Il Chiasmo

Giada Tecchio

Giada Tecchio è nata a Vicenza, dove ha frequentato il Liceo Linguistico “Fogazzaro”. Allieva della Scuola Normale Superiore, frequenta la facoltà di Lettere moderne dell’Università di Pisa, studiando in particolare il pensiero leopardiano e alcuni aspetti di letterature comparate. Si interessa di lettura, di scrittura, di musica. Ama la corsa, il cinema e la buona cucina.

Pubblicazioni
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Editoria e collane editoriali come simbolo della storia culturale italiana

 

Quella dell’editoria è una vicenda che si intreccia inevitabilmente a quella della storia italiana: l’attività legata alla produzione dei libri si evolve assecondando tutte le influenze del percorso storico, economico e culturale che hanno coinvolto il nostro Paese, influenzandole a sua volta. Già dall’invenzione dei caratteri mobili e dalla diffusione della stampa di Gutenberg nel Quattro-Cinquecento, la storia dell’Europa e quella del libro stampato si sono intrecciate  in maniera indissolubile, e le influenze dell’una sull’altra sono state in più occasioni esplorate e ripercorse. Anche nell’Ottocento, in modo particolare, la storia dell’editoria si è intersecata  con quella dell’Unità d’Italia e della rivoluzione industriale, diventando un vero e proprio settore di produzione industriale e occupando un ruolo rilevante anche all’interno dei processi storici, culturali e politici in atto.

 

Quello dell’editoria è infatti un settore peculiare, che non solo subisce e cavalca le trasformazioni a cui va incontro tutta l’economia italiana, dalla rivoluzione industriale degli anni Novanta dell’Ottocento a tutte le trasformazioni economiche del Novecento, ma si spinge oltre. L’evoluzione del settore editoriale, infatti, riguarda da un lato la produzione e la pubblicazione dei libri, quindi ha a che fare con il libro inteso come “merce” portatrice di un valore economico, ma coinvolge anche gli aspetti e i valori sociali e culturali che sono veicolati dal libro stesso, inteso al contempo come strumento di cultura e informazione, in quanto «risultato di un’opera di ingegno».

 

Il libro, in effetti, non è solamente riducibile ad un “prodotto” materiale dell’industria. Il suo valore, in altre parole, è sia di natura economica che non economica, come osserva Paola Dubini nel suo saggio Voltare pagina? Le trasformazioni del libro e dell’editoria. Dal punto di vista economico, il libro è un bene di consumo, ossia un bene materiale riproducibile su scala industriale, dunque soggetto alle regole economiche che governano i beni di largo consumo. Pertanto, il suo valore viene determinato dalla capacità della filiera editoriale di realizzare un prodotto di qualità, di distribuirlo e venderlo sul mercato, massimizzando l’efficacia dei processi di produzione e di acquisto. Dall’altro lato, però, il libro è anche un bene che si inserisce in una dimensione collettiva, in quanto dotato di un «valore relazionale», perché permette di instaurare un rapporto fra autore, editori e lettori; è inoltre un «bene di merito», a cui la collettività attribuisce un particolare valore funzionale allo sviluppo morale e sociale; infine è dotato di un forte «valore identitario», perché esprime l’individualità del singolo autore e ne conserva la memoria. Riunendo tutti questi aspetti, si può dire quindi che il libro sia portatore di un preciso «valore culturale», che include il suo valore sociale, linguistico, identitario, di status:

 

Il valore del libro trascende quindi il valore economico generato dagli attori della filiera del libro. Il sistema integrato di testo e supporto cartaceo crea valore in sé: come prodotto scambiato in transazioni economiche, come bene da conservare per mantenere la memoria, come sistema organizzato di contenuti definiti.

Questo sfaccettato e complesso valore del libro è nelle mani di coloro che gestiscono, organizzano e regolano la sua produzione e diffusione, ossia di tutti quegli attori che partecipano alla filiera editoriale: ecco che, allora, risulta chiaro come le case editrici e tutti i membri di questo processo produttivo non solo partecipino in maniera rilevante alla diffusione economica di un prodotto, ma giochino anche un ruolo fondamentale nella partecipazione alla storia culturale di un paese.

 

La storia degli editori e delle case editrici italiane, della loro influenza e del loro ruolo, diviene in qualche modo il simbolo della trasformazione insieme storica, economica e culturale dell’Italia, accanto alla quale l’editoria ha camminato e ancora oggi cammina. Le case editrici e la loro storia, infatti, possono essere valorizzate come espressione di politiche, pratiche e orientamenti alla loro base, ed è possibile osservare il ruolo che esse hanno avuto sul panorama storico e culturale italiano. Come osservato in Storie di uomini e libri. L’editoria letteraria italiana attraverso le sue collane, saggio di Gian Carlo Ferretti e Giulia Iannuzzi, le case editrici e le loro collane editoriali «in sostanza possono fare storia da sole, con la concretezza dei loro autori e direttori, opere e valori».

 

Possiamo pensare, ad esempio, al rilevante sodalizio fra Benedetto Croce e la casa editrice Laterza, che a lui affida la collana dei “Classici della filosofia moderna”, di orientamento idealistico, fondata nel 1905 da Giovanni Gentile. A questa operazione si oppone polemicamente l’iniziativa della casa editrice Carabba che, oltre ad aver dato inizio ad una vasta produzione di testi scolastici (a cui collabora Corrado Alvaro) che avrà un notevole impatto sulla cultura italiana del primo Novecento, affida a Papini la collezione filosofica “Cultura dell’anima”, di posizione complementare e opposta a quella di Croce.

 

Particolarmente rilevante per il suo ruolo sulla cultura e sulla storia delle idee è il caso di Solaria, rivista (poi divenuta anche collana libraria) fondata da Alberto Carocci nel 1926. Fra le iniziative più rilevanti del panorama letterario e culturale degli anni Venti e Trenta del Novecento, riesce a creare e imporre tendenze e idee nuove ed è in grado di attrarre a sé personalità quali Gadda, Vittorini, Saba e Svevo. Attraverso le pubblicazioni di Solaria, alle quali partecipano come curatori anche Alessandro Bonsanti e Ferrero e Leone Ginzburg, vengono proposti e valorizzati in Italia grandi nomi della letteratura europea (da Joyce a Kafka, da Proust a Gide). La diffusione delle novità letterarie legate alle produzioni europee e americane contemporanee e dei loro rinnovati volti è anche al centro della storia editoriale di Modernissima di Gian Dàuli e della sua collana “Scrittori di tutto il mondo”, che verrà acquistata dalla casa editrice Corbaccio di Enrico Dall’Oglio. A causa della sua impronta antifascista e socialista, anche a seguito di pubblicazioni di forte impegno politico, Corbaccio sarà colpita dalla censura fascista già nei primi anni Venti. Fra il 1923 e il 1943 verranno inoltre sequestrati più di sessanta titoli, sia per motivi ideologici, sia a seguito della promulgazione delle leggi razziali: La montagna incantata di Thomas Mann è fra le prime opere censurate (seguita dalle produzioni di Marcel Proust e di George Bernard Shaw). Distrutta da un bombardamento nel 1943, la casa editrice di Dall’Oglio è costretta alla clandestinità durante la Repubblica di Salò, pertanto si sposta in Svizzera, per tornare in Italia nel 1945: da questo momento, la casa editrice ristamperà numerosi titoli, fra i quali i testi di Mann e Céline, aprendosi negli anni Novanta e Duemila anche al filone fantastico contemporaneo (pubblicando ad esempio Michael Ende e Margaret Atwood).

 

La stessa pesante censura del regime fascista colpisce anche Einaudi, che si era distinta per una produzione saggistica di opposizione (una vicenda segnata anche da episodi di sequestri e violenze) e che diviene, nel dopoguerra, un luogo centrale della cultura italiana: dal 1945 il direttore editoriale è Cesare Pavese, che riunisce attorno a sé collaboratori del calibro di Norberto Bobbio, Italo Calvino, Elio Vittorini, Natalia Ginzburg, e molti altri. Come sottolineato da Ferretti e Iannuzzi, «la Einaudi rappresenta un’editoria di progetto, ed è un laboratorio di alta cultura e di opposizione, di qualità e raffinatezza», che si apre alle componenti politiche gobettiana e marxista.

 

Le case editrici testimoniano, inoltre, tutti i mutamenti intervenuti anche nell’ambito economico: Ferretti e Iannuzzi approfondiscono come, tra gli anni Venti e Trenta, il simbolo dei mutamenti legati all’industrializzazione sia la casa editrice Mondadori, che «sta diventando la nuova protagonista dei processi d’industrializzazione dell’editoria italiana» attraverso una serie di mosse strategiche, come «l’ammodernamento degli impianti» e «l’entrata nel mercato di periodici e rotocalchi», assieme ai generi popolari di largo consumo, come i gialli (genere letterario che prende il nome proprio dalla fortunata collana di Mondadori) e i fumetti. Non solo: perché grazie a collane come quella della “Medusa”, Mondadori inaugura una politica editoriale che si gioca fra qualità letteraria e successo di vendita, unendo in maniera sempre più forte il valore culturale e ideologico della letteratura al suo aspetto più strettamente economico. Nel dopoguerra, attraverso questa collana la casa editrice rilancia la produzione straniera e collabora «all’affermazione della narrativa e del romanzo come genere principe del mercato». 

Particolarmente rilevante, in questo intreccio di storia, economia, politica e letteratura, è il ruolo svolto dai collaboratori delle case editrici attraverso le loro scelte di pubblicazione e di valorizzazione, il loro ruolo di promozione o di rifiuto. Possiamo pensare, ad esempio, al ruolo di Vittorio Sereni (fra le altre, per la collana “Lo specchio” di Mondadori), Elio Vittorini (per Bompiani) e Italo Calvino.

 

Innegabile è, quindi, l’intreccio fra la storia delle case editrici e delle personalità a loro legate, nelle vesti di editori e collaboratori, e il panorama culturale e storico dell’Italia: attraverso le vicende legate al libro e all’editoria è possibile rileggere per intero la storia italiana. Allo stesso tempo, in quest’ultima possiamo ritrovare in filigrana tutte le vicende e le evoluzioni legate alle case editrici e all’insieme di valori che queste, attraverso la pubblicazione libraria, hanno veicolato.

 

Nel presente, l’editoria libraria ha cambiato profondamente il suo ruolo: sia perché sono mutati i protagonisti della filiera editoriale, e dunque sono mutati i processi di creazione del prodotto librario, sia perché la presenza delle nuove tecnologie ha apportato modifiche profonde al rapporto fra il testo e il supporto (cartaceo o digitale). Sono cambiati i ruoli delle case editrici e degli intermediari fra autore e lettore, grazie alla diffusione di piattaforme di condivisione, aggregatori, social media (con la diffusione dell’auto-pubblicazione) che organizzano la produzione e la diffusione di nuovi mercati di contenuti. Inoltre, all’interno di questo processo, un ruolo sempre più rilevante viene svolto dal lettore, che si pone al centro della filiera:

 

L’editoria libraria è nata come settore per pochi lettori che è cresciuto di pari passo con la crescita dell’alfabetizzazione, della scolarità e del benessere economico e con l’abbassamento dei costi di produzione; negli anni il numero dei lettori è cresciuto significativamente e con il consolidamento dell’edicola e della grande distribuzione quello dei libri è diventato un mercato di massa. Con la digitalizzazione, si è aperta la possibilità non solo di portare “dentro” la filiera contenuti e attività che prima erano “fuori”, […] ma anche di organizzare in modo sistematico le attività del lettore e inglobarle all’interno dei modelli di business.

 

Per saperne di più:

Le citazioni riportate nell’articolo sono tratte dal saggio citato: Paola Dubini, Voltare pagina? Le trasformazioni del libro e dell’editoria, Pearson, Milano – Torino, 2013. La storia delle case editrici e delle collane editoriali si trova ripercorsa nel lavoro di Gian Carlo Ferretti e Giulia Iannuzzi, Storie di uomini e libri. L’editoria letteraria italiana attraverso le sue collane, minimum fax, Roma, 2014. Un contributo sulla storia dell’editoria in Italia, fra i molti disponibili, è quello di Alberto Cadioli e Giuliano Vigini, Storia dell'editoria in Italia: dall'Unità a oggi, Editrice Bibliografica, Milano, 2018.

 

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La libertà del traduttore

Quella del traduttore è una figura dai contorni sfumati, il cui lavoro, estremamente necessario in una società globale, si svolge spesso nell’ombra. Eppure, se possiamo leggere un libro scritto da un autore straniero, capire le istruzioni per montare correttamente un nuovo elettrodomestico o impostare i sottotitoli di una serie tv nella nostra lingua, sappiamo che è merito di qualcuno che ha svolto un lavoro di traduzione dalla lingua straniera alla nostra, un lavoro che ci permette di cogliere nel “testo” (in senso lato) con cui ci confrontiamo tutte le informazioni che esso aveva nell’originale. Sappiamo, inoltre, che in tutti questi casi il traduttore ha agito usando delle tecniche che hanno permesso inizialmente di decifrare il messaggio da un testo di partenza per poi tradurlo in un’altra lingua, perciò ci aspettiamo che il risultato di questo processo permetta al lettore di afferrare esattamente quello che in origine l’autore voleva dire, seppur avendo usando un codice linguistico differente dal nostro.

 

A ben guardare, tuttavia, le cose sono molto più complesse: innanzitutto, in che misura è possibile definire quanto la traduzione sia fedele all’originale? E soprattutto, possiamo chiederci che cosa si intenda per “fedele” e a che cosa si riferisca questa qualifica: al testo di partenza? Alla sua forma linguistica, o al suo stile? O piuttosto al suo messaggio? Possiamo domandarci, in altre parole, cosa ci assicuri che lo spirito di un testo, nella sua profonda essenza, sia stato correttamente percepito e poi correttamente “trasferito” nel testo di arrivo. Sembra infatti possibile, anzi forse inevitabile, che durante questa operazione il traduttore abbia lasciato la sua impronta, magari deformando o tradendo il testo di partenza. Quanto è possibile che la traduzione sia stata in qualche modo il frutto di un’interpretazione arbitraria, in cui si è intromessa (volontariamente o meno, e in misura più o meno maggiore) una qualche forma di soggettività del traduttore? Insomma, quale libertà può permettersi il traduttore, e quali sono invece i suoi vincoli nel confezionare il suo prodotto?

Tutti questi quesiti, apparentemente semplici, toccano delle questioni enormemente complesse che coinvolgono la linguistica, l’ermeneutica, la filosofia e vanno direttamente al centro della storia e della teoria della traduzione.

 

Nonostante quella della traduzione sia un’operazione antichissima e da sempre praticata dall’essere umano, una riflessione critica e teorica su questa pratica è sorprendentemente recente. La teoria della traduzione, infatti, si afferma come oggetto di studio solo nel Novecento e viene generalmente indicata come traduttologia, dal nome francese di traductologie (diffuso a partire dal 1970), affiancato dalle forme tedesche Translationswissenschaft o Übersetzungswissenschaft o Translatologie. L’etichetta di denominazione teorica si afferma nell’area anglosassone nella forma di Translation Studies, che ha avuto il merito di evidenziare la necessaria molteplicità di approcci a questa disciplina, la cui dignità scientifica merita di essere affermata non solo in ambito linguistico.

Con la parola “traduzione”, in particolare, intendiamo comunemente un processo mediante il quale una lingua di partenza (LP) viene resa in lingua di arrivo (LA), di modo che il significato veicolato da ciascuna di queste sia quanto più possibile simile e che le strutture di queste lingue siano sostanzialmente equivalenti. La traduzione risulta quindi, in primo luogo, un atto di mediazione che coinvolge un testo di partenza (TP) e un testo di arrivo (TA). Possiamo immaginare questo processo come una sorta di transcodificazione (code-switching), nella quale un particolare messaggio, che nasce in un certo codice di partenza, viene decodificato e poi ricodificato nel codice di arrivo. Più nello specifico, semplificando quanto formulato nella Teoria Interpretativa della Traduzione (Interpretive Theory of Translation) sviluppata da Danica Seleskovitch, questo processo avviene in tre fasi: una prima fase di comprensione del testo (understanding o comprehension), una fase successiva di interpretazione del suo senso (deverbalization) e, infine, una fase di ri-codificazione (re-expression). Tuttavia, nella traduzione si implica un confronto fra due sistemi linguistici differenti, ma anche fra due culture diverse: la traduzione si compone, in altre parole, di un duplice trasferimento, interlinguistico e interculturale.

 

È evidente che tanto la lingua quanto la cultura sono due sistemi in continuo mutamento, sia della loro natura sia dei loro rapporti reciproci, e soprattutto che essi sono dotati di caratteristiche proprie, non sempre facilmente “sovrapponibili” a sistemi linguistici e culturali diversi. In questa complessa combinazione di fattori linguistici ed extralinguistici si individua l’autentica e complessa natura della traduzione, che nell’atto di mediazione deve giungere ad una finalità di equilibrio, in grado di rispettare le norme interne della comunicazione e di tenere conto di tutti i vincoli legati all’ambito culturale.

 

Perché ciò avvenga, è necessario che il traduttore compia innanzitutto un’operazione di decodificazione del testo di partenza e, successivamente, che a questa segua un’operazione di traduzione, che comporta l’intervento sulle unità linguistiche attraverso varie operazioni (translation shifts). L’atto di mediazione del traduttore è però, allo stesso tempo, anche un atto di comunicazione che non si configura come un semplice traghettamento di dati, ma piuttosto come il “rimodellamento” di una relazione testo-lettore: se il testo di partenza (TP) poteva porsi in relazione diretta con il suo lettore di partenza (LP) nell’ambito della stessa lingua/cultura, per raggiungere un lettore di arrivo è necessaria la mediazione del traduttore che permetta al messaggio di calarsi nella situazione linguistico/culturale del testo di arrivo (TA). Questo rimodellamento della relazione testo-lettore mette in gioco specifici presupposti di ordine linguistico, temporale e culturale, e chiama in causa la valenza interpretativa, un dato soggettivo che induce a collocare la traduzione in un ambito “extralinguistico”. Tale procedimento appare particolarmente evidente quando ci si imbatte, ad esempio, nella traduzione delle espressioni idiomatiche, che mostrano chiaramente i precisi aspetti culturali alla loro base: l’espressione inglese “it’s not my cup of tea”, corrispondente all’italiano “non fa per me”, non chiama in causa aspetti unicamente linguistici, bensì fa riferimento alla presenza, culturalmente molto importante, di questa bevanda e della sua tradizione all’interno del mondo anglosassone del British English.

 

Il duplice trasferimento interlinguistico e interculturale comporta, inoltre, l’inevitabile modificazione dell’enunciato primario, secondo la riflessione di Paola Faini: in questa modificazione si coglie la portata dell’intervento del traduttore, che può essere più o meno ampia a seconda del metodo e delle scelte di fondo adottate. Queste strategie sono classificabili in base all’orientamento del traduttore sul testo di partenza (TP), un atteggiamento detto anche source-oriented, o sul testo di arrivo (TA), detto anche target-oriented. Queste stesse strategie si possono collocare su una linea che vede ad un suo estremo l’adattamento, una produzione impostata in funzione del pubblico (TA) che vede un ampio livello di rielaborazione e di libertà espressiva da parte del traduttore, e all’estremo opposto la traduzione-calco, un processo orientato invece sul massimo rispetto del testo di partenza (TP), preservando gli aspetti linguistici e il carattere del modello originale. Ancora differente, infine, la traduzione letterale, in cui ogni particolarità grammaticale del testo di partenza (TP) viene rispettata nel testo di arrivo (TA), talvolta anche attraverso la traduzione parola per parola. In quest’ottica, Eugene Nida ha formulato due differenti approcci traduttivi, quello della formal equivalence (che pone l’accento sugli aspetti grammaticali, linguistici e formali del testo di partenza) e quello della dynamic equivalence (che enfatizza, invece, la trasposizione del senso o del messaggio del testo di partenza, attraverso una più stretta interazione fra gli aspetti culturali dei due testi). La gamma di approcci al processo di traduzione è stato semplificato, fra gli altri, da Peter Newmark, che ha individuato sostanzialmente due modalità pragmatiche di intendere il processo traduttivo: la traduzione semantica, che si propone di valorizzare la resa dell’esatto significato di TP, e la traduzione comunicativa, orientata invece alla resa della funzione e dell’effetto del testo sui lettori di TA in maniera quanto più vicina a quello sui lettori di TP.

 

L’orientamento sul testo di partenza o sul testo di arrivo coinvolge direttamente l’arbitrio del traduttore, che è chiamato a coniugare questi aspetti teorici con la prassi della traduzione: questa figura deve quindi avere una piena conoscenza dei meccanismi dei due sistemi linguistici, per operare attentamente sull’interpretazione del testo di partenza e utilizzare le sue strategie per creare una sorta di “equivalenza dinamica” in grado di trasmettere nei lettori del testo di arrivo la globalità del significato di partenza, al fine di produrre su di loro gli stessi effetti. Il traduttore deve, perciò, farsi carico dell’operazione di trasmissione della forma e del contenuto del pensiero dell’autore originale, rispettando le scelte espressive di quest’ultimo e tutte le implicazioni linguistiche e culturali del suo testo.

 

Ma come scegliere questi metodi e quali strategie applicare al testo da tradurre? La risposta sta nella tipologia testuale: a seconda delle funzioni del testo è possibile suddividere le produzioni in base alla loro tipologia, che influenzerà le scelte del traduttore, siano essi testi con funzione informativa (come gli articoli giornalistici), testi con funzione espressiva (come i testi letterari) o testi con funzione vocativa (ad esempio i manuali di istruzioni).

 

Sono infatti le caratteristiche del testo a determinare l’orientamento del traduttore e le strategie da applicare in modo da: mantenere le componenti soggettive, autoriali della lingua del testo espressivo (con orientamento verso la LP); creare un giusto equilibrio fra accuratezza e accessibilità del testo informativo (orientamento prevalente sulla LA); mirare all’immediata e pronta comprensione del messaggio nel testo vocativo, esaltandone la funzione comunicativa, e dunque puntando all’efficacia complessiva del testo stesso.

 

Il traduttore può agire, quindi, con una certa libertà di scelta fra questa pluralità, libertà che appare comunque condizionata dal testo su cui lavora, dalla sua tipologia e soprattutto dalle sue funzioni: è proprio il concetto di funzione a determinare anche il tipo di legame, di maggiore o minore equivalenza, con il testo di partenza. Particolarmente delicato risulta, ad esempio, il caso della traduzione dei testi espressivi di tipo letterario, in cui l’autore di TP può decidere di piegare gli strumenti linguistici e adattarli ad un proprio uso per esprimere il suo messaggio: questa libertà espressiva autoriale impone un forte condizionamento sul traduttore, il quale deve applicare le sue competenze linguistiche e culturali, utilizzando anche un certo grado di libertà espressiva, per ridefinire il senso del testo sulla base delle esigenze della LA. In questo particolare caso, entra in gioco la concezione di un “linguaggio del traduttore”, che non deve stravolgere la tipologia espressiva dell’autore (l’idioletto di TP), ma che al contempo non deve rimanere vincolato alla fedeltà dell’originale, che stravolgerebbe la lingua di arrivo in TA. Anche il traduttore può quindi agire con una certa libertà espressiva: i cambiamenti rispetto alla situazione di partenza e gli adattamenti alla lingua di arrivo sono dunque gestibili dalla sensibilità del traduttore, dalla sua tecnica e dalla sua esperienza professionale, e non sono vincolati ad una rigida fedeltà al testo originario.

 

Quello della “fedeltà” all’originale si configura dunque come un principio teorico troppo ambiguo e generico per valutare il successo una traduzione, nonché difficilmente inquadrabile alla luce di una mal definibile “equivalenza” al testo di partenza: l’efficacia di una traduzione sta piuttosto nel raggiungimento del suo scopo comunicativo, intendendo con esso una costanza funzionale tra testo di partenza e testo d’arrivo.

 

Anche l’idea di “funzione” può, tuttavia, dimostrare una certa ambiguità e rivelarsi eccessivamente idealistica, nascondendo alcune situazioni di frequente indeterminatezza dello scopo dei vari testi: a questo proposito sono stati elaborati dagli studi di teoria descrittiva i concetti di adeguatezza e di accettabilità. Come osserva Hellmut Riediger:

 

Una traduzione adeguata si sforza di essere simile all’originale e ne mantiene i riferimenti culturali, le sfumature linguistiche e stilistiche perché li considera fondamentali per la corretta e piena ricezione del messaggio. Il vantaggio di questo tipo di traduzione è che il lettore pur non conoscendo la lingua dell’originale ha la possibilità di entrare in contatto con elementi di un'altra cultura. Una traduzione accettabile, invece, ha come obiettivo la massima fruibilità del testo nella cultura ricevente a costo di modificare l'originale. Il risultato non è una riproduzione dell'opera originale ma una versione dell'opera adattata ai canoni linguistici e letterari della cultura in cui viene pubblicato. Il vantaggio di una traduzione accettabile è che la sua lettura risulta più piacevole e priva di ostacoli, lo svantaggio invece è il rischio di un livellamento culturale e di una riduzione degli stimoli per il lettore.

 

In questo senso, più che una serie di criteri da rispettare, la traduzione sembra basarsi sulle scelte del traduttore e sulle sue conoscenze linguistiche e culturali, tanto del TP quanto del TA, ed essa si configura con sempre maggior chiarezza come atto comunicativo, al quale anche il traduttore partecipa attivamente. Si può dunque affermare che non esistano precisi e definitivi inquadramenti teorici per descrivere il processo di traduzione, né veri e propri schemi applicativi universalmente validi da applicare nella traduzione o nella sua valutazione: la traduzione è piuttosto un gioco di equilibri sempre rinegoziati, di cui il traduttore deve assumersi la responsabilità facendo buon uso di una consapevole, ma non assoluta, libertà espressiva.

 

Per saperne di più:

Alcune riflessioni teoriche sulla traduzione sono quelle di Peter Newmark, La traduzione. Problemi e metodi, Milano, Garzanti, 1988, e quella di Hellmut Riediger, Teorizzare sulla traduzione: punti di vista, metodi e pratica riflessiva, Laboratorio Weaver, 2018. Fra i molti manuali sulla traduzione, agevole e di recente ripubblicazione è quello di Paola Faini, Tradurre. Manuale teorico e pratico, Nuova edizione, Roma, Carocci, 2018.

 

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Miti a bassa intensità. Racconti, media, vita quotidiana

Peppino Ortoleva, Miti a bassa intensità. Racconti, media, vita quotidiana, Torino, Einaudi, 2019.

 

Miti a bassa intensità è l’ultimo, recente saggio del professor Ortoleva, la cui edizione è apparsa per i tipi di Einaudi nel febbraio 2019. Questo libro si unisce alla schiera delle numerose pubblicazioni che Ortoleva, professore di storia e teoria della comunicazione, ha dedicato nella sua carriera ai media, alla cultura e alle tecnologie del mondo contemporaneo, fra le quali si annoverano Cinema e storia. Scene dal passato (1991), Un ventennio a colori. Televisione privata e società italiana (1995) e Il secolo dei media (2009).

 

Il saggio si pone un quesito fondamentale: c’è ancora spazio, nel nostro tempo, per il mito? Si potrebbe ipotizzare una risposta negativa, secondo un senso comune che vorrebbe il mito completamente superato da una società contemporanea ormai votata al progresso tecnologico e definitivamente “de-mitizzata”, dominata dalla tecnica e dal sapere scientifico. All’opposto, l’acuta indagine di Ortoleva dimostra precisamente il contrario: nel nostro quotidiano, i miti «c’incalzano da ogni parte, servono a tutto, spiegano tutto». Si tratta, in particolare, di miti che hanno non «l’autorità della tradizione ma la forza più umile dell’abitudine»: appartengono, cioè, ad una mitologia del mondo attuale, sono la componente decisiva della trama di valori, simboli e significati di cui si sente bisogno anche nel nostro tempo, apparentemente scevro di miti ma di essi ugualmente bisognoso.

 

Per sviluppare il ragionamento è tuttavia necessario chiarire che cosa si intenda precisamente quando si parla di “miti” e soprattutto se sia possibile associare i miti d’oggi alle stesse narrazioni che regolavano la vita personale e collettiva dei popoli primitivi. Questo il punto di partenza del saggio, in cui Ortoleva offre la definizione di mito come di «un racconto che fa da ponte tra il vissuto e il cosmo»: si tratta cioè di un racconto, ossia del prodotto di una narrazione (modalità che permette all’umanità di dare un senso alla propria esperienza), ma di una narrazione del tutto particolare, in grado di collegare attivamente il nostro vissuto con i mondi che si pongono al di là dell’esperienza diretta. Attraverso il narrare, come osserva l’autore, il mito connette ciò che si trova entro l’orizzonte esperienziale con ciò che si trova oltre di esso e che, da oltre quell’orizzonte, continua a porre domande: «sul dopo la morte, sull’universo al di là della superficie terrestre, sulle forze che muovono, o possono muovere, i nostri destini». Il “cosmo” con cui i miti ci pongono in contatto, in sostanza, è fatto dei molti interrogativi senza risposta dell’esistenza, e di conseguenza l’azione di tali particolari narrazioni è irrinunciabile per le civiltà di qualsiasi tempo, incluso quello contemporaneo, benché in età storiche diverse esse abbiano assunto caratteri differenti e differenti ruoli. In questo senso, si può dire che nell’epoca contemporanea domini un differente “stato” di miticità rispetto a quella “alta” dei miti intesi come narrazioni sacre e cerimoniali. Si tratta precisamente della bassa intensità che dà il titolo al saggio, uno “stato” riferito specificamente alla miticità contemporanea, e che si differenzia dai miti ad alta intensità per una serie di caratteristiche proprie: in particolare per la collocazione temporale, vicina al nostro stesso tempo o in un tempo a noi riconoscibile, per i protagonisti e per la modalità con cui questi racconti vengono fruiti dalle persone. I miti a bassa intensità, infatti, sono piuttosto oggetto di consumo libero e personale, più che oggetto di rigide osservanze formali o di condivisioni collettive, come potevano essere quelli ad alta intensità: possono proliferare in tutte le declinazioni che l’industria culturale offre, dalla fiction, al western, ai romanzi, e i loro modi di circolazione e fruizione sono condizionati da realtà proprie del nostro tempo, come l’industrializzazione, il sistema dei media e lo strapotere dello Stato.

 

Sulla base di queste premesse, Ortoleva traccia una mappa delle storie che, nell’epoca contemporanea, agiscono come ponte fra il vissuto e il “cosmo” di quesiti irrisolti. A partire da un primo capitolo dedicato alle caratteristiche della bassa intensità e del suo legame con il mondo dei costumi e delle abitudini quotidiane, lo studioso analizza alcune forme di narrazione mitica proprie della contemporaneità e le loro funzioni strumentali talvolta assunte: a partire dai “miti” istituzionali alla base dello Stato moderno, come il mito nazionale, fino all’idea stessa di rivoluzione. Successivamente vengono ripercorse alcune delle storie che l’industria culturale ripropone nelle molteplici forme di narrazione che occupano il tempo libero nei vari generi letterari, cinematografici e televisivi: le figure fantastiche del vampiro e dello zombi, in grado di porre in collegamento la nostra quotidianità con il mondo “altro” dell’oltretomba, la figura del criminale, dei serial killer e dei “gangster”, che raggiungono una sovrumana malvagità (non priva di elementi sacerdotali) ben lontana dalla squallida cattiveria dei killer delle notizie di cronaca, e infine una serie di miti trasversali e largamente diffusi, come quello dell’amore romantico, fino ai culti soggettivi e di gruppi organizzati attorno ad alcune figure e storie.

 

Il saggio di Ortoleva, attraverso un’argomentazione quasi algebrica e una limpidissima scrittura, conduce un’indagine su alcuni aspetti della contemporaneità per molti versi largamente sconosciuti a chi ne fruisce, e illumina alcuni lati della ricezione di prodotti culturali con i quali chiunque è ordinariamente a contatto nella nostra contemporaneità. Questa interessante ricerca si rivela utile non solo per studiosi e studenti di antropologia culturale e sociologia, già vicini alle moderne “etnografie del mondo contemporaneo”, che vi troveranno un’acuta categorizzazione e un’attenta analisi delle funzioni e degli aspetti della bassa intensità della miticità, ma anche per coloro che vorranno semplicemente accostarsi alla riflessione sul significato di molte figure e storie con le quali siamo abitudinariamente in contatto e sulle quali non riteniamo necessario porre uno sguardo critico. Proprio in questo “non farvi caso”, nell’apparente libertà in cui ciascuno di noi ritiene di gestire e controllare il proprio tempo libero, risiede la potenza e l’ampia diffusione delle mitologie della contemporaneità: esse, quasi senza che noi ce ne accorgiamo, ci assediano da ogni parte e ci forniscono riflessioni e risposte con cui guardiamo alla nostra esperienza e, soprattutto, al di fuori di essa.

 

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Animerama. Storia del cinema d’animazione giapponese

Maria Roberta Novielli, Animerama. Storia del cinema d’animazione giapponese, Venezia, Marsilio, 2015.

 

Il saggio Animerama. Storia del cinema d’animazione giapponese costituisce l’ultimo contributo di Maria Roberta Novielli alla storia del cinema nipponico: l’autrice, specializzata in Cinema alla Nihon University di Tokyo, insegna discipline legate al cinema e alla letteratura giapponese presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e collabora all’organizzazione di molte rassegne cinematografiche presso festival italiani e internazionali, tra gli altri quelli di Venezia, Tokyo e Locarno. Questo recente contributo, pubblicato per Marsilio nel 2015, si unisce alle numerose pubblicazioni che Novielli ha dedicato alle produzioni cinematografiche del Giappone, in particolare le monografie Storia del cinema Giapponese (Marsilio, 2001), Metamorfosi. Schegge di violenza nel nuovo cinema giapponese (Epika, 2010) e Lo schermo scritto (Cafoscarina, 2012).

 

Con questo saggio viene offerto al pubblico il percorso di più di cento anni della storia del cinema d’animazione nipponico, precedentemente escluso dalla Storia del cinema Giapponese della stessa studiosa e ora oggetto di una ricostruzione brillante ed esaustiva, che si snoda fra prodotti mainstream e produzioni sperimentali, illuminando una nuova porzione dell’arte dell’animazione cinematografica del Giappone. Il titolo del saggio, Animerama, è un omaggio alla pionieristica produzione di Tezuka Osamu, in particolare all’omonima trilogia erotica realizzata da questo “dio del manga” con il suo team di animatori fra il 1969 e il 1973.

 

Come sottolinea Giannalberto Bendazzi nell’introduzione premessa allo studio, la conoscenza dell’arte, della letteratura e del cinema giapponesi sono diffusi a livello internazionale, ma si lamenta finora la scarsa attenzione che gli studi hanno rivolto alle produzioni dell’animazione, e in particolare ai cortometraggi: in questo contesto, il saggio di Novielli rappresenta «una ventata di aria fresca e di professionismo», in grado di offrire un affresco completo di queste produzioni e di delineare un percorso limpido e approfondito all’interno di un panorama e di un tema estremamente complessi.

 

Il taglio manualistico dello studio, che vuole porsi come una ricostruzione storica delle produzioni nipponiche di animazione destinate al cinema, non esula dal ricostruire le premesse sociologiche, politiche, economiche e culturali da cui germoglia ogni produzione considerata. In questo modo, il saggio si snoda secondo un criterio cronologico a cui si intrecciano non solo le vicende delle maggiori case di produzione dedicate all’animazione, ma anche le singole correnti artistiche, le evoluzioni creative e professionali dei maggiori protagonisti di questa storia, le tematiche e le istanze ideologiche connesse ad ogni fase di sviluppo di quest’arte. Si intrecciano in ogni pagina i molteplici fili di questa complessa vicenda. In questo modo, risulta possibile seguire nella lettura la trama organica della storia del cinema di animazione alla luce delle esigenze sociali, culturali e storiche da cui essa nasce, alla quale si aggiungono i molteplici tasselli delle sperimentazioni individuali, delle generazioni e dei gruppi indipendenti, delle grandi macrotematiche succedutesi, dei generi che nel tempo si sono affermati, delle innovazioni tecniche sviluppatesi, delle specificità nipponiche e in parallelo degli influssi esterni, che ne compongono il complesso mosaico.

 

Il saggio prende le mosse da un primo capitolo che introduce le origini dell’animazione giapponese, fatte risalire alle peculiari forme d’arte degli emakimono, ovvero immagini e storie dipinte su carta, ma anche del teatro delle ombre kagee, delle rivisitazioni dell’europea “lanterna magica” in grado di proiettare immagini (chiamata utsushie nella sua versione nipponica), e del peculiarissimo teatro di carta, il kamishibai, dalle quali si approda agli esordi del disegno animato nel secondo decennio del Novecento. Lo studio prosegue successivamente ripercorrendo le innovazioni culturali e mediatiche avvenute nel periodo Taishō (1912-1926), in anni di dibattiti sull’identità dei nuovi media e di prime regolamentazioni dell’industria cinematografica, ma anche delle prime sperimentazioni di autori indipendenti, pionieri del cinema animato: fra questi l’inarrestabile sperimentatore Ōfuji Noburō, precursore nella messa a punto delle metamorfosi animate e della sonorizzazione, ma anche Murata Yasuji e Masaoka Kenzo, primo a realizzare la cel animation (l’animazione in rodovetro) e il primo film sonoro. A questi (e a molti altri nomi) si legano anche le vicende di numerosi studi di animazione, spesso fondati da queste personalità e centro di grandi slanci creativi: la storia di questi studi appare fin da subito legata a doppio filo con le fasi di sperimentazione, di fermento e di collaborazione che contraddistinguono la storia del cinema d’animazione giapponese.

 

Gli anni delle due Guerre Mondiali e del dopoguerra sono al centro di alcuni densi capitoli di Animerama, in cui si ripercorrono le pulsioni politiche e sociali che hanno influenzato la scena sociale giapponese e le produzioni culturali e mediatiche: dal controllo delle produzioni cinematografiche imposto dal Governo e dalle esigenze della nuova corrente nazionalista, con la capillare opera di indottrinamento attraverso il cinema di propaganda, al movimento del Prokino (“Cinema proletario”) di ispirazione comunista, fino alle produzioni del cinema di propaganda di Kokusako Eiga e alla fondazione degli studi JO di Kyoto che inaugurarono nel 1933 il dipartimento di animazione che avrebbe rappresentato per anni una delle principali fucine del paese. Particolare rilevanza assume l’episodio del bombardamento nucleare su Hiroshima e Nagasaki, che segna un momento di svolta nel panorama storico, sociale e culturale del Giappone e che lascerà un segno profondo in tutte le manifestazioni culturali del dopoguerra, incluso il cinema di animazione. Quest’ultimo si farà portavoce tanto della nuova propaganda di rieducazione governativa quanto dei valori, delle riflessioni e dei temi legati al conflitto: un esempio particolarmente significativo riguarda la presenza costante dei bambini orfani fra i protagonisti del cinema d’animazione, che segnala la grande problematica sociale degli orfani di guerra e dei bombardamenti, ma anche la presenza di creature mostruose legate agli esperimenti termonucleari, come il famoso Gojira (Godzilla), prodotto alla Tōhō nel 1954 per la regia di Honda Ishirō e pioniere del nuovo genere dei “film sui mostri” (kaijū eiga).

 

Non mancano, nelle pagine di Novielli, squarci di approfondimento sui momenti di confronto fra le produzioni di animazione giapponese e i rappresentanti culturali del mondo occidentale, includendo le forme di assimilazione culturale che il paese del Sol levante ha affrontato nella sua storia, in particolare nel filo rosso che lo connette al mondo degli USA soprattutto nella fase di occupazione del Paese. Si segue poi il percorso di ricostruzione che “anima” il Giappone dagli anni ’50: anni che vedono i nuovi progressi cinematografici del genere della “puppet animation”, l’animazione con pupazzi sviluppata da Mochinaga Tadahito, le sperimentazioni creative di Tezuka Osamu nel genere fantascientifico (con la realizzazione del famoso Astro Boy, antesignano di quella stirpe di robot combattenti in cui rientrano anche Gundam il guerriero meccanico di Tomino Yoshiyuki, 1978, e il post-apocalittico Neon Genesis Evangelion creato da Anno Hideaki, 1995), la fondazione della società di animazione Tōei nel 1951, che iniziò la produzione di lungometraggi animati in grado di equivalere alla popolarità e alla qualità di quelli disneyani (lungometraggi che vennero affidati, fra gli altri, a Yabushita Taiji e a Takahata Isao). Questi intensi anni di sperimentalismo sono ricostruiti con grande attenzione nel saggio in questione, che ne ripercorre le tappe storiche e i loro capisaldi attraverso uno sguardo concentrato sulle innovazioni tecniche apportate negli anni ’60 e sulle attività creative dei nuovi pionieri del “cinema d’avanguardia”, ma anche sulla diffusione di nuovi macrogeneri del cinema d’animazione degli anni ’70 e ’80, come l’erotico e l’esotico, l’action e il pink, ma anche la robotica di Mori Masahiro e di Nagai Gō (pseudonimo di Nagai Kiyoshi, ideatore di Mazinga Z diffuso dal 1972) e l’horror o sovrannaturale (shinrei mono eiga) di ampissima diffusione. Anche in questi capitoli non manca l’attenzione dell’autrice per le sperimentazioni individuali del cinema “indipendente” di Kuri Yōji, Tanaami Keiichi, Aihara Nobuhiro, Yamamura Kōji e Kawamoto Kihachirō, che vengono ripercorse nei loro aspetti di originalità e di peculiarità. Un ultimo, denso capitolo ripercorre infine la collaborazione fra Takahata Isao e Miyazaki Hayao, sodalizio iniziato alla Tōei e sancito dalla fondazione del celebre Studio Ghibli nel 1985, di cui si ripercorrono i successi e le problematiche, gli aspetti di originalità fino all’eredità lasciata dai due grandi registi, in una vicenda che si intreccia con le tematiche delle produzioni degli ultimi decenni del Novecento che vanno dall’action al cyberpunk, dai temi bellici alla tecno-sessualità, dallo psycho-horror all’interesse per la tecnologia, la mente umana e la memoria, fino alle nuove prospettive aperte dal web dopo il 2000.

 

Il saggio di Novielli ripercorre con limpidezza ed esaustività un panorama complesso, di cui si dipinge con attenzione e accuratezza la storia in tutte le sue sfaccettature, attraverso un linguaggio diretto e una costruzione chiara, che non tralascia le trame di ciascuna produzione e la contestualizzazione adeguata nell’ambito del panorama storico e culturale da cui si origina. Anche il lettore meno esperto ha l’opportunità di addentrarsi nelle complesse vicende del genere, grazie alla guida puntuale di Novielli e all’offerta di un glossario in appendice al saggio, che si rivela molto utile per orientarsi nella terminologia specifica di questo studio. Animerama risulta, in definitiva, utile sia per gli studiosi del settore, sia per il lettore incuriosito che desidera orientarsi nel complesso e celebrato panorama del cinema d’animazione giapponese, tanto nelle sue produzioni più conosciute che per la molteplicità di opere anche molto distanti dal mainstream.

 

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In viaggio verso Oriente, guidati da Petrarca

Oggi, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso. Da molti anni mi ero proposto questa gita; come sai, infatti, per quel destino che regola le vicende degli uomini, ho abitato in questi luoghi sino dall’infanzia e questo monte, che a bell’agio si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi. (Familiares, IV, 1)

 

Con queste parole si apre l’Epistola in cui Francesco Petrarca narra della sua esperienza di viaggio “alpino”, una scalata al monte Ventoux, in Provenza, in compagnia del fratello Gherardo. Il tema del viaggio è centrale nella poetica e nella scrittura di questo autore, che incarna un perfetto homo viator del Medioevo, ma che inaugura soprattutto un modo di osservare il paesaggio del tutto nuovo, secondo una sensibilità decisamente moderna.

 

L’aspirazione immediata del poeta è quella di salire, di compiere un movimento di ascensione che gli permetta di vedere: dopo aver avuto davanti agli occhi quel monte durante la giovinezza, Petrarca vuole ora coglierne l’altezza, ossia vedere ciò che dalla cima si può scorgere, senza quell’impedimento alla vista costituito dalla montagna stessa. Ciò che viene affrontato subito è il rapporto tra visibilità e invisibilità in quanto tali, non c’è quindi ancora una sovrapposizione metaforica tra altezza fisica e altezza spirituale: ciò che interessa qui al soggetto non è compiere un pellegrinaggio religioso, non è la realizzazione di un percorso spirituale sul modello di una imitatio Christi, non è nemmeno una conquista morale o spirituale. Al contrario, si tratta per il poeta di un desiderio visivo, il soddisfacimento di una “pulsione scopica”, nell’ambito di uno spazio geografico.

 

Una volta giunto sulla sommità del monte, la sua vista non si dirige affatto verso l’alto, verso il polo spirituale per eccellenza, bensì al paesaggio sottostante, al paesaggio italiano, che Petrarca può ammirare tramite l’altezza raggiunta: questo sguardo verso il basso è stato letto da Stierle come l’«inversione di uno schema della percezione transmondana», ossia una visione che stabilisce il nuovo paesaggio «dell’orizzontalità, dell’immanenza del mondo». Lo sguardo del poeta, giunto all’estremo nord dell’Italia, la contempla ora da una posizione privilegiata, nella posizione tipica della cartografia, che dalla sommità nord descrive ciò che si distende verso il sud. Ma la visione che il soggetto descrive non è una visione naturale, bensì una veduta in qualche modo “elencativa” di luoghi geografici: Petrarca non sale per poter scoprire un “sentimento della natura”, ma sale, provvisto di tutta la sua cultura, per gettarla nella nuova esperienza dello sguardo e trovarsi nel cuore dell’avventura della sua rappresentazione visiva.

 

Il tema della rappresentazione del paesaggio in letteratura si unisce in maniera indissolubile a quello del viaggio, del movimento dello spazio e dell’organizzazione dello sguardo del soggetto che compie l’itinerario. La rappresentazione del paesaggio costituisce una costruzione dello “spazio esteriore” che si oggettiva, diventa oggetto di uno sguardo compiuto dal soggetto: un mondo che, attraverso l’operazione di osservazione (intimamente soggettiva) trova una dimensione di oggettività. Ma lo sguardo del soggetto che ritaglia uno spazio nel paese, facendolo divenire paesaggio, non è solo uno sguardo estetico: l’operazione di “oggettivizzazione” del mondo è infatti, al contempo, un’operazione di auto-osservazione. In questo, Petrarca mostra tutta la sua sensibilità nella costruzione di un «senso del tutto personale del paesaggio». Come commenta Jakob nel suo studio sul paesaggio letterario:

 

Il paesaggio letterario implica sempre la prospettiva di un osservatore o di una coscienza; esso emerge solo quando un soggetto guarda il mondo vis-à-vis, dove egli non solo è nel mondo, ma percepisce il mondo come ciò che si dispiega davanti ai suoi occhi. A questo riguardo Petrarca segna un passaggio e una netta soglia epocale, poiché la poesia diventa per lui, diversamente che per Virgilio e per Dante, strumento di auto-osservazione soggettiva.

 

Viaggio e osservazione del paesaggio sono al centro anche di un altro testo relativo alla costruzione di un “panorama italiano”, secondo una prospettiva eminentemente cartografica: si tratta dell’Itinerarium syriacum, una sorta di “guida” scritta da Petrarca nel 1358 per l’amico Giovanni Mandelli. Mandelli aveva infatti intenzione di compiere un pellegrinaggio verso Oriente, in Terra Santa, e aveva invitato Petrarca ad accompagnarlo: come sappiamo, però, Petrarca non partì mai con l’amico (e probabilmente nemmeno lo stesso Mandelli effettuò mai realmente il viaggio), giustificando questa sua defezione con la paura del mare che gli derivava dalle tempeste viste e descritte in alcune epistole familiari. Tuttavia, Petrarca non vuole lasciare l’amico illustre senza una guida e scrive per lui questo itinerario in forma epistolare, basandosi sulle proprie esperienze di viaggio (sulle sue vicende biografiche relative agli spostamenti italiani) e su memorie letterarie e culturali, scegliendo come modello gli itineraria ad loca santa che guidavano i pellegrini verso i luoghi santi della Cristianità.

 

Una delle particolarità della guida di Petrarca rispetto a questo genere risiede nel punto di vista sfacciatamente italiano, anzi tirrenico, assunto dall’autore. Infatti il porto di partenza dei pellegrinaggi per il medio oriente era abitualmente Venezia, ma Petrarca sceglie di impostare il viaggio facendo partire l’amico dal porto di Genova, che in questo ruolo è assente dagli itinerari medievali. La scelta ricade su Genova proprio perché è da lì che il poeta tante volte si è imbarcato per Napoli o per tappe intermedie, venendo dalla Francia. Percorrendo questo giro, Petrarca traccia un percorso che ha come tappe luoghi dal poeta effettivamente conosciuti: Rapallo e Sestri, Lerici e Portovenere, Luni e Massa, Viareggio e Lucca, Pisa e Livorno, l’Elba e il Giglio, Populonia e l’Argentario fino a Ostia, per poi continuare lungo Terracina e Gaeta fino a Cuma e Napoli, Somma Vesuviana e Capri, fino alla Calabria e alla Sicilia, e solo alla fine si decide a salpare verso la Grecia, e di lì a Cipro e in Siria, dedicando esclusivamente gli ultimi cinque capitoli a quello che doveva essere lo scopo del viaggio verso Oriente. Per ogni luogo, l’autore descrive un ricordo personale, una citazione letteraria o inserisce una spiegazione antiquaria, costruendo un apparato che prescinde quasi totalmente dalla finalità religiosa per costituire una mappa culturale. A fare da tessuto connettivo fra le varie descrizioni risultano le esortazioni dell’autore all’amico, affinché quest’ultimo diriga il suo sguardo sui luoghi che gli vengono indicati: e sono proprio i verba videndi a costruire le varie sequenze del viaggio, a svolgere una funzione di connessione fra le varie tappe illustrate.

 

[26] Continuando troverai a sinistra le foci del Tevere mentre la Sardegna rimane a destra. Sulla riva del fiume c’è Ostia, colonia del quarto Re di Roma Anco Marzio che la pose proprio lì, dove il Tevere sbocca nel mare in quanto già da allora, come scrive Floro, presagì quello che sarebbe divenuta: “una sorta di porto marittimo di Roma, dove venissero raccolte merci e ricchezze del mondo intero”. Quando vi sarai giunto sappi infatti che Roma, la città regina, non dista più di dodici miglia. […] [31] É invece vero che son questi luoghi che si prestano a siffatti riti: vi è l’Averno e l’Acheronte, nomi tartarei; v’è l’ingresso di Dite, soglia da cui non si ritorna; e se la discesa in Averno, come dice il poeta, è facile in quanto la porta è aperta notte e giorno, ciò che è arduo e faticoso è la risalita… [32] E qui, sopra l’orribile riva del lago Averno, si vede la grande dimora della Sibilla Cumana ormai quasi distrutta dagli anni.

 

La destinazione finale del viaggio è appena accennata: l’interesse di Petrarca si concentra tutto sulla descrizione dei luoghi latini e greci e sulle memorie culturali e antiquarie che ad essi si collegano. Si vede bene in questo passo come il focus della descrizione si rivolga ai luoghi cari alla storia e alla letteratura antica, che costituiscono un grande omaggio agli scrittori classici e, in particolare, ai luoghi di memoria virgiliana. Appare chiaro che lo scopo dell’Itinerarium vada ben oltre alla volontà esplicitata a livello narrativo di fornire una guida per un viaggio, ma che il percorso si configuri piuttosto come il pretesto per una descrizione letteraria dei luoghi d’Italia e del loro valore storico, culturale, letterario. Il “pellegrinaggio” nei luoghi sacri della cristianità viene intrecciato al pellegrinaggio umanistico nei luoghi della letteratura antica: ancora una volta, lo sguardo di Petrarca si dirige verso il basso, verso un panorama del tutto orizzontale e terreno, che ha il suo valore nei riferimenti culturali e letterari alla classicità. Il viaggio verso Oriente è quindi in primo luogo un viaggio culturale, compiuto da colui che Contini ha definito «l’irrequieto turista», che oltre ad indicare all’amico le tappe del suo spostamento, iscrive anche in qualche modo la sua vicenda umana di peregrinus all’interno dei luoghi della cultura classica.

 

Per saperne di più:

Il testo dell’Itinerarium syriacum di Petrarca si può facilmente leggere nell’edizione Guida al viaggio da Genova alla Terra Santa (Itinerarium Syriacum), traduzione di U. Dotti, Milano, Feltrinelli, 2018. Alcuni fra i molteplici contributi dedicati al paesaggio e al particolare ruolo di Petrarca nella storia della sua affermazione letteraria sono quelli di G. Bertone, Lo sguardo escluso. L’idea di paesaggio nella letteratura occidentale, Novara, Interlinea, 2000, di M. Jakob, Paesaggio e Letteratura, Firenze, Olschki, 2005 e di K. Stierle, Paesaggi poetici del Petrarca, in Il paesaggio. Dalla percezione alla descrizione, a cura di Renzo Zorzi, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 121-137.

 

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A tu per tu con la Natura: Il Dialogo leopardiano tra filosofia e immaginazione

Dopo un viaggio estenuante attraverso tutti i continenti della Terra, alla ricerca di un luogo favorevole alla vita tranquilla, un Islandese si ritrova a fare un sorprendente incontro nel mezzo del deserto africano: una statua vivente di donna dalle dimensioni enormi, seduta a terra, che l’uomo scopre essere la stessa Natura dalla quale andava fuggendo da tutta la vita.

Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell'isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata così un buono spazio senza parlare, all'ultimo gli disse.
Natura: Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?
Islandese: Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa.
Natura: Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi.
Islandese: La Natura?
Natura: Non altri.

 

L’Operetta leopardiana del Dialogo della Natura e di un Islandese realizza in modo meravigliosamente poetico un concetto filosofico di enorme portata, che anticipa un punto di svolta concettuale nella riflessione filosofico-esistenziale dell’autore: un confronto diretto fra l’uomo e il cosmo, inscenato nel dialogo fra uno specifico rappresentante del genere umano e la grandiosa Natura, nella sua forma sacra e maestosa di statua colossale. Il richiamo evidente per la situazione è quello di un confronto diretto fra un essere mortale e la divinità, la cui fonte si può far risalire, passando attraverso i dialoghi e i trattatelli filosofici sette-ottocenteschi con cui Leopardi sicuramente aveva avuto contatti, direttamente al modello di Luciano.

 

Nel caso dell’Operetta, l’uomo che si confronta con il divino ha precise connotazioni dovute alla provenienza geografica, in quanto si tratta di un Islandese. Il ritratto dell’abitante dell’Islanda, agli occhi di un europeo, veniva fornito da numerosi trattati scientifici e pseudo-scientifici, da lettere e racconti di viaggio, da trattati storici e geografici, che evocavano immediatamente i paesaggi sterili e ostili del paese nordico e conformavano le caratteristiche fisiche e intellettuali delle popolazioni sulla base di criteri geografici. Alla figura dell’Islandese, in particolare, erano affidati i connotati di eccellente vigore fisico e una grande capacità di resistenza alle nemiche forze naturali, quanto anche, d’altro canto, di un limitato sviluppo intellettuale causato direttamente dai rigori del clima. La scelta di Leopardi potrebbe essere ricaduta sull’Islandese per una serie di precise motivazioni tanto letterarie quanto ideologiche: non solo per le migliori caratteristiche fisico-morali con cui il ritratto di questa figura veniva dipinto agli occhi degli europei rispetto a quella del Lappone (che invece, per lo stesso motivo geografico, era ritenuto vittima di un mancato sviluppo intellettuale e dunque simbolo di imbecillità) e non solamente perché in generale esso costituiva la figura-simbolo dell’adattamento della specie umana ai più disparati contesti naturali, anche in un ambiente ad essa emblematicamente ostile come quello delle terre ghiacciate del Nord. A ben guardare, l’Islandese potrebbe infatti esprimere un’antitesi a questa stessa connotazione dell’Islandese affermata delle fonti settecentesche e al loro peso a livello immaginativo e culturale, conferendo all’interno del Dialogo della Natura e di un Islandese una posizione ideologicamente forte  ad un personaggio così defilato e dalle caratteristiche culturalmente pregiudicate agli occhi del lettore europeo, che si fa qui portavoce di un pensiero riguardante l’intera umanità (e, in particolare, della stessa posizione filosofica sostenuta dall’autore). Per Leopardi, infatti, il primato del genere umano sul mondo viene inteso solo alla luce di un pessimismo radicale, in quanto alla specie umana è riconosciuto il triste privilegio dell’infelicità, proprio perché l’uomo ha un maggiore desiderio di piacere e un maggiore amor di sé rispetto alle altre specie animali. L’Islandese, dunque, si fa qui portavoce dell’intero genere umano, dei suoi desideri sistematicamente infranti e della sua inevitabile, privilegiata infelicità, a causa della quale è chiamata la stessa Natura, la sua interlocutrice.

 

La figura della Natura viene immediatamente fatta risalire, tramite la citazione dello stesso Leopardi, ad alcuni possibili riferimenti iconografici e letterari in cui si rappresenta una figura umana dalle proporzioni enormi che si staglia di fronte a un osservatore. Il primo tra questi è il Canto V dell’opera Os Lusíades (I Lusiadi) di Luís de Camões (1572), epopea mitica dedicata al navigatore portoghese Vasco da Gama, il quale, durante la circumnavigazione dell’Africa, vede avanzare verso di sé quello che dapprima era stato un gigante, poi trasformato dagli dei nello stesso sperone roccioso del Capo africano. Un secondo riferimento, anche questo frutto di un rimando dello stesso Leopardi, è quello al Voyage autour du monde di Jean-François La Pérouse, che offre una veduta archeologica (anche attraverso alcune tavole illustrate) delle enormi teste femminili dell’Isola di Pasqua, su cui egli era sbarcato nell’autunno del 1785. Un’altra possibile fonte letteraria per la rappresentazione dell’immagine della Natura in un contesto esotico è quella della personificazione dell’Africa ad opera di Curzio Rufo, la quale gli appare come una figura femminile dalle proporzioni sovraumane e di incredibile bellezza. La personificazione dell’Africa, coerente con il testo leopardiano, viene ripresa anche all’interno dell’Iconologia di Cesare Ripa, nell’edizione senese del 1613 posseduta da Leopardi, in cui essa appare come una donna seminuda dalla carnagione scura, che regge in mano una cornucopia e presenta attorno a sé alcuni animali, fra i quali un leone accovacciato (animale che comparirà anche nel finale dell’Operetta). Secondo la proposta di Fedi, inoltre, ad aver costituito un possibile e diretto riferimento iconografico sarebbero state anche alcune rappresentazioni delle province africane all’interno dell’iconografia numismatica, ed in particolare i Dialogues upon the Usefulness of Ancien Medals di Joseph Addison (Londra, 1726). La rilevanza di questi riferimenti, oltre al ricorrere del riferimento all’Africa, si nota anche per quanto riguarda la posizione stante della figura di donna, semisdraiata e con un braccio sollevato, che ricorre frequentemente nelle rappresentazioni realizzate sul rovescio delle monete di età romana e che sembra avvicinarsi in modo convincente alla raffigurazione leopardiana della Natura. La postura in questione era in effetti piuttosto usuale all’interno dell’iconografia classica e, allo stesso modo, in quella neoclassica, e tuttavia i caratteri antropomorfi della donna di calma superiorità, di potenza occulta e feroce, nonché la sua posizione semisdraiata con il gomito poggiante su una montagna, sembrerebbero risalire ad una figura femminile archetipica, ma farebbero pensare anche ad una connotazione inerente al concetto di sublime settecentesco, in quanto essa unisce sul suo volto «il bello e il terribile».

 

Questa rappresentazione figurativa della Natura, vera e propria “immagine” posta in apertura ad una delle operette di maggiore portata concettuale e filosofica, è la rappresentazione di grande impatto immaginativo e figurativo di uno dei maggiori temi che vengono investiti della riflessione leopardiana, in una simbiosi fra elemento concettuale, che si traveste di immagine, e nucleo figurativo e sentimentale che, a sua volta, ingloba l’elemento filosofico. L’elemento immaginativo della situazione e del sublime ritratto della Natura è quindi contenuto, ma allo stesso tempo contenente, nel ragionamento affidato a questa Operetta, del confronto diretto fra i due protagonisti e del fronteggiarsi di due incompatibili finalità: «il fine della natura generale e quello della umana, il fine dell’esistenza universale e quello dell’esistenza umana o per meglio dire il fine naturale dell’uomo e quello della sua esistenza» (Zibaldone, 4128).

 

Il povero Islandese, infatti, dopo aver viaggiato «per cento parti della terra» alla ricerca di un luogo in cui poter essere felice e vivere pacificamente, conclude che questa condizione è assolutamente irrealizzabile, poiché ovunque l’essere umano appare perseguitato, aggredito, oppresso dalla Natura, in tutte le sue forme: dal clima ostile agli animali feroci, dalle malattie alla vecchiaia, fino alla morte. Con lucidità sofferta, l’Islandese formula una vera e propria accusa verso la maestosa Natura, identificando la profonda contraddizione di una figura che da un lato dona la vita e, al contempo, la rende un inferno di sofferenza senza scampo per i suoi stessi figli. La Natura è quindi, per l’Islandese, la vera nemica degli esseri umani:

Islandese: In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un'ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c'insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de' tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d'incalzarci, finché ci opprimi. 

Questo contenuto filosofico è rappresentato dalla consapevolezza leopardiana dell’incompatibilità del mondo naturale con la felicità dell’uomo. Se la presenza dei mali esterni, che determinano l’infelicità umana, era comunque presente all’interno di tutto il pensiero del recanatese, quello che ora viene puntualizzato è «la loro sistematicità nell’ordine delle cose naturali» (come osservato da Blasucci), rilevata dall’elenco di sventure pronunciato dall’Islandese. Per la prima volta si sviscera in termini espliciti la contraddizione insita nel sistema naturale, facendo così assumere a quest’ultimo connotati di crudeltà e indifferenza assoluti. Si svela, con la voce dell’Islandese, la contraddizione consistente nel «veder che il male è nell’ordine, che esso ordine non potrebbe star senza il male» (Zibaldone, 4511), un sistema in cui si pone a fondamento dell’ordine cosmico la stessa infelicità dei viventi, in virtù del fatto che il dolore è necessario al meccanico applicarsi delle leggi naturali di produzione e distruzione. Secondo le osservazioni di Blasucci, l’approdo del ragionamento è dunque il passaggio da una visione «sensistico-esistenziale a una considerazione cosmico-materialistica dell’infelicità» che si estende di necessità a tutte le creature. Così risponde alle accuse la bella e terribile Natura:

Natura: Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest'universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l'una o l'altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.

L’Operetta esprime dunque un contenuto dalla grande portata filosofico-esistenziale, attraverso il quale si compie un radicale superamento della visione illuministica del mondo e del sistema naturale: un pensiero che, tuttavia, è affidato ad una costruzione intimamente poetica, immaginifica, letteraria, non ad un vero e proprio trattato filosofico o ad un pensiero dello Zibaldone. Le Operette morali costituiscono in effetti un genere letterario peculiare, per la capacità di contenere al loro interno alcune nuove riflessioni dell’autore nell’ambito di un pensiero esistenziale e materialista: osservazioni che vengono adattate a una prosa costituita per nuclei propri e in grado di dominare le spinte contrastanti fra riflessione filosofica ed elemento poetico. É lo stesso Leopardi ad insistere sulla necessità di giudicare la propria opera dall’insieme, in modo sistematico, e a porre l’accento sulla volontà di delineare un percorso unitario considerando ciascuna Operetta non solo in sé, bensì come tassello di un insieme organico, e sulla consapevolezza del contenuto del proprio libro, «di argomento profondo e tutto filosofico e metafisico». Anche i motivi più sinceramente filosofici avvicinati nello Zibaldone appaiono qui rivestiti di elementi mitici, poetici, iconografici, che li rendono più vicini al polo “poetico”: e le stesse riflessioni qui raggiunte nelle Operette saranno poi il centro tanto delle riflessioni leopardiane nello Zibaldone, quanto elemento fondante della successiva produzione poetica leopardiana. Le parole dell’Islandese, che smascherano l’inganno della Natura, riecheggiano più tardi anche nella poesia A Silvia:

O natura, o natura, / 
perché non rendi poi / 
quel che prometti allor? perché di tanto / 
inganni i figli tuoi?

Nell’operazione letteraria di Leopardi si fondono speculazione filosofica e densità sentimentale, “entusiasmo della ragione” e “facoltà immaginativa”, lucido sguardo sulla realtà e onesta scoperta dell’arido vero, ma anche abilità letteraria e sfumatura poetica. La simbiosi fra elemento filosofico ed elemento poetico, fra polo analitico e polo sentimentale, è centrale nelle Operette morali, a sottolineare come le opere più densamente filosofiche siano anche le più intimamente poetiche. La matrice comune fra questi due poli è proprio l’immaginazione: una facoltà eminentemente poetica perché in grado di suscitare immagini, “figure”, “favole”, ma al fine filosofico e analitico di comprendere del reale, proprio in virtù dell’essenza stessa del mondo, di ordine autenticamente poetico. L’immaginazione è la chiave per unire ragione e sentimento, è la facoltà principe tanto della poesia quanto della filosofia, proprio in quanto permette di fondere insieme queste contraddizioni: è dunque l’immaginazione, quella capacità di illusione, che è al tempo stesso causa ed effetto delle Operette. Sono proprio le “figure” che travestono la verità, le “favole” che rappresentano il vero, attraverso il libero flusso dell’immaginazione poetica, che Leopardi ha recuperato in prosa nelle sue Operette: in questa opera dai molteplici linguaggi si dà voce a quella «intima tensione ad un’opera filosofica e poetica insieme» in cui emergono il densissimo fondo filosofico, di quella «filosofia dolorosa, ma vera», e il necessario complementare elemento poetico di immaginazione. Tutto questo si pone alla base di una rappresentazione intensamente filosofica e, al contempo, straordinariamente immaginifica come quella del Dialogo della Natura e di un Islandese.

 

Per saperne di più:

Le Operette morali si possono leggere nella recente edizione a cura di L. Melosi, Milano, Rizzoli, 2008. Alcuni contributi critici di rilievo, fra i molti prodotti, sono quello di Luigi Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985, quello di Walter Binni, Lettura delle Operette morali, Genova, Marietti, 1987, di Nicoletta Fabio, L’«entusiasmo della ragione». Studio sulle “Operette Morali”, Firenze, Le Lettere, 1995 e infine di Emilio Russo, Ridere del mondo. La lezione di Leopardi, Bologna, Il Mulino, 2017. Sui riferimenti figurativi dell’autore, si può vedere il saggio di Francesca Fedi, Mausolei di sabbia. Sulla cultura figurativa di Leopardi, Lucca, Pacini Fazzi, 1997.

 

 

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Fra le parole e le cose: di che cosa parla la letteratura? (Seconda parte)

[Leggi la prima parte]

 

Negli ultimi decenni, all’interno del variegato dominio di formulazioni teoriche finalizzate a descrivere lo statuto dell’opera d’arte letteraria – e, in modo particolare, a presentare la relazione intrattenuta da quest’ultima nei confronti della realtà contingente – si è sviluppata un’inedita attenzione verso il destinatario dell’opera. Se quindi inizialmente era stato l'autore ad essere assunto come punto di partenza dell'interpretazione del testo; tra gli anni Sessanta e Settanta, vede la luce la cosiddetta “teoria della ricezione”, interpretante la scrittura alla luce dell'azione produttiva condotta dal lettore sul testo. L’attenzione della teoria viene rivolta verso il destinatario del messaggio e così, all'interno dell'interpretazione letteraria, diviene centrale il momento ermeneutico (nel quale si dà l'interpretazione da parte del lettore) in contrasto, ancora una volta, con la visione strutturalista del testo inteso come entità autosufficiente.

 

Per alcuni studiosi, come H. R. Jauss e W. Iser, il testo letterario si pone in stretto rapporto con il lettore: ogni testo viene interpretato alla luce di un orizzonte di attesa (inteso come un orizzonte culturalmente definito, che determina i giudizi estetici del pubblico), ma anche in ragione di un lettore implicito del testo, un’istanza che funziona come modello orientativo che può indirizzare l’interpretazione del singolo “lettore reale”. Questa visione sottolinea come il testo si attualizzi solo nell’atto della lettura, ossia in una sorta di collaborazione tra autore, opera e lettore, all'interno di un più generale completamento reciproco e di un incontro tra le rispettive prospettive di partenza. Tale impostazione teorica è ripresa anche da S. Fish, il quale parla di comunità interpretative designando il lettore come membro di una comunità le cui assunzioni sulla letteratura determinano il suo rapporto ermeneutico sul testo e, dunque, il modo in cui il lettore “fa” il testo, ‘producendolo’.

 

La teoria letteraria è però andata ancora più a fondo nel cercare di identificare come il testo letterario e il lettore si rapportino e si influenzino reciprocamente: l’attenzione è stata quindi concentrata sul rapporto che la letteratura permette di istituire con l’essere umano, prima ancora che con la realtà delle cose, assumendo come prospettiva di partenza una concezione del testo come entità “costruita” di volta in volta sulla base dell’interpretazione del lettore. In questo modo si è cercato di comprendere il legame profondo che unisce le dinamiche letterarie e le dinamiche emotive e cognitive di ogni essere umano, individuando come il discorso letterario sia la riproduzione di dinamiche profondamente legate al modo in cui ogni soggetto organizza la sua esperienza del mondo. Due prospettive rilevanti in questo senso sono quella di R. Girard sul desiderio mimetico e quella di F. Orlando sulla letteratura come luogo di ritorno del represso: entrambe individuano nei testi alcune dinamiche che rispecchiano una struttura antropologica profonda dell’Io; entrambe mettono a nudo un meccanismo primario nel quale si cela il “funzionamento” stesso dell’Io, in termini antropologici, psicoanalitici, sociali. 

 

Per Girard, tale meccanismo è identificato nel desiderio mimetico, ossia la concezione della costruzione mediata di ciascuno dei nostri desideri. Semplificando, si può dire che per il critico ogni nostro desiderio non esista di per sé, in modo autentico e spontaneo, ma sia invece influenzato dal prestigio che ha per noi una determinata persona o un’istanza (il mediatore) che è titolare di quell’oggetto desiderato. Viene quindi individuata la dipendenza della formazione del nostro desiderio, della nostra trama psicologica, sulla base di questo meccanismo triangolare (ai cui vertici si pongono il soggetto che desidera, l’oggetto desiderato, e il mediatore). Il punto di arrivo teorico è la demistificazione della concezione della soggettività desiderante come entità autonoma e la stessa “naturalità” del desiderio, un’osservazione che viene raggiunta proprio attraverso un’analisi di testi letterari. In questo senso, la letteratura si presenterebbe, in qualche modo, come lo specchio del funzionamento dell’Io e dei suoi comportamenti, ad un livello molto più profondo di quanto sia percepibile dallo stesso lettore. Allo stesso tempo, però, la letteratura sarebbe anche in grado di inserirsi in questo modello di desiderio triangolare occupando il posto del mediatore, facendo così da modello per i nostri desideri, offrendoci un contenuto esperienziale in grado di influenzare il nostro stesso comportamento sociale. È quello che succede, ad un livello estremo, all’interno del vissuto di personaggi come Don Chisciotte e Madame Bovary, i quali costruiscono i loro desideri e comportamenti (e, se così si può dire, tutta la loro “esistenza”) sulla base di un modello puramente letterario. Nelle loro vicende, è possibile distinguere chiaramente il legame che le parole hanno avuto sui lettori, al punto che per questi è divenuto impossibile scindere i due piani di realtà, quello storico-contingente e quello fittizio-letterario. Possiamo quindi comprendere come Girard suggerisca che la letteratura rispecchi delle dinamiche individuali, fornendo al contempo anche gli stessi modelli attraverso i quali i nostri comportamenti sociali e i nostri desideri prendono forma: una risposta a quanto si chiedeva a questo proposito Compagnon (a sua volta riprendendo una massima di La Rochefoucauld), «ci innamoreremo se non avessimo mai letto una storia d’amore, se non ce ne avessero mai raccontata una?». In termini girardiani, no!

 

Orlando è invece il responsabile dell’individuazione di un modello retorico a partire dalle riflessioni di S. Freud, tramite il quale egli giunge a spiegare la letteratura come spazio in cui si manifestano delle istanze consce, ma “represse” dai codici sociali, morali, estetici. Questo critico nota come il linguaggio letterario segua una serie di meccanismi analoghi a quelli che Freud aveva individuato nei sogni, nei lapsus, e che aveva fatto risalire ad una zona “inconscia” della psiche, giungendo a proporre una logica letteraria caratterizzata dal compito di veicolare in modo nascosto, deviato, figurale, una serie di istanze “represse”, senza che il soggetto ne fosse consapevole (in netta antitesi con le posizioni aristoteliche). Questa particolare logica è quella che Matte Blanco ha definito simmetrica o onirica e che, per Orlando, permea l’intero linguaggio letterario, al fine di offrire al messaggio del testo la possibilità di venire espresso, aggirando la censura repressiva fornita dalla logica e dalla realtà e permettendo così l’enunciazione di istanze divergenti rispetto a codici morali e ideologici dominanti. 

 

In qualche modo, per Orlando, la letteratura sfida le regole formali del parlare e del pensare, ma sfida anche le nostre comuni convenzioni e convinzioni: in quest’ottica, potremmo definire “letteratura” tutto ciò che crea nessi originali tra pensiero e realtà (nessi che trasgrediscono entro certi limiti le regole del pensiero e del linguaggio) e tutto ciò che permette questo ritorno del represso, reso fruibile tramite il gioco della finzione letteraria, la quale in qualche modo lo sublima e lo rende accettabile, inserendolo nel mondo (finto, dunque protetto e innocuo) delle parole. Per Orlando la letteratura «ci parla di tutto ciò che nella società agisce sotto traccia ma incessantemente, di quanto non è ancora stato pienamente compreso e articolato, ma tuttavia esige di essere almeno evocato, suggerito, fantasticato». Siamo forse arrivati a ribaltare i termini in cui era tradizionalmente intenso il rapporto della letteratura con il mondo e mediante i quali si definiva in termini teorici la stessa letteratura, qui riconosciuta come vero e proprio ‘fenomeno sociale’.

 

Grazie alle riflessioni di questi autori viene così riconosciuta la valenza cognitiva e sociale della letteratura, prodotto organizzato attraverso processi e logiche analoghe a quelle cognitive (tramite le quali l’uomo ordina la sua esperienza della realtà), nonché la sua capacità di influenzare il nostro stesso agire sociale. Possiamo quindi concludere che la letteratura, sempre ed inevitabilmente, ci parla dell’uomo: non è mai imitazione piatta del reale, ma sempre specchio dell’esperienza cognitiva, emotiva e sociale dell’essere umano e del suo sforzo continuo di dare un senso alla realtà. Per dirlo con le parole di Proust: «In realtà ogni lettore, quando legge, è il lettore di sé stesso. L’opera è solo una sorta di strumento ottico che lo scrittore offre al lettore per consentirgli di scoprire ciò che forse, senza il libro, non avrebbe visto in sé stesso. Il riconoscimento dentro di sé, da parte del lettore, di ciò che il libro dice, è la prova della sua verità». 

 

Questa interpretazione della letteratura offre l’occasione di comprendere attraverso i testi le dinamiche comportamentali e sociali che pertengono e caratterizzano l'essere umano, giungendo infine ad avvalorare la tesi secondo cui il mondo della ‘scrittura’ sia capace di influenzare quello della ‘realtà’ (lo abbiamo visto con Girard e con Orlando). La relazione fra le parole della scrittura e le cose del reale passa dunque attraverso l’esperienza dell’uomo, attraverso il suo desiderio e bisogno di dare una forma alla realtà, giungendo a prendere parte all'interno della ricerca del senso operata dall'essere umano nei confronti dell'esistente. 

 

In conclusione, chiarire che cosa significhi e come funzioni la letteratura significa tentare di dare una spiegazione al modo in cui ci rapportiamo ad essa e al mondo, tentare di esplorare e chiarire le modalità attraverso cui organizziamo la nostra stessa esperienza del reale e con cui le diamo un senso.  La nostra riflessione aveva preso l’avvio a partire dalla questione inerente al rapporto che il libro intrattiene con il reale, con il mondo delle cose alla base della nostra realtà. Giunti a questo punto, sembrerebbe possibile proporre una risposta a tale interrogativo, affermando che tale relazione tra parole e cose sia creata da noi stessi nel momento in cui ci immergiamo nel mondo finzionale della letteratura, mondo all'interno del quale è possibile riconoscere il darsi del senso che anima anche la nostra interpretazione ordinaria del reale. Come scrive G. Paduano:

 

«La poesia non è imitazione generica della realtà, ma di una dimensione specifica che della realtà fa comunque parte, ed è l’irriducibile tendenza dell’uomo a dare un senso alla propria esistenza, il bisogno di negare la terribile definizione di Macbeth, che la vita sia “il racconto di un idiota, pieno di suono e di furia, che non significa niente”».

 

 

 

Per saperne di più:

Due recenti pubblicazioni che inquadrano e riassumono il problema qui trattato sono quelle citate nell’articolo: Guido Paduano, Il testo e il mondo. Elementi di teoria della letteratura, Torino, Bollati Boringhieri, 2013; Stefano Brugnolo, Davide Colussi, Sergio Zatti e Emanuele Zinato, La scrittura e il mondo. Teorie letterarie del Novecento, Roma, Carocci, 2016. Un altro contributo che ripercorrere questo amplissimo dibattito è quello di Antoine Compagnon, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Torino, Einaudi, 2000.

 

 

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Fra le parole e le cose: di che cosa parla la letteratura? (Prima parte)

Quando si apre un libro e ci si immerge fra le sue pagine, in quel prodigioso e un po’ misterioso “mondo” della letteratura, si compie un’operazione semplice e familiare, sulla quale forse non ci si è mai soffermati con troppa attenzione. Eppure, a ben guardare, questa semplice operazione suggerisce una serie di problemi molto complessi: innanzitutto, in cosa consiste questo particolare “mondo" letterario, composto di parole? E poi, ancora: quale rapporto intrattiene questo mondo con quello “al di qua” della pagina, ossia con la sfera della realtà primaria, che comprende proprio noi che apriamo il libro insieme a tutta la realtà che ci circonda? La letteratura ci parla del nostro mondo, lo imita, lo rispecchia, oppure si tratta di un gioco completamente fine a sé stesso, che non condivide alcun punto di contatto con la realtà al di fuori di sé? 

 

Un testo che leggiamo si pone in una qualche relazione con il mondo della realtà, come un diaframma ‘mediatore’ in grado di mettere in relazione le parole e le cose, nonostante la loro inevitabile distanza. Chiedersi quale sia la relazione fra queste, ossia fra la letteratura e la realtà primaria, significa porsi un problema complesso, che apre a sua volta una serie di interrogativi tanto vasti quanto affascinanti: il più immediato, ed estremamente difficile, è proprio quello che riguarda una definizione della letteratura. I tentativi di risposta a tale questione, provenienti dagli studi condotti nell'ambito disciplinare della "teoria della letteratura", trovano una puntuale esposizione all'interno di due recenti contributi critici, i quali presentano sin dal titolo l'intenzione di mettere a fuoco il problema del rapporto fra parole e cose: il primo è di Guido Paduano, Il testo e il mondo. Elementi di teoria della letteratura (2013); il secondo è quello curato da Stefano Brugnolo, Davide Colussi, Sergio Zatti e Emanuele Zinato, La scrittura e il mondo. Teorie letterarie del Novecento (2016). In quest’ultimo leggiamo una messa a fuoco del problema nei termini che seguono:

 

In fondo, cercare di comprendere cosa sia, come funzioni, a cosa serva la letteratura significa cercare di comprendere che tipo di relazione intercorra tra le parole e le cose, tra i testi e la vita che conduciamo, e significa anche chiedersi se e come, rappresentando e raccontando il mondo, possiamo dargli un senso condiviso.

«Rappresentare» e «raccontare» il mondo, come qui si è detto, sono operazioni apparentemente semplici, ma in realtà estremamente complesse, che presuppongono di volta in volta un certo tipo di rapporto fra parole e cose, scrittura e realtà, interpretato a seconda della prospettiva con cui si osserva il problema. Dire che la letteratura racconta il mondo, infatti, conduce a chiederci come lo faccia: se lo rispecchi in maniera fedele oppure secondo modalità deformanti, se il suo significato possa esercitare una particolare influenza sul mondo o se, viceversa, sia tutto racchiuso nei termini di un’azione univoca del mondo su di esso, e ancora se la letteratura diffonda delle immagini della realtà che confermano l’ordine vigente e precostituito o, di contro, se ne proponga di originali, scomode, e nasconda quindi un potenziale innovativo e sovversivo. Ripercorrere brevemente i tentativi di risposta a questi complessi quesiti ci permetterà di avere un’idea della complessità delle implicazioni generate da un problema come quello introdotto fin qui e ci consentirà di riflettere, seppur in maniera schematica, seguendo le orme di alcune meditazioni che hanno riguardato i rapporti tra parole e cose nell’ambito della teoria della letteratura.

 

Un primo approccio al problema della letteratura come ‘rappresentazione’ sostiene che essa sia una mimesi del mondo, ossia si rapporti ad esso attraverso un’operazione di pura rappresentazione e rispecchiamento. Questa prospettiva si definisce mimetica e intende la letteratura come uno “specchio” del mondo, secondo osservazioni che risalgono ad Aristotele e alla sua teorizzazione espressa nella Poetica. A questa si oppone una visione definita, per contrasto, anti-mimetica, teorizzata a partire dalla metà dell’Ottocento (con le osservazioni di Poe e Baudelaire), la quale ritiene invece che la letteratura non rappresenti altro che sé stessa, ossia che essa costituisca un gioco autonomo e indipendente dalla realtà primaria. Questo approccio, che supporta la linea dell’“autonomia del bello”, sarà sviluppato nel Novecento da diverse teorie letterarie vere e proprie, venendo quindi radicalizzato al punto da essere definito 'concezione autoreferenzialista' della letteratura. 

 

Questa distinzione è una preliminare bipartizione delle funzioni letterarie in relazione ai rapporti con la realtà primaria e va presa in considerazione assieme ad altri fattori, o meglio, ad altri orientamenti metodologici, che hanno permesso di formulare diverse interpretazioni della letteratura nella storia della teoria letteraria. Un primo approccio seguito dalla critica, definibile come storicistico, si è concentrato sulla necessità di interpretare il testo alla luce di un suo preciso inquadramento all’interno di un determinato contesto storico-culturale. Questa visione ha concentrato la sua indagine su istanze esterne al testo, favorendo primariamente la ricostruzione e l'inquadramento storico-culturale di un'opera e la vicenda biografica del suo autore. In virtù di tale particolare attenzione riservata all’autore, questo approccio è stato definito anche biografistico, caratterizzandosi inoltre per il suo notevole impiego da parte della critica letteraria ottocentesca (con particolare rifermento al critico Sainte-Beuve). Ben presto, tuttavia, le critiche che interessarono tale modello (inerenti all'accusa di trascurare le peculiarità della costruzione formale del testo e della sua fruizione a vantaggio di elementi ad esso esterni) ne determinarono una crisi, alla quale seguì di conseguenza l'elaborazione di una serie di prospettive differenti, finalizzate a riportare l'attenzione sull'opera letteraria per coglierne le peculiarità interne. Dell’esigenza di considerare le parole per sé stesse, separandole quindi dal loro rapporto con le cose ed eliminando dall’orizzonte dell’analisi i loro legami con il mondo esteriore (il contesto e l’autore), si sono fatte portavoce alcune visioni differenti della della letteratura, fornendo una risposta alle formulazioni dello storicismo. Da un lato, si trova quella crociana (dal nome di Benedetto Croce) di tipo neo-idealista, che respinge completamente la contestualizzazione storica e la ricerca erudita sulle opere. Dall’altro, in una direzione differente, la prospettiva adottata dai formalismi (termine che deriva dall’attenzione riservata all’aspetto formale del testo, ossia alla sua forma e struttura) all'interno della quale il testo è pensato come un enunciato linguistico dotato di particolari proprietà, le quali sono analizzabili – da un punto di vista formale – in termini retorici e poetici.

 

L’etichetta di formalismo, generalizzando, unisce sotto di sé differenti riflessioni – da quella linguistica (di De Saussure) a quella strutturalista (che annovera tra gli altri, pur con le loro specificità, gli studi di Propp, Barthes, Genette, Lévi-Strauss) – e individua lo scopo della critica letteraria nella ricerca di strutture interne al testo stesso, concentrando tutta l’attenzione sulle parole (e quindi sulla forma) del testo. Lo strutturalismo, in particolare, ha rappresentato una nuova modalità di intendere tutte le cosiddette “scienze umane”, presentandosi sulla scena della teoria novecentesca come l'ultimo tentativo sensibile verso l'ipotesi che descrive il testo letterario come definibile sulla base di particolari caratteristiche formali e slegando completamente le parole dalle cose. Dall’ambiente strutturalista, dominante il decennio d’oro della critica letteraria (1962-1972), ha in seguito preso forma la concezione della letteratura come gioco citazionistico, ossia l’interpretazione di ogni testo nei termini di un “mosaico di citazioni” (secondo Kristeva, in una dinamica di intertestualità). Il testo letterario è stato quindi interpretato come il frutto di disseminazioni intertestuali provenienti e rimandanti ad altre opere, all'interno di un tentativo teorico che racchiude così l'intero mondo della letteratura in un gioco di riferimenti a sé stessa e che interpreta le parole in relazione non alle cose, ma rinvianti ad altre parole, in un vasto e dinamico sistema testuale.

 

Un simile approccio che slega ogni rapporto fra parole e cose e che ha l’ambizione di spiegare l’intera letteratura come un insieme di strutture e funzioni linguistiche è stato inevitabilmente avvertito come riduttivo. Una riapertura dell’orizzonte di riflessione della teoria letteraria verso una nuova disponibilità allo studio delle dinamiche e dei rapporti che uniscono la letteratura alla realtà è stata perseguita riprendendo la prospettiva freudiana e quella marxista. Queste due visioni riportano al centro, ancora una volta, il rapporto fra il testo letterario e il suo contesto: contesto rispettivamente interpretato in termini psicoanalitici (da un filone di studi di ispirazione freudiana) e in termini economico-culturali (in relazione al pensiero marxista e alla sua interpretazione dei sistemi culturali e letterari come una “sovrastruttura”, come riflesso dell’ideologia della classe dominante).

 

Attorno alla metà del XX secolo prende così forma un particolare orientamento metodologico, punto di congiunzione di queste due prospettive e fortemente debitore della lezione psicoanalitica e sociologica del Secolo, il quale si concretizza nell’operato teorico della “Scuola di Francoforte” (in particolare negli studi di Adorno e Horkheimer). L’intento diviene quello di comprendere le interferenze e le influenze fra la nuova industria culturale e i rapporti sociali, in particolare interpretando la cultura (o, meglio, quella che veniva intesa come una sua forma di degenerazione) come un “mascheramento” del reale operato dalla classe dominante, una forma di repressione e di annullamento di qualsiasi spinta alternativa e sovversiva. Il rapporto tra parole e cose viene così riportato al centro dell'attenzione, attribuendo alla letteratura non il ruolo di ‘rispecchiare’, bensì quello di dare forma ad una particolare realtà caratterizzata da “false immagini” e dominata da una classe dominante allo scopo di consolidare e mantenere lo status quo del sistema capitalistico. La letteratura finisce quindi per rappresentare il terreno su cui si giocano i rapporti di forza del mondo sociale e la teoria letteraria diviene, di conseguenza, il luogo di indagine dei nessi tra arte e società (riflessioni che accomunano anche gli scritti di Gramsci e la sua interpretazione della cultura come egemonia)

 

Le parole vengono così poste in una nuova relazione con le cose, ossia con particolari e specifiche realtà di tipo psichico o di tipo sociale e culturale, nel tentativo di dare risposte al problema dei rapporti fra forme artistiche e conflitti psichici ed economico-sociali. La riflessione sui contatti fra la scrittura e il mondo si arricchisce quindi di molti contributi e diviene centrale nella speculazione degli intellettuali. Su questa via, prese in esame le dinamiche con cui i sistemi culturali influenzano e mutano i paradigmi dell’arte e quindi anche della letteratura, quest’ultima smette di essere considerata come un ‘documento’ del passato o un ‘oggetto’ da analizzare da un punto di vista prettamente formale, finendo invece per aprirsi sempre più al presente delle cose ed alla realtà che la abita.

 

 [Leggi la seconda parte]

 

 

Per saperne di più:

Due recenti pubblicazioni che inquadrano e riassumono il problema qui trattato sono quelle citate nell’articolo: Guido Paduano, Il testo e il mondo. Elementi di teoria della letteratura, Torino, Bollati Boringhieri, 2013; Stefano Brugnolo, Davide Colussi, Sergio Zatti e Emanuele Zinato, La scrittura e il mondo. Teorie letterarie del Novecento, Roma, Carocci, 2016. Un altro contributo che ripercorrere questo amplissimo dibattito è quello di Antoine Compagnon, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Torino, Einaudi, 2000.

 

 

 

 

 

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Lo sguardo del viaggiatore: la letteratura odeporica e l’osservazione del mondo

Quello fra il viaggio e la letteratura è un rapporto molto stretto, un «nesso privilegiato» che ha intrecciato fin dalle origini le imprese di viaggio dell’essere umano e l’atto di scriverne, di farne un racconto, di condividerle con gli altri. Le situazioni che hanno riguardato gli spostamenti dei viaggiatori nella vicenda umana, i loro movimenti nello spazio e nel tempo, sono legate a molteplici motivazioni, segnate tanto da questioni religiose e legittimazioni simboliche (come nel caso del fenomeno dei pellegrinaggi), quanto da ragioni scientifiche e geografiche, per scopi pedagogici e formativi (ad esempio nei particolari viaggi del Grand tour), oppure ancora per l’espansione dei commerci, ma anche per motivi forzati, quali l’esilio. A tutte queste esperienze, come forse all’esperienza del viaggio in sé e per sé come situazione di mutamento e di trasformazione, è da sempre associata l’operazione della scrittura, quasi come se l’azione del raccontare il viaggio, attraverso il recupero scrittorio e memorialistico di questa esperienza, costituisse una parte imprescindibile delle finalità del viaggiare stesso.

 

La relazione fra viaggio e letteratura è stata esplorata a livello teorico, innanzitutto intendendo il testo come forma di viaggio e reciprocamente il viaggio come sistema narrativo, arrivando ad interpretare la scrittura stessa come un «atto di spaesamento», o ancora un allontanamento dal noto e dal familiare, verso una conquista dell’identità. Si può concludere che ogni forma narrativa, in certo qual modo, includa al suo interno una forma di viaggio, così come ogni viaggio si costituisca come un movimento in uno spazio-tempo che implica una struttura intrinsecamente narrativa. Accanto a queste riflessioni teoriche, si è osservata una multiforme e complessa costellazione di produzioni letterarie incentrate sul nucleo tematico del viaggio, secondo le sue tante sfaccettature di percorso fisico e immaginario, spaziale e temporale, reale e metaforico, realistico e utopico. La molteplicità e poliedricità di queste ragioni e forme di viaggio impediscono una definitiva e univoca definizione del genere dell’«odeporica», termine derivato dal greco ὁδοιπορία, «viaggio», che definisce precisamente lo studio della letteratura riguardante il viaggio, in tutte le sue sfaccettate ed eterogenee produzioni. All’interno del genere odeporico alcuni tratti comuni evidenziati in queste produzioni riguardano i rapporti fra la narrazione e la descrizione, con una spiccata preponderanza di quest’ultima, sia che essa derivi dall’esperienza diretta del viaggiatore-scrittore, sia che essa si basi su fonti esteriori o costruzioni immaginarie (come nei “viaggi archeologici” o nel genere utopico). Inoltre, particolarmente rilevante risulta l’elemento del “dialogismo” dei racconti di viaggio, in quanto questi si adeguano al bisogno di “raccontare” un’esperienza, ma anche in quanto essi presentano una struttura implicitamente comparativa, che pone in relazione due visioni: quella del mondo “di partenza”, assunta come punto di riferimento per il viaggiatore-scrittore e per i suoi lettori, e quella del mondo “Altro”, della destinazione del viaggio, che si pone necessariamente come termine di paragone dell’osservazione.

 

Il legame che l’odeporica intrattiene con i concetti della spazialità e della rappresentazione del territorio, oltre a costituire una fonte per la possibile descrizione delle “immagini” che formano un dato luogo (per offrire cioè delle possibili “letture” di quest’ultimo, intendendo il testo come esempio di costruzione di un’immagine spaziale), può anche rivelare le modalità culturali con cui l’osservazione dei nuovi paesaggi osservati nel percorso di viaggio conforma la descrizione letteraria. È infatti possibile mettere a fuoco le implicazioni complementari fra letteratura di viaggio e descrizione di uno spazio geografico: il lavoro sulle forme letterarie nelle quali il racconto di viaggio è organizzato si costituisce come il riconoscimento delle configurazioni narrative in cui si realizza, sul piano letterario, un’esperienza di osservazione del mondo associabile metaforicamente ad una sua lettura. Lettura che non avviene secondo uno sguardo neutro, ma che, al contrario, ricerca nel mondo conferme o smentite di un paradigma già assimilato, di un “libro già letto”, modello di riferimento tramite il quale il viaggiatore si interfaccia con l’elemento nuovo. Questo è particolarmente evidente se si prende in considerazione un genere letterario specifico all’interno della categoria dell’odeporica, quello delle “relazioni di viaggio” composte dagli esploratori e dai viaggiatori che compivano percorsi di scoperta e di esplorazione sulla superficie del globo.

 

Fra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento è possibile stabilire un corpus di testi appartenenti alla letteratura di viaggio incentrati sulle esplorazioni nel Nuovo Mondo che, a partire dal prototipo per eccellenza fornito dai resoconti di viaggio di Cristoforo Colombo, si diffonde in particolar modo in area italiana. Secondo la cultura rinascimentale, l’homo viator, in grado di conquistare il mondo attraverso il sapere e l’esperienza, realizza nel viaggio il compito stesso affidatogli da Dio, che lo ha posto al centro dell’universo per permettergli, in questo modo, di meglio percorrerlo e scoprirlo. Questa vasta produzione di relazioni di viaggio e diari di bordo riportata in patria da viaggiatori ed esploratori, in anni segnati dal fervente sviluppo editoriale, ha giocato un ruolo centrale nella catalogazione delle informazioni geografiche, dando un forte contributo alla conoscenza in Europa delle nuove scoperte. In questi secoli domina l’idea della rappresentazione del mondo attraverso la metafora del «libro della natura», considerato come anch’esso scritto da Dio al pari delle Sacre Scritture: all’idea della possibile “lettura” del mondo naturale, sulla base della stessa idea metaforica, si associa come conseguenza anche il possibile sviluppo della cartografia nei secoli seguenti. In quest’ottica, la possibilità di decifrare e descrivere un percorso spaziale nel mondo attraverso l’esperienza pragmatica appare quindi giustificato dalla presenza di questo pre-testo, da scavalcare attraverso la curiositas (non più condannata, ma assunta a virtù) e da indagare nelle sue parti sconosciute. Lo studio di Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea a turismo globale, mette l’accento sul legame fra l’esperienza del viaggio e l’affermazione della scienza moderna:

A differenza degli studiosi medievali, i viaggiatori umanisti erano in grado di considerare assodato il «noto» e concentrarsi su ciò che era ignoto alla letteratura tramandata, o che essa non rappresentava o deformava. Questa presupposizione di una tradizione sicura è implicita in un’epoca di «scoperte» e nella ridefinizione del viaggiatore iconografico come esploratore di mondi nuovi e popoli sconosciuti. […] La scienza moderna sorge in un contesto in cui gli europei diventano viaggiatori coscienti di sé all’interno e all’esterno dei confini di una civiltà, in un contesto di esperienza in cui si impongono all’attenzione dei responsabili in un mondo ordinato e intellegibile popoli, piante, animali e paesaggi nuovi.

Questa concezione influenza anche la concezione successiva dello scopo e delle giustificazioni del viaggio nei secoli seguenti: nel Settecento il viaggiatore, attraverso l’esperienza concreta del movimento e dell’osservazione diretta del mondo, si pone come finalità quella di verificare e giustificare quel «libro della natura», quel testo anteriore, essendo disponibile ad emendarlo tramite l’esperienza diretta. Questo atteggiamento sarà alla base delle nuove scoperte geografiche dei secoli XVII-XVIII, nelle quali il viaggio diviene esperienza di “osservazione” per eccellenza, e costituisce il punto di partenza proprio per la diffusione del genere letterario della “relazione di viaggio”. Questa forma letteraria si inserisce nel seno di un vasto insieme di compilazione di opere di viaggio, resoconti di esperienze, testi di compilazione, diari di bordo, raccolte epistolari, incentrate sull’esperienza del viaggio che sono state assunte ad immagine stessa del fenomeno dell’Illuminismo. La letteratura di viaggio di questo secolo raccoglie l’eredità della tradizione quattro-cinquecentesca dei resoconti di viaggio degli esploratori europei e dei suoi modelli narrativi, al contempo coniugando questa tipologia testuale con le conoscenze derivate dalle grandi scoperte scientifiche e filosofiche. Si assiste, infatti, ad un cambiamento dei paradigmi di riferimento della concezione scientifica e filosofica del mondo, cambiamento che investe direttamente lo sguardo del viaggiatore e la sua modalità di interpretare e di descrivere il “nuovo mondo” con cui si interfaccia nell’esperienza di viaggio: il metodo empirico e l’elevazione dell’osservazione diretta a metodologia di riferimento in ambito scientifico sono assunti a fondamento metodologico per la costruzione del grande “edificio della scienza” moderna. In questo spirito si colloca anche l’intento dei viaggiatori ed esploratori che, assumendo una prospettiva non metafisica del reale ma andando alla ricerca di “fatti” osservabili, sottendono alla loro impresa l’assunto ideologico della possibilità di comprendere realmente i fenomeni naturali attraverso l’esperienza diretta. Il viaggio diviene quindi un presupposto della scienza, un metodo strutturato ed elaborato per “impadronirsi” del mondo: e se l’osservazione è assunta a metodo della scienza, quale esperienza migliore del viaggio può produrre osservatori?

 

In sostanza, l’esperienza del viaggio e la sua scrittura assumono un significato particolare nella storia della cultura, e si intrecciano profondamente nel momento in cui essi divengono il metodo per eccellenza della scoperta, della comprensione e della catalogazione del mondo: il movimento, la curiosità, l’osservazione e la loro traduzione letteraria si fondono in un nesso che ha giocato un ruolo centrale non solo a livello di esperienza letteraria nell’odeporica, ma più profondamente nel cuore stesso dei meccanismi della nostra conoscenza del reale.

 

 

Per saperne di più:

Un’introduzione sul legame fra viaggio e letteratura si può trovare negli studi di Pino Fasano, Letteratura e viaggio, Roma-Bari, Laterza, 1999, e di Eric Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, Bologna, Il Mulino, 1991. Sul genere dell’odeporica si possono leggere i contributi più precisi di Luigi Monga, Travel and Travel Writing: An Historical Overview of Hodeporics, in «Annali d’Italianistica», Vol.14, 1996, pp. 6-54 e Davide Papotti, Attività odeporica ed impulso scrittorio: la prospettiva geografica sulla redazione di viaggio, in «Annali d’Italianistica», vol. 21, 2003, pp. 393-407. Sul rapporto specifico fra osservazione della natura, viaggio e rappresentazione artistica fra XVIII e XIX secolo, rimando al ricchissimo studio di Barbara Maria Stafford, Voyage into Substance. Art, Science, Nature, and the Illustrated Travel Account, 1760-1840, Cambridge – Massachusetts – Londra, MIT Press, 1984.

 

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«Era un niente, in quei giorni, avviare la rivoluzione»: La visione della Resistenza nei Piccoli Maestri di Luigi Meneghello

Nel panorama della “letteratura di Resistenza” si colloca anche un testo dalle caratteristiche del tutto peculiari, difficilmente classificabile tanto nell’ambito della registrazione storica e documentaria sulla Resistenza, quanto in quello del libro di memorie che compongono questo genere: i Piccoli maestri di Luigi Meneghello (1922-2007).

 

L’autore, originario del comune di Malo, nell’alto Vicentino (reso celebre dal suo primo romanzo, Libera nos a Malo, 1963), aveva compiuto la sua formazione a Vicenza e a Padova, partecipando alle attività dei Gruppi Universitari Fascisti (GUF), come rappresentante dei quali aveva vinto i “Littoriali” nel campo della dottrina fascista nel 1940. Dopo l’incontro con l’antifascista vicentino Antonio Giuriolo (1912-1944), Meneghello aveva però rivisto profondamente la sua adesione al Fascismo e, a seguito dell’Armistizio del 1943, aveva organizzato e partecipato in prima persona alla Resistenza contro i fascisti e l’occupazione tedesca, fondando il gruppo di giovani partigiani denominati i “piccoli maestri”.

 

A loro si deve il titolo del romanzo, che narra delle rischiose e spericolate azioni del gruppo di giovanissimi studenti liceali e universitari (Gigi, Lelio, Enrico, “Bene”, Nello, Dante, Franco, Renzo, Marietto), considerati i «discepoli» dello stesso Antonio Giuriolo (il “Capitano Toni”), importante figura della Resistenza italiana che in quegli stessi mesi stava organizzando numerosi altri gruppi armati sparsi fra Veneto, Friuli ed Emilia-Romagna. A partire dal primo raduno dei giovani partigiani sui monti bellunesi, presso la valle del Mis, dove si raccolgono per sottrarsi all’arruolamento obbligatorio imposto dalla Repubblica di Salò e organizzare una Resistenza armata, le vicende del romanzo ripercorrono poi le loro rappresaglie messe in atto nel Vicentino. I “piccoli maestri” sono infatti attivi in particolare sull’Altopiano di Asiago, luogo in cui subiscono diversi rastrellamenti tedeschi che li portano a disperdersi, per riunirsi poi nella zona dei Colli Berici (attorno a Torreselle) e infine a Padova, dove partecipano all’insurrezione della città nel 1945, conclusasi con l’ingresso delle truppe alleate.

 

Sebbene il proposito di Meneghello, come afferma egli stesso nell’Introduzione alla seconda edizione del romanzo (1976), sia quello di non prendere «nemmeno in considerazione la possibilità di adoperare altra materia che la verità stessa delle cose, i fatti reali della nostra guerra civile», l’autore va ben oltre la cronaca, per rappresentare, attraverso uno sguardo del tutto personale, quella che appare come la rocambolesca avventura di un gruppo di giovani somiglianti più a dei banditi che a dei soldati - del resto The outlaws, i banditi, sarebbe dovuto essere il titolo dell’opera - e che, in fondo, non erano «mica buoni a fare la guerra».

 

La rappresentazione delle vicende della Resistenza rintracciabile nei Piccoli maestri è infatti incentrata su una prospettiva antiretorica e antieroica che aderisce totalmente agli avvenimenti per come sono stati vissuti dallo stesso autore, senza sfociare nel sentimentalismo, nella celebrazione eroica e nel trionfalismo che avevano caratterizzato altri testi della “letteratura partigiana”. Al contrario, la volontà dell’autore è proprio quella di distanziarsi, attraverso il tono umoristico e una sottile ironia propria della sua lucida scrittura, dall’afflato sentimentale e da tutti quei tòpoi della Resistenza che avevano pervaso l’immagine neorealistica di quel fenomeno, per raccontare piuttosto la confusione, la disorganizzazione, i difficili rapporti con gli altri gruppi di combattenti, i fallimenti, le «fughe» dei giovani partigiani.

 

Attraverso tutta la narrazione dei Piccoli maestri, il gioco della finzione si accompagna costantemente alla riflessione dell’autore sugli eventi storici e sul loro significato. Nell’offrire il ritratto della Resistenza e del modo in cui prende forma, quasi in modo spontaneo, dall’entusiasmo di chi si opponeva al fascismo, Meneghello evidenzia soprattutto la mancata possibilità di creare un’insurrezione che fosse veramente totale, in grado di unire in un unico fronte gli schieramenti che andavano formandosi e che spesso, più che incontrarsi, si scontravano: dai monarchici, ai cattolici, ai comunisti.

 

«Si doveva proclamare l’insurrezione, subito. Non la resistenza, ma l’insurrezione: il fondo della situazione, la sua carica esplosiva era politica, non convenzionalmente militare; bisognava impostare subito una guerra politica e popolare, non una resistenza generale e attesistica; agire, non prepararsi. Bisognava dire: andiamo giù in paese, stasera, ora. Chiamiamo la gente in piazza, suoniamo il tamburo, esponiamo le bandiere, i ritratti: possiamo esporre insieme i ritratti del Re, del Papa e di Lenin; tutto il mondo è con noi. Gridiamo: viva i sovieti! viva Gesù Eucarestia! Il resto s’inventa da sé.
Era un niente, in quei giorni, avviare la rivoluzione, l’Alto Vicentino avrebbe preso fuoco in poche ore. Bastava pensarci. Se c’è un comitato nell’aldilà, che giudica e registra i meriti patriottici, questa non ce la perdoneranno mai.» (I piccoli maestri, pp. 41-42)

 

La rappresentazione della situazione dell’alto Vicentino all’indomani dell’Armistizio, nel momento in cui si raccolgono vari gruppi di partigiani per organizzare quella che assumerà la caratterizzazione peculiare della “guerra per bande”, si concentra sull’evidente confusione mentale che regnava fra i militanti: oltre all’intento di schierarsi militarmente contro le forze fasciste, l’autore sottolinea l’importanza - a quel tempo non compresa - della componente politica come fondamento dell’esperienza resistenziale, mettendo in luce come si sarebbe rivelata necessaria, più che una resistenza per bande, una vera e propria rivoluzione. La Resistenza, che pure occupa una grande rilevanza storica e civile messa in primo piano anche nel romanzo, mostra in queste pagine anche il proprio volto di “occasione mancata”: un evento che non si è in fondo mostrato in grado di sradicare le radici fasciste e portare ad un vero e profondo rinnovamento dell’Italia, come invece un’autentica rivoluzione avrebbe potuto fare.

Naturalmente ci avrebbero presto sterminati, almeno la prima infornata, e poi anche la seconda e la terza. Ma almeno l’Italia avrebbe provato il gusto di ciò che deve voler dire rinnovarsi a fondo, e le nostre lapidi sarebbero oggi onorate da una nazione veramente migliore. (I piccoli maestri, p. 42)

Si tratta di una prospettiva notevolmente diversa dalla rappresentazione che altri testi del “neorealismo” avevano fatto della Resistenza, capace di prendere le distanze dalla visione eroica di chi vi aveva collaborato e di cosa essa aveva effettivamente costituito per il Paese: il tentativo di riscatto della Nazione, per Meneghello, non si compie fino in fondo.

 

La possibilità per questa riflessione nasce anche dalla distanza temporale intercorsa fra l’esperienza della Resistenza e l’elaborazione dei Piccoli maestri: la prima edizione del romanzo data infatti 1964 e, anche se i primi abbozzi e nuclei tematici del testo vengono composti già dal 1945, si è evidentemente frapposto un «distacco» temporale fra quell’esperienza dell’autore e il momento della scrittura. Questo distacco permette al Meneghello ormai adulto, divenuto professore all’Università inglese di Reading (presso la quale dirige dal 1961 al 1980 il Dipartimento di Studi Italiani), tanto di riflettere sulla materia resistenziale, quanto di giudicare la sua stessa personale vicenda, quella del Meneghello giovane studente e partigiano. Alla valutazione del significato storico e civile della Resistenza si affianca, infatti, la riflessione sul significato biografico ed esistenziale che essa ha rivestito in quell’esperienza di formazione e di crescita di un gruppo di studenti vicentini. Se per il Paese la Resistenza non si è mostrata all’altezza di un profondo sradicamento della presenza fascista, e si mostra quindi come una “rivoluzione mancata” per l’Italia sul piano politico e storico, essa ha tuttavia costituito, per quel gruppo di giovani che l’hanno vissuta con entusiasmo e convinzione, una vera e propria “rivoluzione interiore”. Nella prospettiva di coloro che hanno vissuto il Fascismo, che hanno partecipato attivamente alla sua educazione e alla sua dottrina e che ora si trovano invece a combatterlo con il «parabello» in mano, la Resistenza appare come un’occasione di “rieducazione”, una fuoriuscita da ciò che il giovane Meneghello definisce il «pozzo» in cui essi sono stati immersi, che permette ora di rieducarli ai veri valori della cultura italiana, incarnati della figura stessa del loro maestro Giuriolo. «L’intera esperienza dei miei piccoli maestri», commenta Meneghello durante un convegno del 1986, «si può vedere quasi come un corso di perfezionamento universitario, la conclusione della nostra educazione». Alla prospettiva rieducativa si aggiunge, più profondamente, anche l’interpretazione dell’esperienza della Resistenza come una forma di punizione ed espiazione delle colpe della loro educazione e, forse, di tutto il Paese, entrambi macchiati dal Fascismo:

Oggi si vede bene che volevamo soprattutto punirci. La parte ascetica, selvaggia, della nostra esperienza significa questo. Ci pareva confusamente che per ciò che era accaduto in Italia qualcuno dovesse almeno soffrire; in certi momenti sembrava un esercizio personale di mortificazione, in altri un compito civico. Era come se dovessimo portare noi il peso dell’Italia e dei suoi guai… (I piccoli maestri, pp. 103-104)

Le due considerazioni parallele riguardo al valore storico, civile e al contempo biografico ed esistenziale della Resistenza si intrecciano fortemente una all’altra, nel tentativo di dare una risposta alle continue domande di senso poste da Meneghello e da quella che, scherzosamente, veniva proprio per questo definita la “banda dei perché”.

 

 

Per saperne di più:

Il testo di Meneghello si può leggere nella recente edizione: Meneghello Luigi, I piccoli maestri, BUR, Milano, 2018. Per comprendere alcuni importanti aspetti dell’opera, si possono leggere le belle introduzioni di: Corti Maria, Introduzione, in Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Mondadori, Milano, 1986, pp. V-XVI, ora presente nell’edizione sopracitata, pp. III-XVI; Segre Cesare, Introduzione, in Luigi Meneghello, Opere, Rizzoli, Milano, 1997, pp. III-XXIV.

Molti contributi si ritrovano negli Atti del Convegno: Anti-eroi. Prospettive e retrospettive sui “Piccoli maestri” di Luigi Meneghello, con interventi di C. Passerini Tosi, L. Meneghello, B. Visentini, F. Marenco, E. Franzina, M. Isnenghi, M. Corti, R. Zorzi, Labrina Editore, Bergamo, 1987.

 

Nella fotografia scattata dall'autrice: veduta del viale da cui entrò in Vicenza la colonna alleata coi partigiani nel 1945.

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Musica e armonia a corte: la lezione di Castiglione

Nell’ambito della cultura rinascimentale, la musica era un’arte che andava formando la propria identità anche storica. I fattori che determinano la presa di coscienza dell’arte musicale fra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento sono in particolare due: la progressiva emancipazione della tecnica musicale dall’impostazione tardoantica e medievale, con l’affermazione del linguaggio tonale; e l’invenzione della stampa musicale, con l’utilizzo da parte degli stampatori di specifici caratteri mobili.

 

La centralità dell’arte musicale nella cultura rinascimentale si può rintracciare anche nel dialogo Il libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione (1528), testo chiave della cultura rinascimentale e vero e proprio “ritratto” del mondo della corte umanistica. Il dialogo si svolge alla Corte di Urbino, presso il palazzo di Guidobaldo da Montefeltro, dove un gruppo di invitati trascorre la serata svolgendo il gioco di società prescelto, quello di «formar con parole un perfetto cortegiano», ossia di costruire, attraverso le sequenze dialogiche dei vari partecipanti al gioco, un ritratto del perfetto modello dell’uomo di corte descrivendone, in particolare, il comportamento e le virtù a cui ispirarsi, ma anche l’educazione e i suoi rapporti con il Principe.

 

In primo luogo, la presenza della conoscenza dell’arte musicale si rintraccia come nucleo tematico all’interno delle tappe fondamentali dell’educazione del “perfetto cortegiano” delineate all’interno del testo. La padronanza della conoscenza musicale, nonché l’abilità nel canto e nell’uso degli strumenti musicali, vengono delineati fin da subito dai dialoganti fra le discipline e le attività a cui il cortegiano deve sapersi dedicare, dopo l’abilità nell’uso delle armi e la conoscenza delle lettere. Nel I libro, paragrafo XLVII, si legge infatti come il perfetto cortegiano debba essere anche un «musico», in particolare come debba essere «sicuro a libro» (ossia in grado di conoscere la partitura e la teoria musicale) e, al contempo, come debba saper padroneggiare l’utilizzo di «varii instrumenti». Queste competenze musicali vengono elencate e delineate nello specifico qualche paragrafo dopo, nel II libro, par. XIII:
«Bella musica […] parmi il cantar bene a libro sicuramente e con bella maniera; ma ancor molto piú il cantare alla viola perché tutta la dolcezza consiste quasi in un solo e con molto maggior attenzion si nota ed intende il bel modo e l'aria […]. Ma sopra tutto parmi gratissimo il cantare alla viola per recitare; il che tanto di venustà ed efficacia aggiunge alle parole, che è gran maraviglia. Sono ancor armoniosi tutti gli instrumenti da tasti, perché hanno le consonanzie molto perfette e con facilità vi si possono far molte cose che empiono l'animo di musicale dolcezza. E non meno diletta la musica delle quattro viole da arco…».

 

A partire dall’abilità della lettura della partitura musicale (cantar a libro) fa seguito il cantare con accompagnamento musicale (cantare alla viola), attività che spesso veniva associata alla recitazione di un testo poetico (nelle forme del “mottetto” o della “frottola”, brevi componimenti di metrica e di schema rimico vario). Come osservato da Haar, questa pagina del testo di Castiglione sottolinea la legittimazione e l’elevazione progressiva dell’educazione musicale all’interno delle corti europee. L’insistenza dell’autore sulla “professionalità della musica” non esclude il suo aspetto performativo e unisce dunque tanto la conoscenza teorica quanto l’aspetto pratico dell’educazione musicale, la scienza e la pratica, permettendo così alla musica di assumere il proprio ruolo all’interno del programma culturale “umanistico”.

 

In secondo luogo, la centralità dell’arte musicale è rintracciabile all’interno del Cortegiano come “attività collettiva”, come parte di una precisa serie di costumi codificati e attività sociali riconosciute che andavano formandosi nella corte rinascimentale. A partire dalla descrizione del palazzo dei Montefeltro con cui si apre il dialogo fanno la loro comparsa, figurando fra le ricchezze con le quali Federico da Montefeltro ha voluto ornare il proprio palazzo, anche «instrumenti musici d’ogni sorte» (Libro I, par. II): questa descrizione introduttiva ritrae la corte di Urbino non solo come arricchita da oggetti materialmente rari e preziosi, che ne denotano lo splendore e lo sfarzo, ma si sofferma in particolar modo su quegli oggetti che indicano il prestigio culturale della corte, dove convivono pittura, scultura, lettere e anche musica. Anche gli “instrumenti” musicali sono quindi elemento simbolico di quelle arti che si esercitano nella corte, che ne costituiscono il prestigio e che ne compongono il ritratto. Questa presenza ritorna anche all’interno della narrazione del Cortegiano, in cui sono inserite nella finzione narrativa le attività serali a cui i personaggi presenti alla corte si dedicano nel palazzo di Urbino, fra le quali compaiono anche la musica e la danza. Castiglione conclude infatti il I libro con una scena collettiva nella quale il musico Barletta intrattiene la corte prima dello scioglimento dei convitati per la notte (Libro I, par. LVI). Come il perfetto cortegiano viene teorizzato nel dialogo da perfetti uomini di corte all’interno della “corte” per eccellenza, il modello di Urbino, così l’autore sceglie di inserire fra le attività della corte ideale, oltre al gioco della conversazione, l’attività della musica.

 

Tuttavia, la questione si può spingere oltre. La concezione musicale intesa come armonia, come insieme di rapporti numerici e di intervalli matematici fra note, di consonanze e dissonanze, fornisce una più profonda motivazione alla presenza della musica nella cultura umanistica: non solamente a livello tematico pratico, ma anche in un’accezione innanzitutto teorica, basata su un riferimento alla filosofia neoplatonica nota a Castiglione. Per lo stesso fondatore del neoplatonismo fiorentino, Marsilio Ficino, la componente teorica della musica occupava infatti un ruolo di rilievo all’interno del sistema delle arti: il concetto alla base della concezione ficiniana della musica era quello della “consonanza”, che viene ricondotta espressamente alla “proporzione” e che fa parte dell’essenza della bellezza. Per Ficino, l’anima dell’uomo è una sostanza costituita da armonia musicale, non originata dalle “complessioni stesse” dei corpi e degli umori, bensì un’armonia spirituale non legata ad alcuna qualità o movimento dipendente dal corpo. Sulla base di intervalli, consonanze e dissonanze che stanno alla base del funzionamento della musica quanto di quello, analogo, dell’anima, si teorizzavano le influenze che l’arte musicale poteva avere sullo spirito dell’uomo, le capacità di alleviarlo o turbarlo, ispirarlo alla virtù o spingerlo verso il vizio, agendo allo stesso modo in cui si pensava agissero gli influssi astrali dei pianeti e dei loro movimenti.

 

Dunque anche attraverso la conoscenza pratica dei meccanismi e degli effetti degli intervalli musicali si indagava il potere benefico o malefico della musica sull’animo dell’uomo. Ne consegue, sul piano pratico, che sulla base di tale armonia si debba orientare lo stesso comportamento del perfetto uomo di palazzo: l’influenza della musica può effettivamente agire sul piano morale e orientare il cortegiano verso i valori centrali della sua formazione. Come le note in una partitura musicale, così l’uomo di palazzo deve agire di modo che le sue azioni producano lo stesso effetto armonico “di cosa sprezzata”, in cui l’artificio è celato per evitare la terribile affettazione e ogni gesto si accorda perfettamente alle circostanze, producendo una sorta di “concerto” armonico fra tutte le virtù. Questa immagine si ritrova infatti nel paragrafo VII del II libro, in cui i concetti del campo semantico musicale della “concordanzia” e della “dissonanzia” fra note sono traslati ad indicare le azioni del cortegiano:
«Però è necessario che 'l nostro cortegiano in ogni sua operazion sia cauto, […] e non solamente ponga cura d'aver in sé parti e condizioni eccellenti, ma il tenor della vita sua ordini con tal disposizione, che 'l tutto corrisponda a queste parti, e si vegga il medesimo esser sempre ed in ogni cosa tal che non discordi da se stesso, ma faccia un corpo solo di tutte queste bone condizioni; di sorte che ogni suo atto risulti e sia composto di tutte le virtú, […] e tutte sono talmente tra sé concatenate, che vanno ad un fine e ad ogni effetto tutte possono concorrere e servire».

 

Parallelamente a questa premessa teorica riguardante l’animo dell’uomo, nel libro del Cortegiano l’armonia neoplatonica viene assunta quale elemento metaforico a cui associare i comportamenti del perfetto uomo di palazzo così come gli stessi equilibri della corte di Urbino, all’interno di un progressivo processo di idealizzazione messo in atto da Castiglione. Precisamente come l’animo umano è regolato dal principio armonico, così lo è di fatto anche il mondo della corte e la natura tutta, secondo la perfetta corrispondenza neoplatonica fra macrocosmo e microcosmo: l’armonia si presenta tanto nelle azioni del perfetto cortegiano, descritto nel dialogo, quanto nella stessa attività di conversazione e di gioco dei convitati, in cui i personaggi uniscono in armonia le loro voci, quasi fossero parte di un’orchestra in cui le varie tonalità degli strumenti “acccordati” fra loro formano un unico e concorde concerto armonico. Infine, nel passaggio finale del dialogo, l’armonia e la perfezione del mondo chiuso della corte trovano una corrispondenza con il mondo esteriore: secondo una corrispondenza neoplatonica, anche il mondo naturale è infatti governato dalle leggi armoniche dell’armonia.

 

Mondo della corte e mondo esterno si specchiano l’uno nell’altro: l’armonia della “macchina del mondo”, del macrocosmo, si riflette nella concordia del microcosmo, la corte. Nel IV libro, nello scoprire l’alba che ha sorpreso i personaggi ancora intenti al gioco, si descrive il paesaggio idillico e armonioso dominato dalla luce mattutina, mentre alle voci dei personaggi che hanno partecipato al dialogo si sostituiscono, ancora una volta con un termine musicale, i «dolci concenti dei vaghi augelli».

 

 

Per saperne di più:


Il testo di Castiglione si può facilmente reperire nell’edizione a cura di Amedeo Quondam, Il Libro del Cortegiano, Milano, Garzanti, 2013.
Alcuni importanti studi sul tema della musica nel Cortegiano sono: Haar James, The Courtier as Musician: Castiglione’s view of the science and art of Music, in Castiglione: the Ideal anc the Real in Renaissance Culture, a cura di R. W. Hanning e D. Rosand, Yale University Press, New Haven - London, 1983, pp. 165-189; Kemp Walter, Some notes on Music in Castiglione’s “Il libro del Cortegiano”, in Cultural aspects of the Italian Renaissance: Essays in Honour of Paul Oskar Kristeller, ed. Cecil H. Clough, New York, 1976, pp. 354-369.
Sulla tematica della musica nel Rinascimento e sul concetto di armonia: Pirrotta Nino, Musica e Umanesimo, in «Lettere italiane», vol. 37, 1985, pp. 453-470; Spitzer Leo, L'armonia del mondo. Storia semantica di un'idea, a cura di V. Poggi, Bologna, Il Mulino, 2009.

 

Immagine di corredo: foto di Nietjuh su Pixabay, licenza CC0.

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Il paesaggio letterario: fra rappresentazione della natura e percezione dell’io

 

Durante la seconda metà del XVIII secolo, tanto nel campo dell’arte figurativa quanto in quello della letteratura, si assiste al proliferare di una serie di immagini e rappresentazioni paesaggistiche di luoghi ameni e solitari, ma anche all’allestimento di giardini presso le case aristocratiche, alla moda della villeggiatura in campagna, nonché alla descrizione letteraria di scenari naturalistici che si moltiplicano in tutta Europa ed in particolare nel contesto della cultura francese. Nel campo dell’arte figurativa e della letteratura si manifesta il passaggio da quella che si può definire una “descrizione della natura” alla comparsa di un inedito “paesaggio”: il mondo naturale, che prima aveva occupato un ruolo marginale, di sfondo, rispetto al vero soggetto della rappresentazione (artistica o letteraria), viene posto ora al centro dell’immagine, diviene cioè il focus della rappresentazione.

 

Il “paesaggio” viene innanzitutto definito, secondo gli studi di Jakob, come una «rappresentazione in relazione spaziale con la natura»: ciò che lo differenzia dalla “descrizione” del mondo naturale consiste dunque nel suo essere in qualche modo un oggetto “relazionale”, ossia il prodotto di una relazione che si instaura tra un soggetto – il quale conduce l’esperienza di osservazione da una propria prospettiva – e la natura circostante. L’importanza di questo cambiamento risiede precisamente nella nuova centralità assunta dall’operazione del soggetto, che in qualche modo “ritaglia” nel mondo naturale un ridotto quadro di senso creandone un’immagine artistica. In quest’operazione estetica è stato rilevato il bisogno di ritrovare un nuovo orizzonte di senso per l’uomo, nel momento in cui andava venendo meno una precedente e pacifica rappresentazione del mondo di tipo cartesiano, basata sulla razionalità: come sottolinea Jakob, la crisi del logos, di un ordine “naturale” presente nell’universo, avrebbe scatenato la ricerca di una soluzione alternativa nel campo dell’arte, nel “ritaglio” di «frammenti dotati di senso che possano essere applicati alla totalità», quasi nel tentativo di «addomesticare la natura».

 

Lo studio del “paesaggio letterario” concerne dunque la codificazione del mondo esterno all’interno di un quadro culturale, ma anche la percezione che il soggetto ha di sé al suo interno e, infine, i rapporti fra questi due elementi, fra io e natura. Questa relazione subisce una svolta nel corso del XVIII secolo: la visione della natura come totalità razionale, come “macchina perfetta”, ordinata e autoregolatrice, viene messa in crisi, abbandonando una visione unicamente razionalista e “sistematica” del mondo e conferendo maggiore rilevanza alla sensibilità del soggetto, dopo la “rivoluzione empirista” di Locke (con il Saggio sull’intelletto umano, 1690). L’osservazione empirica soppianta così l’esprit de système, la verifica sperimentale dei fenomeni fisici diviene fondamentale rispetto alla congettura teorica. Si verifica un vero “ritorno alla natura” attraverso un approccio empirico che mette in crisi la precedente visione: si afferma il primato delle scienze naturali, della botanica e della chimica, il mondo naturale viene posto al centro dell’interesse di scienziati, letterati e filosofi che moltiplicano la produzione di trattati sulla descrizione della natura.

 

Fra questi, spicca l'Histoire naturelle, générale et particulière di Buffon (1707-1788), pubblicata a partire dal 1749 dal naturalista francese che si propone di descrivere l’intero mondo della natura in tutte le sue forme, dalla geologia al mondo vegetale, dal mondo animale alla storia dell’uomo, assumendo la connotazione di una descrizione della natura nel suo insieme, nella sua complessità totale (générale) e in ogni suo elemento compositivo, animale, vegetale e minerale (particulière). Quella della Natura diviene una vera e propria “storia” che lo sguardo del naturalista vuole cogliere nel suo divenire, cercando di chiarirne anche i complessi aspetti legati alla formazione al mutamento, nonché nel suo differenziarsi internamente nelle varie parti in tutte le sue sfumature intermedie. La sua visione sarà ripresa anche da Diderot (1713-1784), il quale elabora una visione del mondo naturale basata sull’unità della natura e sulla libera combinazione delle molecole: edificando la propria ricerca unicamente sui dati empirici e sull’osservazione dei fenomeni naturali, Diderot inserisce l’evoluzione del mondo naturale in una catena temporale che rispetta leggi fisiche del tutto proprie, organizzata secondo un libero passaggio dall’organico all’inorganico determinato materialisticamente dall’organizzazione delle molecole. Molte delle teorie di Diderot si ritroveranno nell’Encyclopédie, il grandioso progetto di divulgazione scientifica intrapreso nel XVIII secolo (a partire dal 1751) proprio in questo clima culturale.

 

Il mutamento degli schemi concettuali con cui si osserva il mondo naturale comporta dei cambiamenti profondi anche sulla percezione che l’essere umano ha nei confronti di sé: nel XVIII si modifica profondamente la visione del soggetto stesso, non più inteso classicamente come un qualcosa di “dato”. Se con Locke la percezione sensibile veniva assunta a fondamento dell’esperienza umana, una vera rivoluzione del soggetto viene operata da Rousseau (1712-1778): secondo questo autore, l’essere umano percepisce la propria esistenza grazia ad un intimo sentimento dell’io, una forma di coscienza sentimentale alla base di ogni esperienza sensoriale e razionale. La natura dell’uomo si compone di disposizioni primitive e sentimentali verso il mondo, da cui l’essere umano si sarebbe tuttavia allontanato con lo sviluppo della civiltà, che lo avrebbe portato ad un distacco dalla propria natura originaria, da un contatto pieno e diretto con il reale. La possibilità di conoscenza del mondo naturale, ossia la possibilità dello sguardo dell’uomo verso la natura, poggia le sue basi sulla soggettività umana: come osserva Starobinski, secondo Rousseau la struttura fenomenica del mondo viene indagata sempre da un essere umano dotato di una propria coscienza, che si scontra con il velo di apparenza a cui è legato il mondo reale. Di conseguenza, la realtà “vive” solamente nel momento in cui entra in contatto con l’io: come viene detto nell’ Émile (1762), «c’est dans le coeur de l’homme qu’est la vie du spectacle de la nature». Il rapporto con il mondo naturale non consiste per Rousseau in una reinterpretazione del mondo da parte del soggetto, ma in una proiezione di questo sulla natura, in un percorso che porta soggetto e natura ad avvicinarsi, fino a scomparire nell’io. Sempre più la rappresentazione del paesaggio in letteratura diviene perciò il luogo della soggettività e dell’effusione sentimentale, anticipando la visione romantica: i bellissimi paesaggi letterari della Nouvelle Héloïse (1761), fra i quali quello alpino descritto nella Lettera XXIII, rappresentano questo nuovo statuto della rappresentazione del mondo naturale.

Ero partito rattristato dalle mie pene e consolato dalla vostra gioia: e così mi ritrovavo in un certo stato languido che non è senza incanto per un cuore sensibile. […] Avrei voluto fantasticare, ma sempre qualche spettacolo inaspettato mi distraeva. Ora immense rupi mi pendevano sul capo come rovine. Ora alte e fragorose cascate m’inondavano con il loro fitto pulviscolo. Ora un torrente eterno mi spalancava accanto un abisso di cui i miei occhi non ardivano misurare la profondità. A volte mi smarrivo nell’oscurità di un folto bosco. A volte, uscendo da un burrone, un’amena prateria improvvisamente mi rallegrava lo sguardo.

L’apparizione di un inedito “paesaggio letterario” si lega inscindibilmente con lo schema culturale in cui si inserisce la percezione del reale da parte dell’osservatore: con il venire meno di una concezione del mondo naturale razionalmente ordinata dal logos, con la nuova visione che il soggetto ha del suo posto all’interno del mondo e della sua facoltà di reinterpretarlo e di proiettarsi al suo interno, si ricerca nel paesaggio artistico una modalità alternativa per dare senso alla realtà. 

 

 

Per saperne di più:

Riguardo al paesaggio, si vedano gli studi di Michael Jakob, Il paesaggio, Bologna, Il Mulino, 2009 e Paesaggio e letteratura, Firenze, Olschki, 2005; di Alain Roger, Breve trattato sul paesaggio, Palermo, Sellerio, 2009. Le opere di Buffon si possono leggere nell’edizione: Buffon, Œuvres, a cura di S. Schmitt, Parigi, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, 2007. Sugli altri autori si possono leggere: Denis Diderot, Pensieri sull’interpretazione della natura, a cura di P. Quintili, Roma, Armando Editore, 1998; John Locke, Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. G. D’Amico e V. Cicero, Firenze, Bompiani, 2004; Jean-Jacques Rousseau, Emile o dell’educazione, a cura di M. Valensise, Milano, Rizzoli, 2009; Giulia o la nuova Eloisa, a cura di E. Pulcini e P. Bianconi, Milano, Rizzoli, 2015.

 

 

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Interagire con il reale attraverso «strumenti umani»

Come stare al mondo nella sconvolta realtà del Novecento?

 

«Con non altri che te / è il colloquio». Così si apre Gli strumenti umani, la terza maggiore raccolta poetica di Vittorio Sereni (1913-1983), pubblicata nel 1965 presso Einaudi. Essa segna una svolta nella produzione poetica dell’autore (dopo la pubblicazione di Frontiera e Diario d’Algeria): rappresenta una nuova esperienza letteraria in cui la materia tematica e lo stile del poeta si aprono a una maggiore volontà comunicativa e si rendono sempre più disponibili ad un contatto con il mondo esterno nella propria oggettività e, al contempo, nella propria “impurità”.

 

Questa volontà di interazione con il mondo e di contatto con un reale profondamente mutato nel clima del dopoguerra viene messa in primo piano in tutta la raccolta. Significativa si mostra la scelta stessa del titolo, che viene ripreso direttamente da un verso della poesia Ancora sulla strada di Zenna: «…l’opaca trafila delle cose / che là dietro indovino: la carrucola nel pozzo, / la spola della teleferica nei boschi, / i minimi atti, i poveri / strumenti umani avvinti alla catena / della necessità…». Lo stesso Vittorio Sereni si è espresso direttamente sulla scelta del titolo e sul senso che questi “strumenti umani” rivestono, tanto nella poesia citata quanto, soprattutto, nel ruolo di emblema dell’intera raccolta. In un’intervista rilasciata nel 1965 l’autore afferma:

Mi è capitato di isolare questa espressione: “gli strumenti umani”. D’altra parte, qui, gli strumenti umani, in questa poesia, hanno un significato piuttosto occasionale […]. È per significare i mezzi con cui queste poche persone, queste vite che appena si affacciano lungo la strada che viene percorsa, vivono e sopravvivono. […] Dovendo diventare il titolo del libro, in realtà ho pensato ad altro. Non sono i dimessi strumenti umani di cui si parla qui, ma restando magari dimessi, finiscono col significare altro. […] Penso, semmai, agli strumenti come ai mezzi o agli espedienti con cui un uomo affronta il reale. Non vorrei sottolineare troppo l’aggettivo “umani”, non vorrei dargli un’intonazione patetica […] ma, semmai, un’espressione più – come dire? – limitativa ed anche amara, al tempo stesso sottintendendo tutto ciò che gli strumenti umani non riescono a padroneggiare.

Questi “strumenti umani” sono dunque interpretabili come i mezzi attraverso i quali l’uomo entra in contatto con il mondo ed alludono alla capacità progettuale dell’uomo, alla sua attitudine ad incidere sul reale: vengono scelti dunque perché indicano quegli espedienti con cui l’uomo affronta l’esistenza, il mistero, il destino, includendovi anche la stessa poesia (lo “strumento” di lavoro del poeta). Ne emerge la centralità dell’interazione fra l’uomo e il mondo esterno, che viene messa in luce nel continuo richiamo alla concretezza delle circostanze in cui l’io poetico si trova immerso, ripercorse nei testi in modo diretto, talvolta duro.

 

La poesia di Sereni, infatti, si confronta direttamente con il reale, riducendo (in parte) il tentativo di “nobilitare” la circostanza che ha spinto il poeta a scrivere (più evidente nelle precedenti raccolte), a favore invece della concretezza delle “occasioni”. Ecco allora che compaiono nei versi alcuni dettagli, oggetti, scene della vita quotidiana, come «lo zampillo della pompa nell’erba» (Situazione), «Le portiere spalancate a vuoto sulla sera di nebbia / nessuno che salga o scenda se non / una folata di smog la voce dello strillone» (L’alibi e il beneficio). Si registrano con onestà i mutamenti del paesaggio avvenuti nel dopoguerra durante il boom economico, come nell’Intervista a un suicida: «…la sanno lunga/le acque falsamente ora limpide tra questi / oggi dritti regolari argini, lo spazio / si copre di case popolari, di un altro / segregato squallore dentro le forme del vuoto…». Ancora, si riporta in versi quella che si presenta come Una visita in fabbrica: «Lietamente nell’aria di settembre più sibilo che grido/lontanissima una sirena di fabbrica…». In questa raccolta l’impurità delle cose penetra a forza nel testo e lo contamina, in una poesia che si confronta continuamente con la «prosa del mondo». A livello metrico e stilistico questa contaminazione, secondo i critici, si riflette in uno stile che si avvicina ad un «tono narrativo», attraverso la riduzione del numero di endecasillabi a favore invece di misure versali più ampie e di una scelta lessicale accurata e di maggiore apertura al contingente e al quotidiano, nella direzione di quella che è stata definita una «poesia iniettata di prosa».

 

Va precisato che l’apertura della poesia verso la realtà esterna non è un’innovazione di Sereni, quanto piuttosto un tratto riscontrabile in molti poeti del secondo Novecento (nel contesto della neoavanguardia e del modernismo), che in modi diversi raccolgono l’eredità di Montale e testimoniano come la direzione del linguaggio artistico si orientasse con decisione verso un confronto diretto con la realtà. Il risultato a cui Sereni giunge è però un “impasto” nuovo, che ha la capacità di racchiudere il vero volto del reale e al contempo di superarne la contingenza per volgersi verso significati più profondi. La grande abilità di Sereni sta, infatti, nell’inserire in questo magma di realtà una serie di lucide riflessioni sull’uomo, sulla storia e sulla stessa poesia, perfettamente in grado di raggiungere «vette metafisiche ed esistenziali».

 

L’attenzione della poesia all’apertura verso il mondo comporta inoltre delle implicazioni riguardanti la relazione dell’io con l’altro: all’interno del nuovo orizzonte culturale e del nuovo panorama storico di quegli anni, l’io poetico è infatti chiamato anche ad un’interazione con la presenza / assenza altrui. In particolare, la poesia degli Strumenti umani è disposta ad accogliere al suo interno molte altre “voci” che interagiscono fra loro e si sommano a quella dell’io lirico, in riferimento a quelle «vite che appena si affacciano lungo la strada» che il poeta citava a proposito di Ancora sulla strada di Zenna.

 

Tutte queste voci, che costituiscono un’altra faccia dell’interazione con il reale da parte dell’io, rivestono la funzione di fornire al soggetto una nuova visione delle cose, uno sguardo sulla realtà che permette di dare al mondo una connotazione simbolica nuova. In quest’ottica assumono un ruolo centrale la comunicazione e il dialogo: la raccolta si apre infatti con un Colloquio (primo titolo della poesia incipitaria, denominata successivamente Via Scarlatti), mentre in modo frequente si inseriscono nella poesia i dialoghi diretti, come quello fra gli operai della Visita in fabbrica («“Non ce l’ho – dice – coi padroni…"») e quelli di altre persone con l’io lirico («E - disse G. sciogliendosi in uno sbadiglio - / e piantale queste cose se ti riesce…», Corso Lodi; «Ti conosco, - diceva – mascherina, / così brava a nasconderti tra incantevoli fumi…», Ancora sulla strada di Creva; «…“Non ci conosciamo, - disse- sono Isella», Al distributore; «… “Papà, - faccio per difendermi / puerilmente- papà…”», Il muro); fra questi, di forte valenza simbolica è il dialogo che avviene in Intervista a un suicida, in cui l’incontro fra l’io e l’anima del suicida si riveste di densità poetica eccezionale confrontandosi con il modello dantesco della conversazione con le anime dei defunti. In altri casi, di contro, la comunicazione è invece impossibilitata nel proprio compiersi, rimanendo una possibilità preclusa all’io: «Il telefono / tace da giorni e giorni» (Comunicazione interrotta), restando talvolta solo «…tra noi il mio sguardo di rimando / e, appena sensibile, una voce: / amore – cantava – e risorta bellezza...» (L’equivoco), in una poesia che registra anche una non superabile solitudine dell’io poetico, altro tema centrale della poetica di Sereni.

 

In effetti l’interazione con il mondo esterno, con la realtà, non viene delineata nella raccolta poetica come una circostanza sempre possibile e pacifica, univocamente di “segno positivo”: al contrario, la stessa poetica di Sereni si fa portavoce di un linguaggio che riflette costantemente su se stesso e sui propri limiti, che si offre al lettore mostrando con lucidità l’impossibilità a raggiungere fino in fondo una completa vicinanza con il mondo e con l’esistenza. Come ha sottolineato lo stesso Sereni, la scelta di porre a titolo della raccolta gli Strumenti umani assume anche un’accezione «limitativa e amara», in quanto pone l’accento su ciò che questi strumenti «non sono in grado di padroneggiare»: essi alludono anche ad una loro insita manchevolezza, rappresentano un’incolmabile distanza fra l’io e il mondo, un’inadeguatezza nell’essere completamente immersi nella vita, nella società, nei rapporti umani. La stessa poesia, dunque, è anche testimonianza della mancata possibilità di una vera interazione, di una padronanza di sé e del mondo e riflette una condizione umana incompleta, dubbiosa, che assume consistenza solo dal contrasto con ciò che invece possiede una solida realtà. Insomma, una poesia che permette di far risaltare la condizione umana facendola emergere in qualche modo “in negativo” attraverso il contrasto con il mondo circostante (come nel negativo di una fotografia). Questo il significato più completo degli Strumenti umani e dei loro versi, dei quali il poeta afferma: «Se ne scrivono solo in negativo/dentro un nero di anni» (I versi).

 

 

Per saperne di più:

Le opere principali di Vittorio Sereni si trovano in Poesie (Mondadori, Milano 1995), mentre un volume utile ad approfondire il contesto e l'azione dell'autore è Poeti italiani del secondo Novecento (a cura di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, Mondadori, Milano 2004).

 

Fotografia di Paolo Monti distribuita da BEIC sotto licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International (CC BY-SA 4.0).