proprio quando crede di aver perso tutto che grazie alla lettura di Dante riscopre il senso primario della libertà e compie il suo “viaggio dantesco” per la Cina, in tappe successive, memore dei preziosi suggerimenti ricevuti dai missionari cristiani cinesi e pronto a proseguire le ricerche sino in Giappone animato da una grande speranza: «vi era il gran sogno, ma che talora nelle regioni nebulose dello spirito rasentava la fede, di poter trovare nelle mie peregrinazioni in qualche tempio un capolavoro dell’arte religiosa buddista che potesse rischiarare di luce tangente le divine creazioni del nostro Poeta».

 

 

Per saperne di più: 

Per approfondire il processo di divulgazione della Divina Commedia in Oriente si propone la lettura dei contributi di Federico Masini, L’Italia in Cina, in La letteratura italiana in Cina, TIELLEMEDIA, Roma, 2008, pp. 187-205; La Divina Commedia in lingua cinese a Ravenna, in Mondo Cinese, n.98, a. 1994; Una “Divina Commedia” cantonese, in Mondo Cinese, n.73, a. 1991, pp. 27-48; e Giuliano Bertuccioli, Dante e la Cina, in Mondo Cinese, Fondazione Italia Cina, Milano, n°73, a.1991, pp. 7-15. Infine, si suggerisce la lettura del saggio di Eric Salerno da cui sono tratte le citazioni dell’articolo: Eric Salerno, Dante in Cina: la rocambolesca storia della Commedia nell’Estremo Oriente, Il Saggiatore, Milano, 2018.

 

 

Immagine di PublicDomainPictures da Pixabay Libera per usi commerciali, attribuzione non richiesta.

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Il poeta e l’interprete: storia di una passione dantesca

Ufficialmente è stato al servizio del governo cinese, prima interprete, poi diplomatico, infine console, appassionato di scacchi nonché grande conoscitore della lingua e cultura cinese, coinvolto in iniziative militari segrete: l'effettiva professione di Eugenio Volpicelli ancora oggi resta un mistero. 

 

È stato uno dei più grandi sinologi italiani, tra i primi ad aver diffuso la Divina Commedia in Oriente, coltivando la passione per Dante oltre l’attività diplomatica. È grazie a lui se nell’Ottocento in Cina iniziarono a circolare le prime traduzioni del poema dantesco, l’opera più rappresentativa della cultura italiana in Asia. A far luce su alcuni periodi oscuri della sua vita interviene il saggio di Eric Salerno, Dante in Cina: la rocambolesca storia della Commedia nell’Estremo Oriente, nel quale si ripercorrono i viaggi, le missioni diplomatiche e gli incontri politici di Volpicelli e della moglie Iside. Quello tra i due coniugi è stato un sodalizio affettivo e ideologico. Eugenio e Iside si sono sposati a Milano il 14 febbraio 1891, insieme hanno condiviso l’amore per Dante e per la patria, le missioni diplomatiche e i segreti di stato, nonché i viaggi, da Milano a Hong Kong, a Nagasaki e Macao. 

 

L’interesse per Dante sorge in lui in giovane età. La formazione di Volpicelli è affidata all’Istituto Orientale di Napoli, un unicum organizzato sul modello del Collegio dei cinesi, che costituisce la base per la sua attività diplomatica. Qui egli studia con profitto la letteratura italiana e le lingue orientali, per primo ottiene «una borsa di studio offerta dall’Istituto asiatico. E agli esami finali del 1881 si posizionò ancora una volta in testa alla classifica. Dieci decimi in persiano e arabo, lingua questa che fu incaricato di insegnare» riporta Eric Salerno. In quello stesso anno, appena diplomato, egli decide di abbandonare Napoli e di seguire il richiamo dell’Est.

 

Lasciai Napoli il 23 agosto 1881 e da allora, anche se spesso vi sono tornato, è sempre stato per brevi periodi, come visitatore, e dunque posso considerarmi e mi sono considerato residente dell’Estremo Oriente dove ho trascorso la parte maggiore e migliore della mia vita.

 

Volpicelli si interessava ai complotti della diplomazia e alle strategie politiche, praticava l’arte della guerra sfidando gli alti ufficiali a scacchi e wei ch’i, un gioco molto praticato in Giappone come esercizio di tattica militare, «istruttivo nell’arte della guerra». Si appassiona a tal punto da pubblicare due articoli su di essi per il Journal of the North China Branch of the Royal Asiatic Society di Singapore. «L’oggetto del gioco di wei ch’i può apparire molto facile, eppure sarà sufficientemente difficile portarlo a termine. Si tratta di occupare più spazio possibile sul tavolo e di impedire all’avversario di fare lo stesso» scrive nel 1892 e continua: «l’interesse del gioco non è concentrato in un posto come con gli scacchi, intorno al re, ma è sparpagliato ovunque sul tavolo, in quanto ogni singolo posto ha un effetto ugualmente importante nel risultato del gioco e conta nel totale finale che rappresenta la posizione delle due parti alla fine della lotta». Per concludere il gioco, «tradotto in termini militari, più che dare scacco matto al re bisognava puntare alla conquista del territorio». In ventotto pagine di spiegazioni e illustrazioni Volpicelli forniva le prime istruzioni di gioco del wei ch’i in una lingua europea, l’inglese. Se in Cina «lo veneravano come esperto degli scacchi cinesi», in Italia «lo idolatravano come uno dei primi ad aver compreso e descritto la struttura della lingua cinese, tra i simboli e le tonalità più diverse».

 

Egli arriva in Cina sul finire del diciannovesimo secolo e trova un paese profondamente diverso rispetto ai suoi studi, in piena crisi e in balia di conflitti interni ed esterni. Il suo primo incarico inizia nel 1882 ad Amoy, l’attuale Xiamen, porto strategico per le esportazioni di tè nel corso del Novecento. Qui, Volpicelli risiede per un lungo periodo, alternando visite alla capitale e ad altre città d’interesse coloniale, e racconta con orgoglio di una sua impresa compiuta in quegli anni che gli valse un importante impiego. Egli riuscì a circumnavigare a nuoto l’isola di Kulangsu – chiamata anche l’isola dei pianoforti per la più elevata presenza dello strumento musicale – prova della sua intraprendenza e coraggio, nonché di virtù.  L’episodio fu seguito dall’assegnazione di un nuovo mandato: si richiedeva la sua presenza come interprete nella missione imperiale cinese volta a ottenere un armistizio con la Francia per il comando del Tonchino. Volpicelli prese parte alla missione, coordinata dalle dogane dell’impero, e diede prova delle sue abilità dialettiche. «Ebbe diritto, in segno della gratitudine cinese, all’ordine del Doppio Dragone» nota Eric Salerno, Parigi invece «insignì Volpicelli della commenda del Dragone dell’Annam, creata ad hoc per chi aveva fornito assistenza durante le operazioni navali in quel settore del Sudest asiatico».

 

La sua fama era giunta ben presto anche in Italia, il suo volto si stagliava in primo piano sulle copertine delle riviste italiane, le sue imprese erano motivo di orgoglio e onore per il governo italiano. L’8 novembre 1885 è dedicata a lui la copertina Un mandarino italiano in Cina del settimanale L’illustrazione italiana dove appare un’immagine di Volpicelli, fotografato con un casco coloniale in testa, corredata dalla didascalia: «L’italiano Volpicelli e i plenipotenziari per la pace in Cina». L’articolo menzionava le missioni diplomatiche nel Tonchino e in Corea, alle quali aveva partecipato Volpicelli come interprete e mediatore degli interessi italiani, ottenendo per i suoi servizi una commenda cinese: 

 

In meno di un anno il signor Zanoni Volpicelli s’è reso talmente utile coll’opera sua che il governo cinese lo ha, in ricompensa de’ prestati servigi, nominato mandarino di 4a classe. Le classi dei mandarini sono sedici, in ordine dalla 1a alla 16a. Si può affermare che il grado onorifico conferito allo Zanoni Volpicelli non è mai stato accordato ad alcun europeo.

La carriera di Volpicelli però non fu sempre costellata da riconoscimenti e onorificenze. Ci furono anche momenti bui, periodi di sospetti, critiche e accuse che coinvolsero Volpicelli in intrighi diplomatici. In Gran Bretagna c’era molta attenzione al modo in cui circolavano le informazioni e venivano diffuse le notizie, soprattutto nell’ambiente diplomatico. Volpicelli, d’altro canto, si interessava a questioni appartenenti non soltanto alla sua sfera di competenza, ma dava suggerimenti anche in altri ambiti, come nel campo militare, consigliando con perizia strategie e nuove mosse, tattiche da esperto giocatore di scacchi e wei ch’i. Fu proprio questa sua curiosità a procurargli degli inconvenienti politici. Se nel 1885 Eugenio Volpicelli era ritenuto degno di una delle più alte onorificenze cinesi e stimato in tutta Europa, trent’anni dopo, nel 1914 per l’esattezza, il suo operato non era più ben visto in Occidente e fu in breve tempo allontanato dalla sfera pubblica. Abbandonati gli incarichi ufficiali, egli si dedica alla lettura e alla scoperta dell’opera di un grande poeta e scrittore, viaggiatore esiliato come lui dai pubblici offici: Dante Alighieri.

 

Come sottolinea il filosofo Aijaz Ahmad in Orientalismo e dopo (2009), «Dante è la figura centrale attraverso cui si possono gettare dei ponti fra l’Antichità e la modernità»,  questo perché, secondo la definizione dell’orientalista Edward W. Said, «la forza poetica di Dante contribuisce a intensificare e generalizzare questa prospettiva [Orientalista] dalla quale l’Oriente è contemplato». Volpicelli avrebbe condiviso la passione per il poeta fiorentino con suo cugino Francesco Torraca, celebre commentatore della Divina Commedia, che nei primi anni del Novecento era professore di letteratura comparata all’Università Federico II di Napoli. La passione per il sommo poeta lo accompagnò sin dagli inizi, già a Napoli da studente era solito frequentare salotti rinomati nei quali veniva letto Dante. 

 

Oltre l’attività di «interprete, diplomatico, storico e forse qualcos’altro, [Eugenio] si servì di una penna brillante per raccontare momenti importanti della sua avventura in Oriente e per spiegare ad altri diplomatici, ministri, re e principi, e poi alla gente comune, la realtà di quel mondo», di quella stessa penna si servì anche, e soprattutto, per tradurre Dante e farlo conoscere al pubblico cinese. «L’autore della Commedia fu sempre nel cuore e nella mente del nostro console generale» racconta Salerno.

 

L’amore per Dante era nato in Volpicelli da studi e ricerche, letture appassionate e ancora ricerche, Eugenio si era interessato alla vita del poeta in alcuni anni così simile alla sua, una carriera trascorsa al servizio del potere pubblico oscurata da false accuse di corruzione, l’allontanamento dalla propria patria più o meno forzato, la passione per i viaggi e le infinite peregrinazioni. Dante scrive: «Voi credete forse che siamo esperti d’esto loco; ma noi siam peregrin come voi siete», e anche Volpicelli, in definitiva, fu un pellegrino. Confrontando l’Alighieri e il Volpicelli, si notano molti punti di contatto tra le due esperienze biografiche: due uomini politici, il letterato e l’interprete, entrambi orfani fin da giovani, ma con una vasta rete di amicizie, i loro anni migliori spesi tra l’otium litterarum e il negotium. Dal 1319 al 1321 anche Dante era stato ambasciatore, a Venezia, al servizio del signore di Ravenna Guido da Polenta. Comune anche l’interesse per le strutture della lingua, italiana per il poeta, cinese per il console, e per i numerosi dialetti coesistenti, alla ricerca di una lingua comune.

 

Nel 1942, è Anna Silvia Bonsignore, giornalista per L’Ambrosiano milanese di Umberto Notari, che nell’elzeviro Sull’italiano creato mandarino racconta all’Italia della passione dantesca di Volpicelli e segnala anche un suo viaggio in Cina alla ricerca di Dante. Volpicelli riscontra delle «similarità tra la carriera di Dante e quella del grande saggio cinese Confucio», al punto tale da intraprendere una traduzione della Commedia in lingua cinese. Egli aveva ritrovato nei testi filosofici cinesi echi del poema dantesco, che si traducevano in raffigurazioni, simboli e descrizioni strettamente legati alla Commedia. Si legge da un originale autobiografico del diplomatico:

 

Durante i lunghi anni d’esilio. Durante la terribile guerra, scoraggiato dai tristi e sicuri presagi dell’ingratitudine e del tradimento che ci aspettava alla fine dei nostri insuperabili sacrifizi subiti a esclusivo benefizio dei capitalisti esteri, unico mio conforto era stata la lettura di Dante amorosamente guidata dal chiarissimo e pratico commentario di Francesco Torraca. Quindi quando il Circolo per Conferenze del “Canton Christian College” formava il programma per l’anno 1919 e mi chiedeva di inaugurare la serie delle conferenze, scelsi per soggetto Dante e Beatrice. La conferenza fu fatta il 14 febbraio 1919, il giorno di San Valentino, l’anniversario del mio matrimonio e lo telegrafai a mia moglie. Formava un tutto armonico e coerente.

 

Esattamente un secolo fa, in Cina, Eugenio Volpicelli rivelava al mondo la sua passione per l’opera dantesca, celebrando l’amore di Dante per Beatrice proprio nel ventottesimo anniversario del suo matrimonio, simbolo del duplice legame, affettivo e letterario, che lo univa indissolubilmente al sommo poeta.

 

Per saperne di più:

Si consiglia la lettura del saggio di Eric Salerno da cui sono tratte le citazioni dell’articolo: Eric Salerno, Dante in Cina: la rocambolesca storia della Commedia nell’Estremo Oriente, Il Saggiatore, Milano, 2018. Per approfondire il processo di divulgazione della Divina Commedia in Oriente si propone la lettura dei contributi di Federico Masini: Una “Divina Commedia” cantonese, in Mondo Cinese, n.73, a. 1991, pp. 27-48 e La Divina Commedia in lingua cinese a Ravenna, in Mondo Cinese, n.98, a. 1994; sui rapporti storico-letterari tra l’Italia e la Cina, si suggerisce il volume di Giuliano Bertuccioli, Federico Masini, Italia e Cina, Laterza, Bari, 1996. Sull’orientalismo si propongono i testi: E. W. Said, Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1991; A. Ahmad, Orientalismo e dopo, in M. Mellino (a cura di), Post-orientalismo, Meltemi, Roma, 2009.

 

 

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Alice Munro tra natura e letteratura

«La strada è a nord della casa; a est c’è un grande campo aperto; a sud il fiume, con una piana e un argine scosceso; a ovest, davanti alla casa, una bellissima veduta del paesaggio circostante». Il 10 luglio 1931, in una casa a mattoni nella cittadina di Wingham, Ontario, nasce la scrittrice Alice Munro, primogenita di Anne e Robert Laidlaw. Il paese e il paesaggio d’origine, insieme alla casa d’infanzia, costituiscono gli scenari privilegiati dall’autrice per l’ambientazione dei suoi racconti. La potenza della scrittura si manifesta nel descrivere tutto ciò che le è, e le è stato, vicino fisicamente; mentre ripensa a un particolare luogo, anche se appartiene ormai al ricordo e alla memoria, Alice ne coglie le singolarità. L’abitazione dove è nata e cresciuta, ad esempio, è l'ambientazione privilegiata dall'autrice, descritta in ogni singola parte nel racconto A casa. Munro tratteggia un quadro domestico partendo dai più piccoli particolari, dalle assi del soffitto alla carta da parati.

 

Allora ci pensavo come a un posto che avrei potuto non vedere mai più e il ricordo mi commuoveva molto. Vagavo mentalmente per le sue stanze. Sono tutti vani piccoli e, come succede nelle vecchie fattorie, non progettati per sfruttare l’esterno ma, al contrario, per ignorarlo il più possibile […] vedevo anche il soffitto della cucina, fatto di strette assi scanalate, tutte nere di fumo, e l’infisso della finestra mangiucchiato da un cane che era rimasto chiuso dentro prima che io venissi al mondo. Sulla carta da parati si riconoscevano le chiazze pallide di un camino difettoso, e mia madre ridipingeva il linoleum ogni anno in primavera, finché ci riuscì. Sceglieva sempre colori scuri – marrone, verde, blu –, poi con una spugna lo decorava a macchie gialle o rosso vivo.  

Il focalizzarsi sui dettagli è finalizzato alla circoscrizione dell’ambiente, dello spazio domestico che ricorda all’autrice un mondo familiare. È proprio dietro questa attenzione alle minuzie che si celano le azioni e le vite dei personaggi, dietro ogni sfumatura di colore sulla parete si nasconde un «finché riuscì» di sua madre, affetta dalla malattia.

 

Il legame inscindibile dell’autrice con le sue origini si evidenzia in maniera esemplare nel secondo racconto del “trittico di Munro”, Fra poco, che costituisce il sequel di Fatalità, di cui si è parlato nel precedente articolo. La protagonista delle vicende è sempre Juliet, ormai adulta: ha venticinque anni, vive a Whale Bay con Eric e da lui ha avuto una figlia, Penelope Porteous. Fra poco inizia raccontando un viaggio compiuto da Juliet nel 1969, quando ritorna con sua figlia nella città dove era nata e cresciuta, in Ontario. Una località molto simile a Wingham, il cui nome però non verrà mai rivelato nel corso della narrazione.

 

Nel passaggio dalla costa occidentale a quella orientale del Canada la protagonista riscopre il calore della sua terra: «i finestrini erano ancora abbassati; il vento caldo riempiva la macchina. Era piena estate: una stagione che, secondo Juliet, non arrivava mai sulla costa occidentale». Anche l’ambiente floristico è diverso, la fitta giungla del nord, fatta di boschi intricati e poderosi arbusti, è sostituita da una vegetazione più ordinata e in armonia con lo spazio circostante, «le latifoglie si curvavano in fondo ai prati scavando grotte d’ombra nero-azzurra, mentre le messi e i campi davanti a loro, sotto il sole a picco, alternavano l’oro al verde. Giovani piante di rigoglioso grano e orzo e granturco e fagioli – da far male agli occhi». Quando Juliet ritorna in questi luoghi sconfinati ricorda la sua adolescenza vissuta all’aperto, immersa nella natura, a contatto con la bellezza così primigenia e incontaminata della terra: «si fermarono in un paesino costruito su un’unica strada in una valle stretta. Dalle pareti dei versanti spuntavano massi di roccia fresca: era il solo posto per chilometri e chilometri dove fossero visibili rocce di quelle dimensioni».

 

Il paesaggio bucolico della campagna le si para davanti agli occhi, ne può percepire gli odori, i profumi, quell’aroma naturale che non era riuscita a dimenticare durante la sua vita in città: «i finestrini davanti erano abbassati e Juliet sentiva l’odore del fieno appena tagliato e imballato – nessuno faceva più i covoni di fieno ormai. Svettava tuttora qualche olmo isolato: autentiche rarità». In una lettera ad Eric aveva scritto: «qui il caldo è stupefacente in confronto alla costa occidentale. Anche quando piove». Un Canada idillico nelle sue sfumature, ma arcaico, nel riflesso della tradizione.

 

Juliet ritrova sé stessa nel paesaggio, ma non nella mentalità della sua città, ancora restia ai cambi di vedute, profondamente conservatrice e diffidente delle novità. Ritornare nel paese della sua infanzia significa per Juliet incontrare la sua famiglia, i suoi genitori, Sara e Sam, e far conoscere loro la nipote Penelope, nata al di fuori del matrimonio. «L’accoglienza che la sua vecchia terra riserva a Juliet e alla bambina nata fuori dal matrimonio è quella che ci si può aspettare da una cittadina rurale e bigotta», afferma la studiosa Marisa Caramella.

 

I genitori vanno a prenderla alla stazione del paese vicino per evitare i commenti; il padre ha dovuto lasciare il lavoro a scuola per via della scelta laica e anticonformista della figlia; il farmacista, vecchio compagno di scuola di Juliet, le fa qualche avance, seppur velata, e commisera la scelta obbligata del padre […] i genitori hanno staccato dalla parete il poster di un quadro di Chagall da lei mandato in regalo perché “troppo moderno”, imbarazzante […] e, dulcis in fundo, il pastore che viene a trovare la madre a casa sfida Juliet sulla scelta che ha fatto di non battezzare la figlia e di volerla far crescere “da pagana”. 

 

Juliet non comprende la sua famiglia, che sa adeguarsi agli stereotipi della gente comune, alle loro “false credenze”: «Tu non capisci» tenta di spiegare al padre. «Non ti rendi conto di quanto sia stupido tutto questo, e di come faccia schifo il posto in cui vivi, dove la gente dice cose del genere, e di come se raccontassi la vicenda alle persone che conosco io non mi crederebbero». 


Il duplice rapporto con l’ambiente, positivo verso il paesaggio, e conflittuale nei confronti della società, si ritrova anche nella biografia dell’autrice. Quando nel 1956 Munro trasloca con la sua famiglia nella West Vancouver, in un quartiere più benestante e facoltoso, ha difficoltà ad ambientarsi nella nuova casa. Alice accetta con fatica le case sempre più sfarzose e borghesi che il marito acquista per lei, conosce infatti le condizioni economiche della sua famiglia d’origine e il senso di colpa per averla abbandonata la divora nel profondo dell’animo: «Cresciuta in povertà, non era a suo agio nel livello di benessere e nel materialismo sfrontato degli anni Cinquanta […] Era quello che voleva mio padre, non lei. Come poteva vivere in relativo lusso, mentre suo padre lottava per sopravvivere come guardiano notturno in una fonderia a Wingham, dopo il fallimento dell’allevamento di volpi e visoni?» scrive la figlia Sheila.

                                                                                                                    

La casa a West Vancouver rispecchiava la personalità di mio padre, i suoi gusti, il suo interesse per la musica e l’arte… Mia madre era diversa. La ricordo intenta a scavare nel terriccio con un grosso cucchiaio d’argento in modo discontinuo, o a controllare che i nasturzi che aveva piantato stessero crescendo. Non aveva preso possesso della casa, come mio padre. 

 

«Le città del nostro passato mostrano come il fatto dell’abitare sia un problema complesso» spiega Philippe Daverio, un problema «che non può essere il prodotto di un piano stabilito univocamente, ma che si costruisce con l’azione quotidiana di ogni individuo e di ogni cittadino. Azioni non sempre motivate esclusivamente da problemi di ordine pratico, ma spesso anche spirituale e simbolico». Come Anne e Robert Laidlaw non riuscirono a comprendere la partenza di Alice da Wingham, così nel racconto Fra poco i genitori di Juliet, Sara e Sam, non capiscono le motivazioni della loro figlia. «Purtroppo, tua madre e io non viviamo dove stai tu» le ricorda il padre irremovibile: «È qui che abitiamo». Un'affermazione definitiva, che condensa il triplice rapporto che lega la famiglia, la protagonista Juliet e l'autrice con la natura e l'ambiente: un legame indissolubile con il luogo dove si è vissuto, che spesso influenza e determina le scelte più importanti della vita.

Juliet decide a tal punto di abbandonare l’Ontario e ripartire per l’Ovest.

La storia si conclude con un finale tipicamente incerto, «una conclusione inaspettata, quasi incongrua», la definisce Caramella.

 

Juliet ritornerà dalla sua famiglia profondamente cambiata pochi mesi dopo, per il funerale della madre Sara: «pensò che allora doveva essersi verificato un cambiamento del quale poi si era dimenticata. Un cambiamento che riguardava l’idea di casa» spiega Munro. «“Casa” non era a Whale Bay, con Eric, ma dove era stata prima per tutta la vita. Perché sono le cose che succedono a casa, quelle che cerchi di proteggere, meglio che puoi, più a lungo che puoi».

 

Per saperne di più

Si consiglia la lettura dell’antologia: Alice Munro, Racconti, Milano, Mondadori, 2013; e dell’introduzione all’opera a cura di Marisa Caramella. Per approfondire le vicende biografiche di Alice Munro si propone il testo di Sheila Munro, Lives of Mothers and Daughters. Growing Up with Alice Munro, Toronto, McClelland&Stewart, 2001. Sul rapporto tra natura e letteratura si suggeriscono i contributi di Flavio Caroli, Philippe Daverio e Sebastiano Vassalli, riuniti nell’opera Le anime del paesaggio, Milano, Interlinea, 2013.

 
 

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Ekphrasis canadesi. La descrizione in Alice Munro

Secondo la definizione dell’Enciclopedia Treccani, il termine descrizióne, dal lat. descriptio -onis, designa «l’atto del descrivere e le parole con cui si descrive». Si può «fare la descrizione di una regione», o «di un’opera d’arte»; essa può essere «fedele, efficace, pittoresca, realistica, vivace, fredda» e così via.

 

Prendendo in esame i racconti della scrittrice premio Nobel Alice Munro, si nota  come le descrizioni contenute al loro interno riescano ad essere fedeli, efficaci, pittoresche, realistiche, vivaci e fredde allo stesso tempo; l’autrice non si limita a descrivere un personaggio, una regione o un’opera d’arte, ma condensa nell’opera letteraria l’esistenza che racconta, attraverso il filtro descrittivo. Le descrizioni di Alice Munro reinterpretano in chiave contemporanea l’uso antico dell’Ekphrasis, ossia di «un discorso descrittivo che pone l'oggetto sotto gli occhi con efficacia», contraddistinto «dall’enàrgeia, la forza di rappresentazione visiva», che si palesa in Munro soprattutto nelle descrizioni di luoghi. Ambientazioni dai colori spenti, delle tonalità del grigio, si alternano a scenari dai toni caldi e accesi, descrizioni vivaci di paesaggi incontaminati, spesso ignoti alla presenza umana perché fuori dai sentieri più battuti, perlopiù luoghi della campagna e della provincia canadese. L’ambientazione dei racconti non si riduce così all’interno o all’esterno di un’abitazione, ma amplia i più consueti  confini domestici, si estende a spazi più reconditi e inaccessibili, a volte lontani e solitari, a volte vicini e familiari, arriva a comprendere una geografia di luoghi non comuni.

 

Località intime per l’autrice, i cui nomi si rivelano al lettore in una mattina di giugno del 2004, quando compaiono per la prima volta sulle pagine del New Yorker tre racconti: Fatalità, Fra poco e Silenzio. È il cosiddetto “trittico” di Alice Munro – che poi confluirà nella raccolta In fuga (2004) – dove si descrive «l’intero territorio del Canada, e l’intero territorio dell’immaginazione dell’artista» (M. Caramella, Storie «inventate dal vero». L’enigma Alice Munro, p. 46). La trilogia mostra al pubblico la straordinaria capacità dell’autrice canadese di narrare il rapporto simbiotico tra l’uomo e la natura, che si manifesta soprattutto nelle descrizioni paesaggistiche, le quali rievocano «ricordi lontani nel tempo, che ritornano con una chiarezza e una vivacità impossibili da ottenere prima, nell’età matura, quando la quotidianità e le necessità del vivere impediscono di analizzare troppo a fondo gli eventi del passato, quelli traumatici, ma anche quelli apparentemente innocui», come sottolineato dalla studiosa Marisa Caramella.

 

Ci soffermeremo ora sul primo racconto del trittico, Fatalità, che costituisce la prima tappa del percorso di crescita ed evoluzione, psicologica e intellettuale, della protagonista Juliet, presente in ciascuno dei tre racconti, la quale cerca di adattarsi ai luoghi in cui va ad abitare con modalità del tutto simili a quelle sperimentate dall’autrice nel corso della sua carriera, di cui si è parlato negli articoli precedenti (parte prima, parte seconda). Juliet ha ventun anni, una laurea in lettere classiche e una tesi di dottorato in svolgimento quando decide di accettare, per un semestre, l’incarico di insegnante di latino e greco alla Torrance House, un liceo privato femminile di Vancouver. Fatalità racconta il periodo successivo all’insegnamento di Juliet, che si avvia con la descrizione del viaggio della protagonista in autobus da Vancouver a Whale Bay.

 

Se da un punto di vista temporale i racconti di Munro si collocano solitamente nel presente, o comunque in un tempo ancora vivo nella memoria, la narrazione di Fatalità procede invece per analessi e prolessi: agli spostamenti spaziali della protagonista corrispondono sospensioni temporali, pause narratologiche che evidenziano l’ineluttabilità della sorte, la fatalità degli avvenimenti, il destino che si rivela nella casualità degli incontri.

 

L’incipit della narrazione è costituito da una lettera in cui si ritrovano riferimenti al clima e alla vegetazione del Canada. «Cara Juliet, che te ne pare del nostro clima sulla costa occidentale? Se pensi che a Vancouver piova tanto, raddoppia la dose e ti farai un’idea di quel che succede quassù». Per sei mesi Juliet aveva vissuto «in mezzo ai prati e ai giardini di Kerrisdale, con lo spettacolo delle montagne a settentrione visibili come un sipario ogni volta che il cielo si schiariva» e, prima di tornare alla quotidianità, voleva scoprire il clima del freddo nord. Così, Juliet prende il primo autobus da Vancouver diretto verso Horseshoe Bay e decide di raggiungere il suo amico di penna Eric Porteous, pescatore di gamberi, originario di Whale Bay. La fatalità caratterizza la narrazione che prende avvio da un tragitto in autobus, poi imbocca trame che conducono ad altre strade, più contorte e inesplorate, ma che permettono di ampliare lo spettro geografico degli spazi per arrivare alla destinazione successiva, che all’inizio del racconto sembra la più improbabile.

 

La storia di Juliet si dipana infatti in direzioni opposte, così come contrapposti sono i territori che vi corrispondono: da un lato la città di Vancouver, dal lato opposto Whale Bay, molo canadese a nord di Vancouver, sulla costa occidentale. Munro descrive con dovizia di particolari il passaggio repentino dall’ambiente urbano a quello rurale. «Come si fa in fretta – ancor prima di raggiungere Horseshoe Bay – a passare dalla grande città alla terra selvaggia» ammette Juliet, scorgendo dal finestrino la foresta pluviale. «Una vera foresta, non il bosco di un parco, ti inghiotte. E da quel momento: acqua e rocce, alberi bui, muschi». La folta vegetazione si estende fittissima nel paesaggio, sino a raggiungere le abitazioni, lontane dalle vie di comunicazione principali:

I paesi dove si ferma l’autobus non sono affatto centri organizzati. Certe volte raggruppano insieme grappoli di monotone villette, case popolari costruite da qualche impresa locale, ma per lo più le abitazioni assomigliano a quelle isolate nei boschi, ciascuna col suo cortile caotico, come se fossero state erette una accanto all’altra per puro caso. Niente strade lastricate, tranne la statale che taglia il paese, non un marciapiede. Non un edificio solido per ospitare l’ufficio postale o il municipio, non una bella teoria di negozi, pensati per attirare lo sguardo. Niente monumenti ai caduti, fontane pubbliche, giardini fioriti. Ogni tanto un hotel, che ha l’aria di essere soltanto un bar. Ogni tanto una scuola moderna, un ospedale: decorosi, ma bassi e insignificanti come capannoni industriali.

Un paesaggio completamente diverso rispetto a quello che appariva a Juliet, sei mesi prima, quando affacciandosi dal finestrino del vagone poteva scorgere il Canada rurale, il Canada degli spazi sconfinati in armonia con la natura, la tipica vegetazione della taiga:

Rocce, alberi, acqua, neve. Questi elementi, disposti in modi sempre nuovi, costituivano lo scenario esterno di un finestrino del treno, una mattina tra Natale e Capodanno. Le rocce erano grandi, talvolta sporgenti, talvolta lisce come massi levigati, grigio scuro o decisamente nere. Gli alberi erano per lo più sempreverdi: pini, abeti, cedri. Gli abeti – abeti neri – mostravano in cima certe crescite ad alberello, simili a miniature di sé stessi. I non sempreverdi erano spogli e scheletrici: potevano essere pioppi, larici oppure ontani. Alcuni avevano il tronco chiazzato. La neve alta incappucciava la sommità dei massi e foderava il lato degli alberi esposto al vento. Formava una bella coltre liscia sullo specchio di numerosi laghi gelati, di varie dimensioni. L’acqua era sgombra dal ghiaccio solo in qualche torrente stretto, scuro e impetuoso.

Il paesaggio descritto da Munro muta la sua conformazione, cambia chioma chilometro dopo chilometro ed è influenzato dalla temperatura: «meno di centocinquanta chilometri più avanti, il clima pareva essersi mitigato. I laghi erano solo orlati, non più coperti, di ghiaccio. L’acqua nera, i massi neri sotto un cielo di nuvole invernali riempivano l’aria di tetraggine».

 

Nel corso della narrazione un flashback permette di scoprire le motivazioni della partenza inaspettata di Juliet, ritornando a quando, sei mesi prima, aveva preso un treno e si era trasferita dalla sua città natale a Vancouver per insegnare. Nel viaggio di andata verso Vancouver in treno, Juliet aveva assistito al suicidio del suo vicino di carrozza e aveva incontrato “fatalmente” l’amico di penna Eric Porteous. Sarebbe questo il motivo della partenza di Juliet da Vancouver, dopo sei mesi, su un autobus diretto al nord, alla costa occidentale: rivedere quell’anonimo passeggero che l’aveva colpita allora.

 

Quando Juliet arriva finalmente alla costa occidentale, a Whale Bay, scopre però un paesaggio inaspettato, dalle proporzioni esagerate per la sua figura. «Gli alberi, troppo grandi, si ammassano l’uno sull’altro rinunciando a una personalità propria per confondersi semplicemente in una foresta. Le montagne sono spropositate e improbabili, mentre le isole a galla sulle acque del Georgia Strait risultano stucchevolmente pittoresche. Questa casa, coi suoi ampi locali, il soffitto spiovente e il legno grezzo, è spoglia e sgraziata». Dalle descrizioni emerge l’approccio conflittuale dell’autrice stessa con i luoghi narrati, la parola acquisisce un ulteriore valore connotativo nel momento in cui allude agli eventi biografici di Munro, alla crisi psicologica provocata dall’eccessiva vicinanza alla foresta pluviale di Vancouver, quando viveva in «uno strano stato d’ansia che le faceva temere di non riuscire più a respirare; non riusciva più a credere, letteralmente, che a un respiro potesse seguirne un altro», come scrive la figlia Sheila. Tuttavia, «il paesaggio occidentale, della frontiera canadese, continuerà a presentarsi nei suoi racconti, con sempre maggiore sicurezza», osserva Caramella, «come peraltro le descrizioni delle lunghe traversate da Est a Ovest e viceversa, creando, se si sommano gli episodi del genere nei vari racconti, il vero e proprio “romanzo” di un continente».



«Chi vorrebbe mai vivere in un posto dove si è costretti a dividere il territorio con animali feroci e ostili?» si chiede Munro nelle ultime pagine di Fatalità. Una domanda che Munro rivolge in primis a se stessa, e nel racconto a Juliet che, come l’autrice, alla fine accetta di spostarsi in un nuovo territorio, a Whale Bay, per restare accanto ad un uomo:

È così che succede. Ritiri ogni cosa per qualche tempo, e di tanto in tanto dai un’occhiata dentro l’armadio in cerca d’altro e allora te ne ricordi e ti dici: fra poco. Poi diventa un oggetto che è là, nell’armadio, e vi si affollano davanti e sopra altre cose, e finisci col non pensarci nemmeno più. Proprio a ciò che consideravi il tuo luminoso tesoro. Non ci pensi. Una perdita che in passato ritenevi insopportabile è diventata qualcosa che a stento ricordi. È così che succede […] Sono poche, pochissime, le persone che hanno un tesoro, perciò se ce l’hai devi tenertelo stretto. Non devi lasciarti imbrogliare e fartelo portare via.

Dopo aver attraversato l’intero continente per andare a insegnare nella British Columbia, Juliet incontra Eric Porteous mentre è intenta ad osservare il paesaggio da una carrozza panoramica: proprio come accade a Munro con John Metcalf, così la protagonista, (riprendendo la definizione di Beccaria dell’articolo precedente), dopo aver scoperto il paesaggio, scopre l’uomo, un passeggero che mesi dopo decide di seguire nella Whale Bay, senza pensare a ciò che avrebbe lasciato a Vancouver e rinunciando così alle sue prospettive future. I riferimenti geografici ai luoghi che hanno segnato la protagonista, Juliet, possono essere ritrovati nella biografia di Munro stessa. «Ciò che rende così evidente e straordinaria la crescita artistica di Munro è proprio la familiarità del suo materiale», afferma Jonathan Franzen. «L’uso che l’autrice fa di materiale autobiografico» sottolinea Caramella,  «le fasi della sua carriera, difficili da identificare con precisione ma contraddistinte da spostamenti geografici, i cambiamenti stilistici, i passaggi dal realismo all’uso dell’ipotetico, del possibile e dell’immaginario, sembrano indicare che la sua frase vada proprio interpellata alla lettera», in senso letterale, e figurato al tempo stesso. Munro descrive la storia e geografia del suo Canada, ma (più o meno inconsapevolmente) racconta soprattutto la storia della sua vita.

 

La storia di Juliet ed Eric non si conclude nel primo racconto, ma prosegue con i racconti Fra poco e Silenzio della trilogia. Attraverso l’uso delle descrizioni l’autrice introduce l’idea, che sarà poi ripresa nei due racconti successivi, che la realizzazione esistenziale passi attraverso l’esplorazione di luoghi ancora inesplorati, con i quali i personaggi si devono confrontare per assumere maggiore consapevolezza della propria identità. Nel 2016, nelle sale esce il film Julieta, diretto da Pedro Almodóvar e basato sulle vicende narrate in Fatalità, Fra poco e Silenzio, tre anni dopo la vittoria del Nobel di Alice Munro.

 

 

Per saperne di più:

Per la lettura del trittico si consiglia l’edizione seguente: Alice Munro, Racconti, Milano, Mondadori, 2013. Le informazioni biografiche sono tratte dalle opere di Sheila Munro, Lives of Mothers and Daughters. Growing Up with Alice Munro, Toronto, McClelland&Stewart, 2001; Catherine Sheldrick Ross, Alice Munro. A Double Life, Toronto, ECW Press, 1992; e Robert Thacker, Alice Munro – Writing Her Lives: A Biography, Toronto, McClelland&Stewart, 2005; Reading Alice Munro 1973-2013, Calgary, University of Calgary, 2016. Sul ruolo della descrizione nei racconti di Alice Munro si suggerisce la lettura dei contributi Commoventi dejà vu tessuti nei ricordi di Alice Munro e Una irrinunciabile intimità con i margini di Marisa Caramella, e la recensione di Jonathan Franzen: Alice Munro raccontata da Jonathan Franzen.

 

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L’adattamento della scrittura al paesaggio in Alice Munro: l’isola Victoria e il ritorno a Huron County

[Leggi la prima parte]

 


«Feci i bagagli, misi in vendita la casa e trasferii le bambine tutt’altro che entusiaste in una casetta in affitto davanti a Beacon Hill Park […] Tutti dicevano che non era possibile guadagnarsi da vivere vendendo libri. Io ripresi a respirare». Nel 1963, Alice Munro decide di vendere la propria casa a Vancouver e aprire una libreria, nell’isola Victoria. Una scelta semplice, ma rivoluzionaria, che migliora positivamente la sua salute fisica e la sua scrittura, e che cinquant’anni dopo, nel 2013, la porterà alla vittoria del Nobel per la letteratura.

 

Durante la permanenza all’isola Victoria finalmente Alice Munro si sente a casa, scompaiono gli attacchi di panico e tutti i sintomi della depressione. L'isola Victoria non è distante da Vancouver, ma totalmente differente dalla terraferma: un rifugio sicuro, in un territorio incontaminato, dove le abitazioni non sono accerchiate dalla foresta pluviale, ma hanno un proprio spazio vitale. Come spiega Robert Thacker, per Munro, Victoria è molto più simile all’Ontario che non Vancouver, «le ricorda le città del passato, un passato di quartieri vissuti, alberi frondosi, drogherie d’angolo con il tendone a strisce». L’ambiente isolano favorisce l’ispirazione, il paesaggio diventa «una proiezione, uno schermo dentro al quale l’uomo e l’artista proiettano la propria visione del mondo», sottolinea Flavio Caroli. Munro supera il blocco della scrittura lavorando nella libreria e parlando di letteratura con i clienti; inizierà così una delle stagioni più produttive per lei.

 

Dieci anni dopo l’arrivo a Victoria, nel 1973, la scrittrice divorzia dal marito Jim e abbandona anche la British Columbia per ritornare in Ontario. «È solo quando decide di lasciare il marito e la costa occidentale per tornare all’Est e inquadrare ricordi, persone e fantasmi nel paesaggio ristretto dell’Ontario, o addirittura della Huron County, che la scrittrice rivela la pienezza del suo talento» afferma Marisa Caramella. Sulla costa orientale, Munro ritorna a descrivere il Canada rurale, il Canada delle colline e dei viali alberati, il paesaggio della campagna. Le motivazioni dietro questa scelta saranno rivelate dall’autrice soltanto nel 1997:

 

La ragione per cui scrivo così spesso del paese a est del lago Huron è che amo quel luogo. Significa per me qualcosa che nessun altro paese, non importa quanto storicamente importante, o “bello”, o vivace, o interessante, potrà mai significare. Sono innamorata di quel particolare paesaggio, dei campi quasi piatti, delle paludi, del bush, dei boschi, del clima continentale con i suoi inverni bizzarri, eccessivi. Mi sento a casa tra le costruzioni di mattoni, i granai cadenti, le rare fattorie dotate di piscina e di campo di atterraggio, gli agglomerati di roulotte, le vecchie chiese ingombranti, i Wal-Mart e i Canadian Tire. (Alice Munro, Introduzione a Selected Stories, 1997) 

 

Il trasferimento nella Huron County simboleggia un ritorno alla vita da artista. Iniziano gli anni Settanta, arriva la pubblicazione di Lives of Girls and Women (1971), primo romanzo di Munro, che nello stesso anno vince il Canadian Booksellers Award. L'autrice in questo periodo può contare sull’appoggio, lavorativo e sentimentale, di John Metcalf. È «grazie alla relazione con Metcalf [che] l’autrice è ora in grado di osservare, oltre che vivere, la vita dello scrittore». Secondo Gian Luigi Beccaria, linguista e critico letterario, esistono due categorie di scrittori: «c’è chi scopre prima l’uomo e chi scopre prima il paesaggio. C’è chi comprende il mondo a partire dagli altri, dai suoi simili, e chi riesce meglio ad afferrare la totalità dell’essere a partire dalla terra». Nel caso di Munro, l’autrice riscopre la propria identità sia attraverso l’uomo, John Metcalf, scrittore e critico letterario, sia grazie a uno stretto legame con la terra, con il paesaggio rurale del Canada.

 

Nel 1975, Munro incontra Gerald Fremlin, ex compagno di università, laureato in Geomorfologia e, dopo una breve frequentazione, decide di trasferirsi da lui, nella città di Clinton che, essendo molto vicina a Wingham, riporta l’autrice ai luoghi della sua infanzia, immersi nella natura. Munro utilizzerà gli studi storici e geologici effettuati da Fremlin per documentarsi sul territorio di alcune zone dell’Ontario e qui ambienterà il testo Places at home. Il ritorno a casa descritto è un ritorno ai luoghi della Huron County, al paesaggio delle verdi praterie e degli edifici a mattoni, molto simile a Wingham, dove l’autrice ritrova la sua giovinezza. Clinton è l’altrove, così diverso dalla Columbia, ma che la riporta alle sue origini. In questo paese trova una nuova casa e riconosce di avere una famiglia.

 

Non solo Alice è tornata a Huron County, ai luoghi della giovinezza, ma anche alle incombenze domestiche di allora: vivere con Fremlin comporta occuparsi della madre, della casa; abitare vicino a Wingham significa preoccuparsi per il padre malato di cuore, conoscere la donna che ha sposato. Ma la coppia trova il tempo per coltivare un orto e un giardino e fare escursioni nei dintorni, anche notturne, con gli sci. Durante una di queste, la visione di un cumulo di neve che copre una forma misteriosa serve da spunto per un nuovo racconto, Raptus.

 

Questo dimostra, come sostiene Beccaria, che «in ogni caso il paesaggio non vive in sé. Non vive che dentro l’uomo e dentro l’interpretazione dell’artista. Uno scrittore, un pittore, quando vuole dipingere un paesaggio o un personaggio, lo crea da sé, lo ritrova in sé stesso». Nella nuova vita, in una nuova città e in un’abitazione più modesta rispetto agli edifici di Vancouver, ma nel paesaggio tipico dell’adolescenza, i ricordi di Munro diventano più vividi e reali. Nella sua produzione si può osservare un intreccio definito, con episodi che tornano ripetutamente in più racconti; tuttavia, la struttura narrativa non genera un impoverimento dei contenuti, ma tesse invece le fondamenta di una scrittura d’ambiente, innovativa e originale, con frequenti metamorfosi dello spazio e della psiche. 

 

Le storie di Munro, più o meno autobiografiche che siano, sono strettamente intrecciate alla memoria e al ricordo di luoghi esplorati e inesplorati, alcuni vissuti, altri solamente immaginati, dall’Ovest all’Est, e viceversa. «Nella narrativa di Alice Munro sono le vicende dei personaggi a primeggiare. Ed è il paesaggio geografico e culturale, più di quello politico o sociale, a fare da sfondo a tali vicende» conferma Caramella, «la lingua di questa dettagliata geografia, di esterni e di interni, la lingua di Alice Munro, è in definitiva la lingua materna». Una lingua che rievoca le forti passioni della sua gioventù, da figlia, le difficoltà dell’età adulta e del suo esser moglie e madre, una lingua che esprime le gioie e le paure della maternità, «quella [lingua] impossibile da dimenticare, e difficile da ricordare se evoca dolore, sofferenza, inquietudine o senso di colpa». Se gli anni Settanta avevano rappresentano l’affermazione di Alice Munro tra le migliori scrittrici canadesi, gli anni Ottanta e Novanta consacrarono definitivamente il successo dell’autrice a livello internazionale. A chi le domandava in quali altre zone del Canada avrebbe ambientato i suoi racconti, rispondeva: «scrivo di dove sono nella vita».

 

 

Per saperne di più:

Si suggeriscono i testi critici di Sheila Munro, Lives of Mothers and Daughters. Growing Up with Alice Munro, Toronto, McClelland&Stewart, 2001 e di Catherine Sheldrick Ross, Alice Munro. A Double Life, Toronto, ECW Press, 1992, che analizzano la biografia di Munro da un punto di vista femminile. Per un’interpretazione maschile, si propone la biografia scritta da Robert Thacker, Alice Munro – Writing Her Lives: A Biography, Toronto, McClelland&Stewart, 2005 e, dello stesso autore, l’opera Reading Alice Munro 1973-2013, Calgary, University of Calgary, 2016.

Per approfondire il rapporto tra letteratura e paesaggio, si consigliano gli studi di: Georg Simmel, Saggi sul paesaggio, Roma, Armando Editore, 2006; Michael Jakob, Paesaggio e letteratura, Firenze, L. S. Olschki, 2005; Giorgio Bertone, Letteratura e paesaggio, Lecce, Manni, 2001. Tra i contributi più recenti: Flavio Caroli, Philippe Daverio e Sebastiano Vassalli, Le anime del paesaggio, Milano, Interlinea, 2013; Fabrizio Schiaffonati, (a cura di), Le anime del paesaggio: spazi, arte, letteratura, Novara, Interlinea, 2013.

 

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L’adattamento della scrittura al paesaggio in Alice Munro: da Wingham a Vancouver

Il 10 ottobre del 2013 i giurati dell’Accademia di Stoccolma annunciano la vittoria di Alice Munro, è l’ennesimo riconoscimento ottenuto dalla scrittrice, ma il più importante: il Nobel per la letteratura. «Mi ero dimenticata di questa cosa, ma è meraviglioso» furono le prime parole dell’autrice, una volta appresa la vittoria del Nobel. Già nel 2009, al Trinity College di Dublino, Munro era arrivata tra i finalisti del Man Booker International Prize, e anche allora era stata proclamata vincitrice per la sua capacità di adattare la scrittura alle situazioni vissute e al paesaggio circostante, rivelando una natura ambivalente, dalla potenza incontrollata, che domina gli spazi sconfinati, ma che sa anche restringersi e convertirsi nelle superfici più ristrette.

 

Munro nasce nel quartiere povero della città di Wingham, in Ontario, e trascorre la sua adolescenza a stretto contatto con la natura incontaminata e gli spazi sconfinati della Huron County, «una terra incantata» la definisce Robert Thacker, «fuori dal tempo e dallo spazio». Quando l’autrice vi ritorna, da adulta, alle immagini sfocate e indefinite dei ricordi sovrappone descrizioni ora più veritiere, ora più reali, che inserisce nei racconti e di cui parla con maggiore lucidità: «quando ci sono tornata, ho visto tutto quanto da un punto di vista sociologico, e i ricordi che avevo mi sono apparsi, in un certo senso, molto più crudi, anche se, per la verità, non erano mai stati dolci». La nozione del paesaggio si connota infatti «in ragione di una sempre più ampia aggettivazione e specificazione», conferma Fabrizio Schiaffonati nell’introduzione a Le anime del paesaggio, «un termine che in tale ampiezza semantica ben si adatta a comprendere connotati salienti della modernità, come indeterminazione, incertezza, evanescenza di limiti e confini». La modernità entra nelle storie di Munro, l’autrice dimostra un vero talento nell’inventare soluzioni originali, situazioni autentiche che delineano i mutamenti dell’essere nello spazio e nel tempo.

 

Il desiderio dell’altrove genera nell’autrice la necessità di spostarsi verso nuove terre, dalla cittadina di Wingham a Vancouver, in direzioni geografiche e culturali sempre nuove, dalla British Columbia alla Huron County. Il bisogno di esplorare contagia anche molti dei suoi personaggi, i quali diventano, come l’autrice, instancabili viaggiatori. Si realizza così nella produzione narrativa di Munro un ampliamento di orizzonti, che si estende a comprendere aree periferiche, zone marginali, regioni di confine, dove la natura manifesta la sua veste incontaminata e dove i personaggi maturano nuove consapevolezze, strettamente connesse con i luoghi a cui appartengono. A livello spaziale, si passa dal paesaggio circoscritto alla città di Wingham, con la casa d’infanzia e le strade percorse dall’autrice bambina, a quello vasto e sconfinato della Huron County. L’autrice focalizza l’attenzione sui dettagli paesaggistici, soprattutto su quelli che ad una prima lettura possono apparire insignificanti, ma che si rivelano poi fondamentali nella narrazione per guidare il lettore all’interno del racconto. «La natura in questo modo si presenta allo spettatore all’interno di una mediazione che passa attraverso la poetica del soggetto che la narra» osserva Schiaffonati.

 

Mediazione che sempre si trasmette sotto le spoglie di un orizzonte illusivo e contemporaneamente allusivo. Illusivo nei confronti dello spettatore esterno, inconsapevole del dato originario, costretto ad un vero e proprio affidamento nei confronti dell’opera d’arte. Allusivo in quanto la lettura artistica non può mai essere neutrale, porta sempre un’aggiunta di senso, un vissuto che non è implicito nel dato originale. Lo sguardo del pittore, la matita del poeta non si limitano a ritrarre, ma schiudono mondi vissuti, interpretati, veri.
(F. Schiaffonati, introduzione a Le anime del paesaggio, 2013, p. 9) 

La scrittrice osserva il paesaggio con lenti di colore sempre diverso, attinge al proprio bagaglio di esperienze personali per fotografare la realtà, e nelle sue sfumature vi coglie la complessità delle cose.  «La complessità delle cose – delle cose dentro le cose – mi sembra infinita […] non c’è niente di facile, niente di semplice» rivela l’autrice. La piccola città dell’Ontario in cui è nata costituisce l’ambientazione privilegiata per gran parte dei suoi racconti. Fin dalle prime raccolte Munro cerca di mascherare Wingham con altri nomi, chiamandola ora Dalgleish, ora Jubilee, Hanratty o Maitland, cita invece le città di Vancouver e Victoria. I biografi di Munro motivano questa decisione con la scelta dell’autrice di evitare che persone reali si potessero identificare nei personaggi, altre posizioni critiche ipotizzano il carattere fittizio dell’ambientazione, secondo la studiosa Marisa Caramella, invece, «la verità è che la sicurezza di sé della Munro viene meno proprio quando ambientazione e personaggi rispecchiano una parte della sua vita che suscita in lei sentimenti ambigui, spesso contraddittori, qualche volta dilanianti». Negli anni Cinquanta, infatti, Munro decide di fuggire dalla sua città: ha solo diciotto anni quando sceglie di trasferirsi nella città di London per frequentare la University of Western Ontario, due anni dopo abbandonerà definitivamente Wingham per seguire Jim Munro a Vancouver e sposarlo.

 

Quando Alice lascia Wingham e la casa materna, nel 1951, per sposare Jim Munro e trasferirsi a Vancouver, la sua è una vera e propria fuga dalle incombenze domestiche, dall’ambiente angusto, dalla povertà, e dalla madre già malata. Diventa a sua volta madre, continua indefessa a scrivere nei ritagli di tempo, e il senso di colpa per aver lasciato la madre si sposta su sé stessa in quanto madre, su tutto ciò che sottrae alle figlie per dedicarsi all’arte. (M. Caramella, Storie «inventate dal vero», L’enigma Alice Munro, 2013, p. 21)

 

A Vancouver, dove è la moglie di Jim Munro, il paesaggio ritorna a condizionare la sua scrittura e la sua vita. Munro inizia a dubitare del proprio talento, delle proprie capacità, sente di non appartenere al luogo in cui abita; non riesce a adattarsi alle condizioni climatiche né al paesaggio del Canada occidentale, paesaggio ostile, che influenza e limita la sua creatività. «La nostra storia, la nostra formazione, le nostre città, i nostri territori trasmettono al nostro stesso DNA la capacità di essere inventivi» sottolinea Philippe Daverio. La British Columbia, del resto, si discosta di molto dal tipico paesaggio dell’Ontario. Munro racconta la diffidenza verso il territorio selvaggio, l’oceano minaccioso, l’insofferenza alle precipitazioni continue e insistenti. Sheila, la figlia, ricorda:

Mia madre non amava la pioggia e il buio che fanno inevitabilmente parte del clima di Vancouver. E aveva una strana sensazione riguardo ai cespugli fitti che circondavano la casa e agli abeti neri che incombevano poco distante, le sembrava che la foresta stesse cercando di ingoiarla. […] Era un paesaggio estraneo, e il limitare della foresta pluviale doveva sembrarle claustrofobico […] dopo gli spazi ampi, aperti, dell’Ontario rurale, la luminosità dei campi coperti di neve in inverno. Cespugli e alberi parevano proteggere qualche presenza malevola, qualcosa che la spiava dal folto.

 

L’idea di paesaggio come «insieme di forze naturali, mosse da una volontà soprannaturale, che tende a dominare l’uomo e a cui l’uomo, nei limiti del possibile, cerca di adattarsi» è propria di Sebastiano Vassalli che in Letteratura e paesaggio. Il nulla e il paesaggio nelle nostre storie ragiona sul rapporto uomo – natura. «La natura con i suoi paesaggi non fa che riflettere gli aspetti e gli atteggiamenti dell’animo umano, e tutti i paesaggi del mondo corrispondono a qualcosa che è dentro di noi, alle nostre virtù o ai nostri difetti». Il paesaggio, ricorda Schiaffonati, si deve interpretare proprio in quanto «sistema articolato che si trasforma e si modifica secondo i criteri di un’umanità vivente, secondo la stratificazione complessa delle storie di chi lo abita, i gesti individuali di coloro che vi sono passati».

 

L’approccio conflittuale dell’autrice con l’ambiente ha serie conseguenze a livello psicologico; Vancouver blocca non solo la sua creatività di scrittrice, ma anche la sua salute fisica: Munro inizia ad avere disturbi d’ansia, attacchi di panico, precipita in uno stato di angoscia e insicurezza psicologica, di depersonalizzazione. Il senso di estraneità e di lontananza si trasmette anche alla sua produzione artistica. L’ambientazione dei racconti cambia bruscamente. La narrazione si sposta «da Ovest a Est a Ovest, e dagli anni dell’infanzia a quelli della piena giovinezza e ancora a quelli dell’adolescenza». Insieme, i luoghi descritti rappresentano l’itinerario fisico e psicologico percorso dall’autrice alla ricerca del senso di appartenenza ad un luogo, un ambiente familiare in cui trovare l’ispirazione per continuare a scrivere. La natura e il paesaggio diventano così «le quinte di una rappresentazione teatrale» (M. Caramella), dove Alice Munro continua a scrivere, ma in uno stato di «costante disperazione» (R. Thacker). La situazione d’incertezza vissuta si rispecchia nei finali dei racconti ambientati a Vancouver, che restano da un lato sospesi e ambigui da non poterne interpretare il senso letterale, ma dall’altro lato permettono al lettore di scegliere cosa sia davvero possibile. «Voglio staccarmi da quello che è successo» afferma Munro, «per arrivare alla possibilità che succeda altro, all’idea che la vita non sia fatta solo di accadimenti, di cose accadute… ma di tutte le cose che succedono nella fantasia, quelle che sarebbero potute succedere, il tipo di vita alternativa che sembra quasi accompagnare quella che noi chiamiamo la nostra vera vita».

 

[Leggi la seconda parte]

 

 

Per saperne di più:

Si suggeriscono i testi critici di Sheila Munro, Lives of Mothers and Daughters. Growing Up with Alice Munro, Toronto, McClelland&Stewart, 2001 e di Catherine Sheldrick Ross, Alice Munro. A Double Life, Toronto, ECW Press, 1992, che analizzano la biografia di Munro da un punto di vista femminile. Per un’interpretazione maschile, si propone la biografia scritta da Robert Thacker, Alice Munro – Writing Her Lives: A Biography, Toronto, McClelland&Stewart, 2005 e, dello stesso autore, l’opera Reading Alice Munro 1973-2013, Calgary, University of Calgary, 2016.

Per approfondire il rapporto tra letteratura e paesaggio, si consigliano gli studi di: Georg Simmel, Saggi sul paesaggio, Roma, Armando Editore, 2006; Michael Jakob, Paesaggio e letteratura, Firenze, L. S. Olschki, 2005; Giorgio Bertone, Letteratura e paesaggio, Lecce, Manni, 2001. Tra i contributi più recenti: Flavio Caroli, Philippe Daverio e Sebastiano Vassalli, Le anime del paesaggio, Milano, Interlinea, 2013; Fabrizio Schiaffonati, (a cura di), Le anime del paesaggio: spazi, arte, letteratura, Novara, Interlinea, 2013.

 

 
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Un giardino di libri per superare la crisi

Guardate cosa riesce a fare con la sua piccola storia: più ci ritorna sopra, e più cose scopre. Munro non è una giocatrice di golf sul campo pratica. È una ginnasta con un semplice body nero, sola sul pavimento nudo, che surclassa tutti i romanzieri con il loro armamentario di costumi sgargianti, fruste, elefanti e tigri.        [tratto da Alice Munro raccontata da Jonathan Franzen]

Ha dedicato la vita alla letteratura Alice Munro, ha scritto racconti, romanzi, è stata insegnante di scrittura creativa nelle migliori università canadesi, leggendo e correggendo le bozze dei suoi allievi, non ha mai smesso di occuparsi di storie, di riflettere sul processo della scrittura e sulle qualità che dovrebbe possedere uno scrittore, o un libraio, sempre pronta a consigliare un nuovo libro da dietro gli scaffali della sua libreria, la Munro's Books.

 

Ai libri ha dedicato la sua esistenza e proprio nei libri ha trovato un punto di riferimento nei momenti più difficili, un’ancora di salvezza nei periodi di crisi. La Munro’s Books apre nel 1963, quando la famiglia Munro vende la casa a Vancouver per trasferirsi nell’isola Victoria, proprio a seguito di un periodo di difficoltà vissuto dalla scrittrice, le cui ragioni più profonde sono state analizzate nell’articolo L’adattamento della scrittura al paesaggio in Alice Munro: l’isola Victoria e il ritorno a Huron County. «Feci i bagagli, misi in vendita la casa e trasferii le bambine tutt’altro che entusiaste in una casetta in affitto davanti a Beacon Hill Park» racconta Munro, «tutti dicevano che non era possibile guadagnarsi da vivere vendendo libri. Io ripresi a respirare». Vendere libri diventa la sua professione, e proprio i libri  saranno le medicine più efficaci per superare il blocco della scrittura. Alla libreria arrivano infatti offerte di lavoro per l’autrice, che inizia così a tenere corsi di scrittura all’università e torna a lavorare ad alcuni bozzetti: «ho quasi dimenticato di essere una scrittrice» (R. Thacker, p. 182), confessa alla casa editrice Ryerson.

 

Quando nel 1966 il marito, Jim Munro, decide di traslocare per l’ennesima volta, l’autrice fa sempre più fatica ad allontanarsi, soprattutto dalla propria libreria: «quando ci trasferimmo in quella casa, contro la mia volontà, ero incinta di otto mesi, e qualcosa accadde. Qualcosa si ruppe» (Ross) confesserà poi. Munro continua a scrivere ed insegnare, ma la lontananza dalla libreria influenza la sua ispirazione e la sua produzione. McGrath, editor del New Yorker, legge il suo racconto I Chaddeley e i Fleming e  afferma: «non so se sia o meno autobiografico, ma la mia sensazione è che lei abbia preso il materiale della reminiscenza e l’abbia fatto diventare qualcosa di molto più forte, un commovente, complicato racconto» (Thacker, p.369).

 

La complessità narrativa non appartiene però ai racconti di Munro, che nella sua produzione tende a seguire una trama consolidata e lineare. Lo scrittore Jonathan Franzen all’invarianza tematica fa corrispondere un’evoluzione psicologica dei personaggi. Secondo Franzen, «La storia che Munro continua a raccontare è questa: una ragazza sveglia», che «cresce nelle campagne dell’Ontario in una famiglia modesta» e «si sposa giovane, si trasferisce nella British Columbia», può infine avere «qualche avventura romantica». L’evoluzione caratteriale avviene in lei «quando, inevitabilmente, ritorna in Ontario, [e qui] scopre trasformazioni sconvolgenti nel paesaggio della sua giovinezza».

 

«Il paesaggio non è uno sfondo, non è una scenografia», sottolinea Jean Bukowski, «la natura è una protagonista, un soggetto con cui si dialoga, con cui ci si relaziona, indispensabile nella lotta senza fine per la definizione della propria identità» [Il Canada e i luoghi di Alice Munro]. Un’identità in continua definizione, secondo Franzen, «per il fatto che il mondo della sua giovinezza, un mondo di consuetudini e usanze antiquate, si erga ora a giudice delle sue scelte moderne. Cercando semplicemente di sopravvivere come persona integra e indipendente, ha subito perdite e stravolgimenti dolorosi; ha causato sofferenza».

 

L’affermazione sociale della figura femminile è in continuo divenire, come è stato possibile evidenziare nei primi due racconti del trittico. Nell'ultimo racconto, intitolato Silenzio, è invece l'evoluzione psicologica a manifestarsi in modo preponderante. La storia si sviluppa nuovamente a Vancouver e prende avvio dall’allontanamento di Penelope, figlia di Juliet, dalla casa materna per un radicale cambiamento spirituale. Dopo sei mesi di distacco, la madre decide di farle visita allo Spiritual Balance Center, una comunità religiosa di Denman Island. Significativa è la descrizione che Alice Munro riporta della loro chiesa per litoti, una chiesa non antica, non solenne, né protetta o tutelata:

 

In breve, Juliet si trovò a parcheggiare davanti a una vecchia chiesa – o meglio, all’edificio di una chiesa che poteva avere un’ottantina d’anni, intonacato a stucco, non certo antico né in alcun modo solenne come spesso erano le chiese in quella parte del Canada in cui era cresciuta Juliet. Alle sue spalle si ergeva una costruzione più moderna dal tetto spiovente, con una teoria di finestre sulla facciata, più un semplice palcoscenico, qualche panca e un probabile campo da pallavolo con la rete floscia. La trascuratezza regnava sovrana e il terreno, un tempo sgombro, stava subendo l’invasione di pioppi e ginepri. [Alice Munro, Silenzio, p.1390]

 

L’ambientazione assume un valore connotativo. La chiesa, trascurata esteriormente dall’uomo, abitata dalla natura selvaggia, rappresenta la dimensione spirituale della vita, a cui la protagonista non aveva prestato attenzione nell’educazione religiosa della figlia. Ad essa si contrappone invece la struttura moderna, dotata di servizi e immune all’invasione arborea di pioppi e ginepri, simbolo del rinnovamento interiore della figlia Penelope. È proprio in questo luogo che Juliet viene a sapere da Joan, la direttrice del complesso, che sua figlia l’aveva abbandonata alla ricerca della propria spiritualità senza lasciar traccia di sé:

 

Juliet: Dov’è? Dov’è andata?                               
Joan: Questo non posso dirglielo.                             
Juliet: In che senso? Non può o non vuole?       
Joan: Non posso. Non lo so. Posso dirle una cosa però, che dovrebbe tranquillizzarla. Dovunque sia andata, qualunque decisione abbia preso, sarà la cosa giusta per lei. La cosa giusta per la sua spiritualità e la sua crescita […] quando parlo di crescita, mi riferisco a quella interiore, ovviamente. [Alice Munro, Silenzio, p.1392]

 

Joan rimprovera a Juliet di non aver trasmesso alla figlia alcun insegnamento religioso. L’assenza di Penelope determina, nella vita della protagonista, un totale distacco dalla realtà. Juliet inizia a vivere nella continua attesa della figlia e questo provoca in lei una serie di disturbi psicologici: «le capitavano improvvisi scoppi di pianto, ogni tanto tremiti incontrollabili, ma li superava con brevi accessi di furia durante i quali girava per casa, battendosi un pugno nel palmo della mano». Juliet si assume la responsabilità di questa perdita, ma ad essa non sa dare giustificazioni concrete. Come sottolinea la studiosa Marisa Caramella, «diventa chiaro che la protagonista attribuisce la ragione di quell’abbandono alla decisione che ha preso di far mancare a Penelope “il cibo dell’anima”, la spiritualità». L’addio della figlia è motivato dalle scelte di Juliet, di non contrarre un matrimonio, di vivere laicamente, di tralasciare la religione respingendo qualsiasi credo sia per lei che per la sua famiglia. Il periodo di silenzio tra madre e figlia, ma anche tra Juliet e la sua memoria (a cui imporrà più volte di dimenticare), è un periodo che l’autrice lascia intendere durerà per tutta la vita.

 

Tutte le foto di Penelope furono relegate in camera sua, insieme a fasci di disegni a matita e carboncino che risalivano a prima di lasciare Whale Bay, ai suoi libri, e alla caffettiera mono tazza a pressione, comprata come regalo per Juliet con i primi soldi guadagnati lavorando d’estate da McDonald’s. Nonché certe stravaganze per la casa, tipo il minuscolo ventilatore di plastica da attaccare al frigorifero, il trattore giocattolo caricato a molla, la tenda di gocce di vetro per la finestra del bagno. La porta di quella stanza venne chiusa e, con il passare del tempo, fu possibile passarvi davanti senza turbamenti. [Alice Munro, Silenzio, p.1398]

 

In alcuni momenti, però, Juliet si abbandona ai ricordi dell’infanzia di Penelope, memorie che non avrebbe più potuto condividere né con sua figlia, né con suo marito Eric, che in questo racconto si ricorda annegato durante un’escursione in barca a causa del cattivo tempo. Anche per il funerale di suo marito aveva preferito «una cerimonia semipagana», che permettesse di bruciarne il corpo. Così – senza dir nulla alla figlia – Juliet gli diede addio con un rogo sulla spiaggia, poi si trasferì da Whale Bay a Vancouver dove iniziò la sua nuova vita con Penelope. Caramella, studiando la produzione di Munro, indica questo episodio come fondamentale per capire il senso del racconto: «L’autrice ipotizza che la vera ragione del silenzio di Penelope sia stata il silenzio di Juliet sulla morte del padre, e che la scomparsa della figlia sia la punizione per l’altro silenzio, quello del mancato “sì” alla madre morente, collegando così questo al racconto precedente. E rivela, senza raccontarla, la portata del proprio, personale, imperdonabile silenzio».

 

Confrontando la trama della storia con la biografia della scrittrice, si riscontrano diversi punti di contatto: nello specifico, la trasposizione di particolari biografici in forma narrativa si evidenzia dalla densità di rimandi e riferimenti testuali alla vita di Munro. «Basta citare singole parole, una per tutte l’aggettivo “pagano”, ripetutamente contrapposto a “spirituale” per segnare il tradimento della protagonista (e della scrittrice) nei confronti della religione dei padri, e delle madri», sottolinea Caramella. I trasferimenti da una costa all’altra del Canada costituiscono le tappe di un cammino di crescita, evoluzione e presa di consapevolezza del sentire di appartenere ad un luogo, ad un paese o una città da poter considerare casa. Se si analizzano quindi in successione i racconti del trittico di Munro, si può ben comprendere la determinante influenza del paesaggio e dei luoghi, a volte alleati e a volte nemici, nella produzione letteraria dell’autrice, tra successi e sconfitte.

 

Il trittico «è di nuovo il “romanzo” dell’intero percorso reale, mentale, intimo o addirittura inconscio, artistico, di Alice Munro. E le descrizioni del paesaggio, o le osservazioni sulle caratteristiche geologiche, o climatiche, sempre legate a stati d’animo, mai superflue o incongrue, accompagnano questo percorso facendo anche, del trittico, la storia, almeno geografica, di un continente» (Caramella, p.146). Munro ha scritto la storia geografica del suo Canada, ma (più o meno inconsapevolmente) ha scritto soprattutto la storia della sua vita. 

 

Per saperne di più

Sheila Munro, Lives of Mothers and Daughters. Growing Up with Alice Munro, Toronto, McClelland & Stewart, 2001.

Catherine Sheldrick Ross, Alice Munro. A Double Life, Toronto, ECW Press, 1992.

Flavio Caroli, Philippe Daverio e Sebastiano Vassalli, Le anime del paesaggio, Milano, Interlinea, 2013.

Fabrizio Schiaffonati, (a cura di), Le anime del paesaggio: spazi, arte, letteratura, Novara, Interlinea, 2013.

 

 

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Su il sipario donne, in scena!

Uno squarcio si apre improvvisamente tra le mura domestiche e lascia intravedere una società cambiata nel profondo, una luce vivissima oltrepassa le pareti e illumina la scena, appaiono distintamente delle figure femminili, sono loro le nuove protagoniste delle rappresentazioni teatrali. È il 1973 e con lo spettacolo Mara, Maria, Marianna Dacia Maraini inaugura a Roma il Teatro della Maddalena, un teatro militante al femminile che dà l’avvio ad un cambiamento di percezione nel mondo teatrale. Si inizia a fare teatro in nuovi spazi, alla giusta distanza da ciò che si pretendeva nei teatri ufficiali, si va oltre il “sistema” teatro scegliendo luoghi che permettano un rapporto diretto con il pubblico a favore di un’arte più prossima alla realtà e con una prospettiva esistenziale più viva.

 

Con il Teatro della Maddalena inizia una profonda ricerca letteraria a fini didascalici che auspica un rinnovamento sociale: nascono nuovi laboratori di formazione, dalla regia agli aspetti tecnici, si creano nuovi ambienti in cui vengono forniti gli strumenti essenziali per avvicinare al teatro le donne italiane. Bisogna considerare che allora non esistevano registe in teatro, né musiciste o drammaturghe; in pieno clima post sessantottesco la scelta dell’autrice è stata rivoluzionaria e determinante. Il teatro marainiano è soprattutto un teatro d’intervento, di lotta e di denuncia delle discriminazioni di genere, «contestando la situazione attuale della donna, [Maraini] crede nella forza della ragione, nella presa di coscienza femminile come punto di partenza per un radicale rinnovamento delle strutture sociali» – spiega Maria Grazia Sumeli Weinberg in Invito alla lettura di Dacia Maraini. Fare teatro significava quindi indagare i rapporti profondi tra l’individuo e la collettività attraverso la sacralità dell’arte drammaturgica per educare ad una maggiore consapevolezza dell’altro, come Dacia Maraini conferma ne Il sogno del teatro. Cronaca di una passione assoluta: «Il teatro di strada nasceva dalla nostra voglia di rimboccarci le maniche e fare qualcosa per “cambiare la testa alle persone”, come dicevamo fra noi, ma anche per testimoniare dei disagi e delle ingiustizie».

 

Nel 1991 a Firenze viene inaugurato il Teatro delle Donne, un nuovo centro di drammaturgia che presenta un teatro ideato, scritto ed eseguito interamente da donne e con delle novità strutturali. «È da allora che emerge la novità di una drammaturgia delle donne che affronta la scena da un’angolazione diversa, quella delle donne appunto» osserva  Maria Cristina Ghelli, curatrice del catalogo che raccoglie oltre mille dei testi teatrali appartenenti al Teatro delle Donne, «i testi non sono più diversi solo perché affrontano problematiche specificamente femminili: la maternità, la vita domestica, ma perché affrontano argomenti sociali e di attualità dal loro punto di vista, che è un punto di vista nuovo».

 

Può il teatro intervenire nel cambiamento di una società? O non può che essere il riflesso passivo di una data situazione sociale?
Interessante è il punto di vista del regista con cui la Maraini ha più volte lavorato nella compagnia Teatroggi, Bruno Cirino, che attribuisce al suo teatro un ruolo politico quando tratta temi «non necessariamente politici ma di rottura». La studiosa Elisabetta Strickland in Il teatro come strumento di prevenzione della violenza contro le donne considera il teatro marainiano «tra le vie per arginare e prevenire femminicidio, violenza, aggressività», sia sul piano della prevenzione, sia «per la sua azione liberatoria, formativa, educativa». Facendo teatro si può dunque cambiare il mondo?
«Forse no» – risponde la Maraini – «ma si può aiutare qualche testa a riflettere. Si può svegliare qualche coscienza, si può suscitare qualche nuovo pensiero, qualche sospetto, qualche moto di sdegno o di protesta. Forse questo era possibile, così pensavamo in quei giorni mentre correvamo da una scuola a un mercato, da una piazza ad una stazione organizzando le nostre rappresentazioni di teatro di strada».

 

Nel 2007 viene pubblicato Passi affrettati. Testimonianze di donne ancora prigioniere della discriminazione storica e famigliare, un progetto di drammaturgia dal tono documentaristico che coniuga l’impegno femminista di Dacia Maraini con le storie di violenza denunciate da Amnesty International per la campagna mondiale Mai più violenza sulle donne. Il testo teatrale comprende dieci delle numerose storie vere raccolte da Amnesty International in giro per il mondo, i passi affrettati descritti sono quelli di donne e di bambine che fuggono da queste storie di violenza. La finalità didattica insita nell’opera è evidenziata dallo studio critico di Strickland:

Queste storie [...] hanno lo scopo di far cogliere il fatto che la violenza è trasversale e percorre tutti i continenti. In esso tutto è concitato come quei “passi affrettati” che hanno le donne in fuga da situazioni di violenza famigliare o da discriminazioni ataviche, dalle persecuzioni di uomini o clan che, defraudati del loro potere sul mondo femminile, reagiscono al peggio. È proprio Dacia Maraini con questo suo testo a descrivere in modo efficace il potere del teatro come luogo che sancisce la lingua del dialogo e pertanto estremamente importante per combattere la violenza contro le donne.

 Dall’America all’Asia, dal Tibet all’Italia, l’autrice rivela un sistema sociale che legittima la violenza sui minori con le “leggi dei padri”, basate su tradizioni e usi locali e non tiene in considerazione le normative giuridiche in vigore. Nel 2011, infatti, il Consiglio d’Europa ha emanato la Convenzione di Istanbul che all’articolo 12.5 stabilisce che «la cultura, gli usi e i costumi, la religione, la tradizione o il cosiddetto “onore” non possano essere in alcun modo utilizzati per giustificare le diverse forme di violenza, reputando di conseguenza l’inammissibilità della cosiddetta cultural defence». Dacia Maraini sottolinea il ruolo educativo e civile della drammaturgia nel denunciare la violenza e soprattutto nel cercare di prevenirla, prendendone coscienza con la rappresentazione teatrale.

 

Il teatro è lo scenario dove avviene un percorso evolutivo, un processo letterario che guida lo spettatore verso una maggiore consapevolezza di sé e dell’altro, una graduale presa di coscienza del vero e del falso che si nasconde nei linguaggi, nei comportamenti umani, nelle rappresentazioni sceniche. La stretta coerenza tra l’azione teatrale e la realtà empirica mostra e dimostra come le azioni dei personaggi siano facilmente sostituibili con quelle reali, perché «il mondo che gli attori si sono costruiti è quello “reale” delle loro quotidianità, il solo, quindi in cui possono rappresentare sé stessi liberamente»:

Noi viviamo con la storia. Vorresti essere fuori della storia? Sarebbe anormale. Oggi la realtà è talmente complessa, talmente complessa, che nessuno riesce ad afferrarla. Non riescono nemmeno a darle un nome. Capisci? La realtà forse è sempre stata complessa, ma prima non ne avevamo coscienza. Adesso sì. Di conseguenza, la vita si fa doppia, tripla, inconoscibile, misteriosa, torbida (Il ricatto a teatro, 1970).

Soltanto un “teatro di parole” come quello della Maraini è in grado di raccontare il mondo femminile utilizzando la parola come lama letteraria che seziona la realtà nelle sue sfaccettature.

Lo scrittore deve farsi testimone del suo tempo, raccontandone perciò anche le ingiustizie, le stoltezze, i soprusi, la distruzione del territorio: tutto ciò, insomma, che gli appare sbagliato o ingiusto. Gli strumenti che ha a disposizione sono la parola e l’immaginazione che è anche la capacità di immedesimarsi, di vivere il dolore degli altri. Soltanto così può raccontare una verità, che non sarà la verità con la V maiuscola, ma una verità che sente propria e profondamente necessaria (Dacia Maraini, Ho sognato una stazione: gli affetti, i valori, le passioni, 2005).

 

 

Per saperne di più:

Dacia Maraini, Passi affrettati. Testimonianze di donne ancora prigioniere della discriminazione storica e famigliare, Pescara, Ianieri Editore, 2007.

Amnesty International, Mai più: fermiamo la violenza sulle donne, Torino, EGA,2004.

 

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Il dialogo Bohr-Kierkegaard

Due teorie per spiegare l’esistenza umana, ai confini della fisica e della filosofia

 

Dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, in un orizzonte culturale che abbraccia insieme la fisica e la filosofia, due pensatori si ritrovano a dialogare a più di un secolo di distanza sulle forze chimiche ed esistenziali che spingono l’uomo alla ricerca di un continuo miglioramento della propria condizione. Provengono entrambi dalla Danimarca, ma appartengono a due età distinte, nei loro studi si sono dedicati ad ambiti del sapere differenti, eppure, il comune interesse per l'essere umano li ha resi più vicini di quanto si possa immaginare. Stiamo parlando del Nobel per la fisica Niels Bohr e del filosofo Soren Kierkegaard, padre dell'esistenzialismo ed autore dell’opera Aut-Aut.

 

Il sicuro procedere della scienza e della filosofia sulla via della conoscenza, seppur su strade diverse, ha condotto i due intellettuali ad un connubio di saperi che hanno indirizzato nuovi studi comparati e multidisciplinari. Si collocano in questa direzione gli studi intrapresi da Lewis Samuel Feuer, filosofo statunitense, che ha preso in esame le teorie dei due danesi e, dopo aver confrontato le rispettive posizioni e averne riscontrato numerose affinità, ha ipotizzato che la teoria atomica di Bohr possa avere fondamenta filosofiche, riconducibili al pensiero kierkegaardiano. Per comprendere efficacemente l'analisi effettuata da Feuer, si richiamano per cenni le formulazioni teoriche di entrambi.

 

Nel 1913 Niels Bohr, applicando i criteri della fisica quantistica, elabora un nuovo modello atomico che risolve le contraddizioni degli studi precedenti sull’atomo con l’introduzione delle “orbite quantiche”. Secondo questa teoria, gli elettroni possono ruotare intorno al nucleo solamente su orbite prestabilite, ognuna con la propria energia quantizzata, identificata dal numero quantico n (che può assumere i valori compresi tra 1 e +∞). Il modello atomico di Bohr individua un particolare comportamento degli elettroni: in condizioni ordinarie essi tendono a restare nel loro stato fondamentale, possono però spostarsi tra gli stati stazionari dell’atomo per effetto di interazioni energetiche, possono cioè avanzare dallo stato fondamentale a stati energetici superiori e da questi ritornare a livelli energetici più bassi, con uno o più salti quantici. Nell'illustrare la sua teoria dell'atomo, Bohr rivede il metalinguaggio della fisica classica, auspicando un’evoluzione della linguistica scientifica. Per essere valida, infatti, una teoria doveva «fornire un’adeguata descrizione delle nostre esperienze fisiche» rispettando il criterio dell’oggettività e della comunicabilità. Per soddisfare quella che è a tutti gli effetti una condizione linguistica, il fisico ragiona su quali schemi interpretativi e paradigmi logici possano facilitare l’apprendimento e la conoscenza scientifica.

Il punto decisivo è riconoscere che la descrizione dell’apparato sperimentale e le registrazioni delle osservazioni deve essere fornita in un linguaggio chiaro, adeguatamente arricchito dalla terminologia corrente. Questa è una semplice esigenza logica, poiché con la parola “esperimento” possiamo intendere soltanto una procedura relativamente alla quale siamo in grado di comunicare ad altri cosa abbiamo fatto e cosa abbiamo imparato.

Questi studi sono iniziati nella città di Copenaghen, ad un secolo di distanza dalla nascita del filosofo Soren Aabey Kierkegaard (1813-1855). Bohr è stato un attento lettore di Kierkegaard, in una lettera indirizzata al fratello, ad esempio, definisce la produzione kierkegaardiana come «una delle cose migliori che abbia mai letto»: proprio da questa testimonianza sono iniziate le ricerche di Feuer. Così, in Einstein e la sua generazione, Feuer arriva a sostenere che: «La teoria dell’atomo di idrogeno di Bohr può essere vista da un punto di vista psicologico come la proiezione della dialettica qualitativa di Kierkegaard» e riscontra «come il modello kierkegaardiano dei salti discontinui divenne parte della più profonda posizione emozionale-intellettuale di Niels Bohr».

 

Kierkegaard elabora la cosiddetta “filosofia del salto” che individua nella vita dell’uomo tre momenti fondamentali, definiti «stadi dell’esistenza», i quali convertono «una esperienza viva in una dialettica affilata, che immagina astrattamente degli stadi dell’esistenza, più costruiti che vissuti, e li elabora per mezzo di una dialettica spezzata: finito-infinito, possibile-attuale, incosciente-cosciente», come afferma il filosofo Paul Ricoeur in Kierkegaard. La filosofia e l'«Eccezione». Questi «stadi dell’esistenza» sono descritti in dettaglio nelle opere Aut-Aut e Timore e tremore.

 

La prima opera pone a confronto due modelli di vita: la vita estetica e la vita etica. Lo stile di vita estetico è rappresentato dalla figura dell’esteta, il Don Giovanni, colui che vive teso alla ricerca del piacere, che rifiuta di assumere un ruolo nella società, che vive nell’istante e non accetta la propria limitatezza: «Si sa finito, ma aspira all’infinito, pur imperfetto aspira alla perfezione», scrive Kierkegaard.

 

In contrapposizione ad un’esistenza vissuta in maniera puramente «estetica e sensibile», Kierkegaard ipotizza lo stadio etico, uno stile di vita all'insegna della morale, incarnato da colui che sa assumersi le proprie responsabilità, ottempera ai propri doveri e conduce una vita equilibrata. Questo modello di vita non elimina tuttavia i limiti dell’uomo rispetto all’onnipotenza divina.

 

La presa di coscienza della limitatezza umana avviene in Timore e tremore, opera in cui Kierkegaard elabora il terzo stadio dell’esistenza, quello religioso. In quest’ultimo momento esistenziale si superano le contraddizioni dei primi due stadi attraverso la fede, che concilia libertà e limitatezza. Lo stadio religioso è rappresentato dalla figura biblica di Abramo, colui che riesce a superare quella che è definita la «malattia mortale» affidandosi totalmente a Dio.

 

I tre stadi dell’esistenza sono tra loro indipendenti, autonomi e svincolati, secondo l’interpretazione di Gianmarco Ieluzzi rappresentano tre «sfere di vita», costituiscono cioè tre punti di passaggio possibili durante il corso della vita. Kierkegaard propone quindi una visione discontinua del vivere, caratterizzata da brusche interruzioni e da«salti esistenziali», ossia quelle fasi dell’esistenza nelle quali l’uomo si trova di fronte ad un bivio, un aut-aut, appunto, che implica una scelta:

Tra ciascuna sfera e le altre c’è l’abisso, non esiste alcuna dialettica evolutiva che procede fino alla sintesi, ma liberamente e autonomamente le scelte libere conducono la persona in una di queste sfere, da cui si può evolvere, ma anche rimanere per tutta la vita. Non esiste la conciliazione tra opposti, bensì la libera e unica scelta tra opposti: o una sfera oppure un’altra, aut aut.

Dal confronto del pensiero filosofico kierkegaardiano con la concezione fisica dell’atomo, si nota un’analoga prospettiva interpretativa da cui si ricavano due modelli evolutivi: l'evoluzione spirituale dell'uomo attraverso tre stadi dell’esistenza (estetica, etica e religiosa) e l’evoluzione chimica dell’elettrone tra gli stati quantici dell’atomo; il passaggio da uno stadio all'altro è però discontinuo in entrambe le teorie, un’evoluzione non lineare spiegabile con la categoria del salto. Se il comportamento dell’elettrone può essere definito come «l’insieme dei salti quantici da un’orbita all’altra» così l’uomo nella sua evoluzione può essere concepito in termini kierkegaardiani come «l’insieme delle transizioni brusche e inspiegabili dell’io negli stadi dell’esistenza», conclude Feuer nella sua analisi.

 

Gli avanzamenti scientifici, così come quelli epistemologici, avvengono con metodo evolutivo, attraverso continui superamenti di verità ritenute valide per un certo intervallo temporale. Sia la scienza, che la filosofia progrediscono attraverso «rivoluzioni periodiche, chiamate anche "cambiamenti di paradigma nei quali la natura e i metodi di ricerca scientifica in un determinato campo sono improvvisamente e radicalmente modificati. Il passaggio da un paradigma all’altro [...] consente di superare il vecchio e di modificarlo, in meglio, nel nuovo», come scrive Kuhn ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche.

 

Prima di addentrarsi nello studio di nuovi sistemi di pensiero è fondamentale comprendere l’importanza delle interazioni intellettuali nell’evoluzione della conoscenza. L’interazione fisico-filosofica di Bohr e Kierkegaard è esempio della straordinaria “comunicabilità scientifica” che ha valicato i perimetri disciplinari e ha permesso il contatto di due teorie che ancora oggi possono essere utilizzate come esempio di dialogo interdisciplinare. È importante stabilire connessioni e collegamenti fra campi di ricerca diversi: solo costruendo ponti intellettuali tra ambiti culturali differenti è possibile passare da una conoscenza analitica e settoriale ad una conoscenza poliedrica e multiforme.

 

 

Per saperne di più:

Per approfondire l'analisi di Feuer si rimanda a Lewis Samuel Feuer, Einstein e la sua generazione, Bologna, Il Mulino, 1990. Sul modello atomico di Bohr si consiglia l'interpretazione di Carlo Rovelli in Sette brevi lezioni di fisica, Milano, Adelphi, 2014. In ambito filosofico si suggerisce la lettura dell'opera di Søren Kierkegaard, Aut-Aut, Milano, Mondadori, 1977.

 
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